1. Introduzione: le pretese della politica, le ragioni del diritto
La gestione del fenomeno migratorio è indubbiamente uno dei terreni sui quali si misura la tenuta dei diritti umani e dei principi costitutivi della civiltà giuridica contemporanea: esso, infatti, per come configurato dalle norme (nazionali) vigenti, produce, da alcuni anni, una tensione apparentemente irriducibile.
2. Diritto a quali diritti? L’asimmetria tra confini e garanzie
In Europa, con l’istituzionalizzazione dell’area Schengen che ha eliminato i controlli alle frontiere interne e introdotto uno spazio di libera circolazione per i cittadini comunitari, ha preso vita un complesso dispositivo di sorveglianza a distanza che, ridisegnando i meccanismi di controllo nazionali e sovranazionali, li ha di fatto “esternalizzati” (cfr. Cuttitta 2007).
I confini si estendono, si moltiplicano, oppure - in un’altra prospettiva - diventano mobili e flessibili: il soggetto che migra si misura con la loro forza nel momento stesso in cui si mette in viaggio, e prima ancora che fisicamente raggiunga la frontiera (in questo senso si parla, opportunamente, di Virtual Border).
Hanno seguito esattamente questa precisa dinamica i rapporti bilaterali tra Spagna e Marocco, e successivamente tra Spagna, Mauritania e poi Senegal; tra Italia e Libia; tra Europa, Germania e Turchia, con ciò accrescendo il numero di spazi di detenzione, “inferni senza scampo” nei quali si consuma la violazione sistematica dei diritti umani di adulti, donne e bambini (cfr. il Rapporto di Human Rights Watch 2019; cfr. Loprieno 2018).
La frontiera ‘politica’ si estende dunque ben oltre i confini nazionali e i meccanismi di espulsione sono de-localizzati grazie ad «una panoplia di misure volte ad impedire l’accesso al territorio dell’Unione ai “non-cittadini”, percepiti come “indesiderabili”, o definiti “illegali”» (D’Acquisto 2014, p. 113).
Pare dunque trovare conferma l’ipotesi interpretativa avanzata da alcuni osservatori in base alla quale la globalizzazione – lungi dal realizzare la profezia di un “mondo senza confini”, col suo fascinoso corredo semantico dei ‘flussi’, delle ‘ibridazioni’, del ‘post-nazionale’ – in realtà ha forse accresciuto (o reso più evidenti) le interconnessioni giuridiche e le interdipendenze materiali, ma sul piano politico ha fatto registrare la proliferazione e la moltiplicazione dei confini (Santoro 2018).
Si realizza così quella «militarizzazione della contiguità» (cfr. Dal Lago 2006) che genera la specificazione dell’umanità in “classi di persone”, diversi status, tra migranti regolari e migranti irregolari, tra coloro che possono essere ammessi nel territorio dello Stato “ospitante” e coloro che, invece, devono restare fuori, all’esterno, in uno spazio sospeso in cui non sono più “soggetti” ma “corpi” (cfr. Giolo 2018), e del quale diventano prigionieri perché non possono entrare o andare in nessun luogo se non nel Paese da cui sono partiti o fuggiti (cfr. Adorni - Capoccetti 2018).
Il confine diventa “limite agli obblighi di tutela” e di protezione (cfr. De Vittor 2012) perché, ça va sans dire, «le leggi nazionali non si applicano fuori del territorio nazionale» (cfr. Cassese 2016, p. 75).
Si staglia sull’orizzonte l’immagine di una globalizzazione cintata e, per altri versi, di una “apartheid globale” (cfr. Amoroso 2017) fondata sull’idea del “confine come metodo” (cfr. Mezzadra - Neilson 2014), ossia come tecnologia raffinata - filtro - per la selezione dei corpi e l’espulsione degli “scarti”.
Al di là dei fatti più recenti, è noto che a partire dal 2009, in seguito agli accordi conclusi con la Libia, l’Italia ha avviato una politica di respingimenti in alto mare che ha precluso sistematicamente ai migranti intercettati la possibilità di accedere alla protezione internazionale. In particolare, quello stesso anno, tre navi della guardia costiera italiana intercettarono fuori dalle acque territoriali, in zona SAR maltese, alcune imbarcazioni con persone migranti a bordo, che furono trasferite su navi militari e ricondotte a Tripoli senza previa identificazione e, dunque, senza che fosse data loro la possibilità di chiedere protezione internazionale.
Tale episodio ha rappresentato una svolta: a fronte di confini cartografici immutati, lo Stato espande asimmetricamente il dominio dei suoi sistemi di controllo ma, al contempo, nega il riconoscimento dei diritti, ancorché fondamentali ed “umani” e dunque, per ciò stesso, suscettibili di applicazione universale.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Hirsi Jamaa and others v. Italia (Application no. 27765/09) generato dai fatti sopra descritti e deciso con una sentenza del 23 febbraio 2012, ha riconosciuto la portata non esclusivamente territoriale del principio di non refoulement ritenendola sussistente anche in relazione ad atti compiuti sotto il controllo effettivo dello stato, ancorché fuori dal territorio dello stesso. In particolare, al paragrafo 178 della sentenza, la Corte ha escluso che vi possano essere spazi marittimi, anche in alto mare, nei quali non si dia alcuna protezione delle garanzie previste dalla Convenzione: «Furthermore, as regards the exercise by a State of its jurisdiction on the high seas, the Court has already stated that the special nature of the maritime environment cannot justify an area outside the law where individuals are covered by no legal system capable of affording them enjoyment of the rights and guarantees protected by the Convention have undertaken to secure to everyone within their jurisdiction».
La Corte Edu ha quindi condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 (divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti) e dell’articolo 13 della Convenzione richiamando, peraltro, anche gli articoli 18 e 19 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea.
Sebbene l’art. 25 della Convenzione UNCLOS contempli la possibilità a determinate condizioni di precludere l’attracco nei propri porti ad un natante sospettato di trasportare migranti irregolari, se uno Stato respinge una nave che trasporta persone soccorse in acque internazionali, senza controllare se a bordo vi siano persone che intendano ottenere lo status di rifugiato, commette una violazione del principio di “non respingimento” sancito dall’art. 33 par. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951, se i territori verso cui l’imbarcazione è respinta non offrono garanzie sufficienti per la sicurezza dei migranti. Le operazioni di respingimento, inoltre, potrebbe assumere perfino il carattere di “respingimenti collettivi”, vietati dall’art. 4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU e dall’art.19 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.
3. Le ONG nella teoria del diritto (di migrare)
Le ONG sono tra le principali figure “non statali” coinvolte nella gestione del fenomeno delle migrazioni di massa (cfr. Alston 2005).
È bene ricordare che la Dichiarazione Universale dei Diritti umani del 1948 all’articolo 14 riconosce esplicitamente la libertà di lasciare il proprio Paese: sebbene non preveda un corrispondente diritto di immigrare, ossia di fare ingresso in un altro Paese, pone comunque un dover essere a carico degli ordinamenti giuridici statali (e sovranazionali), chiamati ad adeguarsi alla suddetta previsione mediante idonee garanzie giuridiche e tutele istituzionali.
Nel 2014, in seguito alla dismissione della missione Mare Nostrum, la presenza di ONG nelle acque del Mediterraneo centrale si è strutturata utilizzando imbarcazioni attrezzate, appositamente prese a nolo e impegnate nelle operazioni di ricerca e soccorso (“search and rescue”, SAR) che hanno contributo a salvare la vita di un numero significativo di migranti. In questo modo le gravi carenze degli Stati - in particolare, va da sé, di quelli costieri - rispetto al preciso obbligo giuridico di prestare soccorso in mare sono state in parte compensate dall’intervento volontario di questi soggetti “istituzionali” di nuovo genere «in adempimento a doveri morali prima che giuridici» (Papanicolopulu 2017, p. 2).
Per chiarezza, delle Organizzazioni Non Governative è utile dare, ancora oggi, una definizione minimalista e in negativo; queste organizzazioni, infatti, sono evocate con un acronimo che le descrive innanzitutto per ciò che non sono: “non-governative” sta dunque a significare che non sono espressione dei governi nazionali. Esse appartengono a quel formante del diritto internazionale caratterizzato dall’emersione di forme di regolazione giuridica spontanea, a carattere essenzialmente “privato”: infatti, a differenza delle organizzazioni intergovernative, le ONG non sono generate dagli Stati, bensí dagli individui o, meglio, dalla global civil society.
In questa prospettiva, nel corso del Novecento, la crescita esponenziale di tali organizzazioni è stata interpretata come la reazione della società civile ad una concezione della sovranità statuale che, nel campo delle relazioni e del diritto internazionali, non riconosceva alcuna voice alle rivendicazioni dell’individuo e dei gruppi (cfr. Lador-Lederer 1963, p. 27; Pariotti 2013, pp. 156-158).
Nonostante ciò le ONG perseguono comunque fini pubblici e interessi collettivi solidaristici quali la tutela di beni comuni e dell’ambiente, la promozione dei diritti umani, la tutela dei consumatori, la lotta contro il traffico di armi ed hanno assunto una responsabilità istituzionale che ne legittima la partecipazione al processo normativo transnazionale. È evidente, sempre a questo proposito, come nonostante il carattere autonomo, le ONG non siano gruppi collettivi autoreferenziali, ossia organizzati attorno ad obiettivi particolaristici che accomunano i loro aderenti: al contrario esse si prefiggono scopi istituzionali altruistici, la cui proiezione è estrinseca rispetto agli interessi immediati e ai bisogni materiali dei loro aderenti.
Insieme al carattere non-governativo, quello dell’internazionalità è il tratto che più tipicamente caratterizza le ONG: ciò sotto due profili, ossia dal punto di vista dell’estensione materiale del loro operato (trasversale rispetto ai confini territoriali degli Stati) e dal punto di vista della loro struttura organizzativa (transnazionale o, per così dire, “federale”). A questo proposito occorre precisare che, a dispetto dell’internazionalità, le ONG sono disciplinate dal diritto dello Stato in cui hanno sede. Pertanto, a differenza delle organizzazioni intergovernative, esse attecchiscono ed operano in connessione con il «guscio della sovranità statuale» (Benvenuti 1978/79, pp. 85-86), con la duplice conseguenza che la loro condizione giuridica varia in base al Paese in cui sono radicate e che, laddove le articolazioni organizzative della singola ONG siano distribuite su più Stati, essa potrebbe essere sottoposta a regimi giuridici differenti.
Non sorprende, dunque, che a questo proposito si sia parlato di “non-status” (Martens 2003) proprio a sottolineare la “sospensione” nella quale è relegata la loro condizione giuridica nell’orizzonte internazionalistico.
L’assenza di scopi di lucro è requisito tendenzialmente condiviso e riconosciuto come fondamentale: in questo senso le ONG si distinguono, ad esempio, dalle imprese multinazionali; la dottrina, tuttavia, non esclude che esse possano perseguire e realizzare profitti, a patto che siano destinati al finanziamento delle attività statutarie e al pagamento dei dipendenti. Nella cornice normativa del diritto italiano le ONG rientrano, conseguentemente, nella disciplina delle organizzazioni non-profit.
Val la pena ricordare che, in base ad un principio generale del diritto del mare, lo Stato indicato dalla bandiera battente sulle navi esercita su queste la sua piena giurisdizione, ovunque esse si trovino (cfr. Papanicolopulu 2017, p. 5; con alcune eccezioni: ad esempio nel caso di imbarcazioni sospettate di traffico di migranti - human smuggling o trafficking; cfr. Casadei 2018). Ciò impedisce agli Stati costieri l’esercizio di una sovranità marittima piena ed esclusiva dal momento che, in una stessa zona marina, e su una medesima imbarcazione, può insistere il potere (regolativo e coercitivo) di una pluralità di Stati e di giurisdizioni (a seconda della porzione di mare in cui si trova l’imbarcazione): «La possibilità per altri Stati di esercitare la loro giurisdizione su navi che non battono la loro bandiera dipende dalla zona marina in cui l’imbarcazione si trova. Le acque interne sono assimilate al territorio terrestre dello Stato e su di esse lo Stato costiero gode di piena sovranità. I porti fanno parte delle acque interne, e ciò comporta che lo Stato può precludere l’ingresso nei propri porti a navi straniere, anche se queste trasportano persone soccorse in mare. Tale diritto incontra però un limite nella norma che permette l’ingresso a navi in caso di forza maggiore o estremo pericolo. Più che di un diritto delle navi, in questi casi si produce una clausola di esclusione della responsabilità, con l’operare della quale la condotta che altrimenti sarebbe illecita (l’ingresso nel porto senza l’autorizzazione dello Stato costiero) cessa di essere tale in presenza di un’esimente» (Papanicolopulu 2017, p. 6).
Ne deriva che quella stessa sospensione che caratterizza lo status giuridico delle ONG nella società internazionale si riflette ora nella disciplina delle navi che esse utilizzano nel Mediterraneo centrale poiché rompono il rassicurante binomio costituito, da un lato, dalle navi commerciali (dei privati) e, dall’altro, dalle navi militari (degli Stati). Da questo punto di vista, dunque, esse sono soggetti ibridi.
4. Dal Codice di condotta al Decreto sicurezza bis
L’obbligo di soccorso in mare, nonché quello di assicurare un POS (place of safety) nel minor tempo possibile, è un preciso obbligo giuridico che grava sugli Stati (cfr., tra i molteplici contributi che la dottrina ha offerto in questo senso, Vassallo Paleologo 2018, p. 215).
5. “Umano, troppo umano”: il disciplinamento delle attività di soccorso in mare
Se nel recente passato alcuni studiosi hanno cercato di sottolineare la rinnovata funzione delle ONG per fondare una trasformazione qualitativa nella concezione classica del diritto internazionale - prospettando un “diritto globale” autogenetico (Ziccardi Capaldo, 2010) - i fatti di cronaca di questi mesi testimoniano della resistenza degli Stati e della loro perdurante centralità nei processi di gestione delle emergenze internazionali. Tutto ciò con esiti infausti in quei frangenti nei quali la vita dell’uomo è messa direttamente e immediatamente a repentaglio: tale è il caso dell’emergenza derivante dalla crisi della gestione dei profughi nella quale le Organizzazioni Non Governative hanno svolto una funzione di primissimo.
Tra il 2014 e il 2019 si stima che, nel tentativo di raggiungere l’Italia, nel Mar Mediterraneo siano morte circa 14.768 persone (fonte: UNHCR), di cui 343 nei primi sei mesi del 2019 (fonte: OIM). Come rileva Amnesty International Italia (2019): «Il 2018 in particolare è stato un anno terribile: sono arrivate meno persone rispetto all’anno precedente, ma in proporzione ne sono morte molte di più. Il 5,3 per cento delle persone che si erano messe in mare per arrivare sulle coste italiane non ce l’ha fatta, un record assoluto sia rispetto agli anni precedenti che agli altri paesi di destinazione».
All’interno del diritto inter-nazionale, lo spazio riservato agli Stati è stato messo in tensione «costretto a coesistere con una varietà di altre formazioni spaziali che lo hanno attraversato e ricalibrato, rendendo i confini che lo attraversano e lo eccedono cruciali, al pari di quelli che definiscono i suoi limiti territoriali e simbolici» (Mezzadra - Neilson 2014, p. 87).
In questa prospettiva, e alla luce della cosiddetta “emergenza” degli ultimi anni, le ONG pongono alcune sfide decisive alla teoria del diritto, della quale sollecitano un aggiornamento alla luce delle relazioni transnazionali che si possono stabilire tra gruppi articolati su territori (e ordinamenti giuridici) differenti.
Nel caso delle ONG impegnate nelle acque del Mediterraneo tale sfida è accresciuta poiché - insistendo sulle frontiere degli Stati - esse, oltre a demistificare il modello stato-centrico del diritto, svelano lo «scandalo» della porosità dei confini nazionali - «istituzione di istituzioni» o «condizione non-democratica della democrazia» (Balibar 2010, p. 315).
Nell’assumere questo compito, le ONG hanno reso le acque internazionali «teatro anche di una forma di contro-delocalizzazione: di un intervento politico-umanitario non governativo, cioè, che non solo accresce le capacità delocalizzate di ricerca e soccorso degli attori governativi ma condiziona e controlla l’operato di questi ultimi in zone extraterritoriali» (Cuttitta 2016, p. 139). In questo senso, le Organizzazioni Non Governative fungono da contro-poteri che rendono ancora possibile una narrazione altra del fenomeno migratorio, delle sue storie, del carico di umanità che esso inevitabilmente implica.
Il Mediterraneo - che, come ogni mare apre e mette in comunicazione - diventa uno spazio politico (Macioce 2018), nuovo confine «militare-umanitario» (Tazzioli 2015) che spoliticizza alla radice la questione migratoria, e al contempo paradossalmente riafferma «le categorie spaziali della politica moderna» (Galli 2001).
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