1. Se c’è qualcosa che caratterizza alcune famose narrazioni fantascientifiche degli ultimi cinquanta anni è una sorta di irrisolvibile ambiguità tra utopia e distopia. Il mondo rappresentato non è più chiaramente distopico al lettore fin dalle prime pagine come in Wells, Orwell, Bradbury o Dick ma le distinzioni si fanno più sfumate come nel Mondo nuovo di Huxley, forse il vero grande modello della distopia contemporanea. Nelle storie di Ballard o in più recenti saghe come The Giver e Divergent fino ad arrivare a romanzi come Il cerchio vengono mostrati mondi all’inizio apparentemente utopici che scivolano via via verso la distopia. Ma perfino alla fine resta sempre la sensazione che il mondo di partenza, così pacifico e sereno, non fosse poi così sbagliato, che quell’utopia, con alcuni doverosi aggiustamenti, avrebbe anche potuto funzionare. Da cosa deriva questa ambiguità? E perché permane pressoché invariata (con alcune importanti differenze tra le distopie tipicamente ballardiane e quelle degli anni Duemila) nell’ultimo mezzo secolo nonostante le profonde trasformazioni tecnologiche, politiche e sociali? Proviamo ad analizzare la natura di tali “utopie mascherate” (Ilardi, Loche, Marras 2018) prima di provare a ipotizzare una risposta a queste domande.
Le caratteristiche spaziali predominanti sono la separazione dal resto del mondo e le ridotte dimensioni. Non quindi utopie nazionali o mondiali e nemmeno metropolitane, ma un territorio perfettamente delimitato, chiuso rispetto a un mondo esterno percepito come selvaggio, disordinato e pericoloso e che sembra aver eliminato la principale fonte di insicurezza, ossia l’anonimato, la folla indistinta urbana.
In realtà uno spazio “utopico” di questo tipo esiste realmente da quasi un secolo: è il sobborgo, il prototipo di un’utopia abitativa organizzata su scala prima locale, poi nazionale e infine mondiale. Il sobborgo, che nasce negli Stati Uniti all’inizio del ‘900 ma si sviluppa diffusamente solo a partire dalla fine degli anni ‘40, è il livello massimo raggiunto dall’America nella sua ansia di simulazione di nuovi costrutti spaziali a livello urbanistico disseminati in tutto il territorio con l’obiettivo di distruggere l’anomia, l’insicurezza, la folla pericolosa delle metropoli. Probabilmente negli anni ‘30 Franklyn Lloyd Wright e Lewis Mumford non si rendevano conto che attraverso i loro progetti utopici, essenzialmente antimetropolitani, in realtà stavano ponendo le basi teoriche per la suburbanizzazione dell’America. Il progetto di Broadacre City (1932) di Wright
era una versione della “Vita meravigliosa” per zone periferiche a bassa densità edilizia; in realtà era una periferia elevata al rango di arte consapevole; una redistribuzione di uomini, donne e bambini su una superficie trattata a giardino, resa possibile da due fattori: l’automobile in ogni famiglia e la rete di energia elettrica (Banham 2006, p. 68).
Tra gli anni ‘40 e gli anni ‘50 i suburbia crescono 15 volte più veloci delle comunità urbane rurali e William Levitt, il primo grande costruttore in serie di sobborghi, riesce a mettere in piedi 150 nuove case al giorno. Levitt per immaginare la forma che dovrà avere il nuovo universo abitativo di Suburbia, si rifà, per utilizzare una fortunata espressione di Baudrillard, a un’“utopia realizzata” in piena seconda guerra mondiale: si tratta di Oak Ridge, costruita nel 1943 in Tennessee per ospitare gli scienziati e i tecnici del Progetto Manhattan finalizzato alla realizzazione della bomba atomica. Si ispira cioè a un luogo chiuso, elitario, rigidamente funzionalizzato ma anche utopico e pieno di infinite promesse visto che a Oak Ridge si stava sperimentando sulla possibilità di manipolare l’atomo e quindi la materia stessa. E Oak Ridge sembra anche essere il modello di The Circle di Dave Eggers, il quartier generale della multinazionale informatica che analizzeremo nelle prossime pagine. Per Levitt l’analogia con il luogo in cui è stata costruita la bomba atomica non è casuale: il sobborgo doveva funzionare come un ordigno nucleare che avrebbe frantumato in piccoli pezzi le affollate e ingovernabili metropoli; pezzi che, come in una reazione a catena, si sarebbero poi riprodotti fino a coprire l’intero territorio degli Stati Uniti. Il trasferimento nei sobborghi andava cioè considerato dagli americani come un vero e proprio esodo senza ritorno, un viaggio pionieristico verso la terra dell’utopia: la fine di un mondo (quello metropolitano) e l’ingresso in un nuovo mondo fatto di spazio in abbondanza, sicurezza e in cui nessuno sarebbe stato un atomo insignificante come nelle anonime folle urbane.
A partire dagli anni ’40 il sobborgo diventa il massimo luogo di sperimentazione politico-sociale allo scopo di immaginare nuove forme di comunità e governo del territorio legate al veloce sviluppo tecnologico, a un’economia di mercato sempre più spinta e all’allargamento alle masse delle possibilità di consumo. Ma la riconfigurazione del territorio che mette in atto il sobborgo non si limita allo spazio dentro i suoi confini, si proietta anche all’esterno. È questa nuova struttura abitativa, lontana dai centri urbani, che rende necessari gli elettrodomestici (lavatrice, frigorifero, lavastoviglie), la televisione, i drive in, gli shopping mall, i parchi di divertimento e probabilmente perfino internet. È in fondo la grande utopia tecnologica del XX sec. che si riversa come un fiume in piena nel XXI: racchiudere in uno spazio finito il maggior numero di informazioni, immagini, servizi in modo che all’individuo appaia come illimitato. Dai primi spazi simulati di inizio Novecento prodotti dai media elettrici (radio, cinema e televisione) si passa rapidamente a quelli virtuali contenuti in computer, smartphone e tablet; un mondo infinito di segni, non pericoloso come le strade della metropoli e totalmente disponibile e malleabile nelle mani dell’individuo (Ilardi, Ceccherelli 2011).
I sobborghi, una porzione di terreno suddiviso e in continua espansione, fanno da base a un progetto che collegherà l’umanità direttamente con lo spazio, con il futuro e con il proprio Io più profondo che sta emergendo [...] In particolare, si sviluppa l’idea di incontro con una tecnologia futuristica in una casa futuristica. In quell’isolamento autoindotto, la colonia suburbana diventa un modello di vita non solo per questo pianeta, ma anche per tutti gli altri (Hollings 2010, p. 21).
La forma che assume il sobborgo è il primo modello abitativo sperimentato per essere utilizzato anche in altre dimensioni spaziali: proprio perché ha rotto tutti i legami con le passate strutture abitative e comunitarie, potrà diventare il futuro avamposto su Marte, il modello di colonizzazione di altri pianeti. Nel recente film Elyseum (2013) i ricchi e potenti del pianeta hanno finalmente realizzato il sogno di quasi tutti i personaggi dei romanzi di Philip K. Dick: andarsene da una Terra ormai totalmente urbanizzata, inquinata, senza più risorse, ingovernabile per trasferirsi su un enorme satellite artificiale in orbita intorno alla Terra. In quella nuova dimensione spaziale l’unico modello abitativo permesso è il sobborgo. Lì non è necessario mescolarsi e scendere a compromessi con l’imprevedibilità della folla; si può invece progettare la propria casa, il giardino e perfino la tipologia di vicinato. È possibile concretizzare dal nulla uno spazio dell’abitare e metterlo totalmente sotto il proprio controllo.
Non è un caso che la struttura abitativa che negli ultimi decenni ha avuto più successo in America sia il CID, Common Interest developpement (sviluppo di interessi comuni). Una serie di agenzie mettono in contatto un gruppo di cittadini che abbiano la stessa età, gli stessi gusti o semplicemente condividano la stessa idea di abitazione: attraverso un questionario etichettano (taggano) lo spazio in cui vogliono vivere (con o senza giardino, cani, bambini, guardie private; con case in stile andaluso, italiano o postmoderno). A quel punto si compra un terreno e si costruisce il quartiere a cui avranno accesso solo ed esclusivamente i suoi abitanti i quali, in totale autonomia dalle leggi dello Stato, ne decidono le regole. È l'utopia del filosofo che si trasforma nella Privatopia (McKenzie 1994) del consumatore applicata all'abitare: ciascuno deve avere il diritto di possedere abbastanza spazio e mezzi per disegnare autonomamente il proprio territorio in base ai suoi gusti. A pensarci bene alcuni social network attuali tipo Facebook funzionano così.
Ma il sobborgo inteso come il più grande esperimento di ingegneria sociale del dopoguerra presenta subito anche delle forme di rigetto; si tratta quindi un’utopia che va sempre monitorata e controllata.
Allontanandosi dalle città, gli abitanti dei sobborghi si sono lasciati alle spalle i propri legami familiari, insieme alle loro conoscenze e ai loro valori tradizionali. La porta è quindi spalancata, psicologi e studiosi di scienze sociali possono entrare e dare un’occhiata in giro” (Hollings 2010, p. 21).
Questo tipo di isolamento finirà per far diventare i sobborghi una sorta di complessa comunità psichiatrica dove aberrazioni come l’alcolismo, la schizofrenia e le devianze sessuali potranno essere studiate con approfondimento clinico da un crescente numero di sociologi, psichiatri e antropologi culturali. In altre parole, Suburbia non solo trasformerà radicalmente i metodi di percezione, ma anche i modelli di comportamento (p. 14).
I sobborghi diventano così un vero e proprio laboratorio per l’invenzione di nuovi stili di vita, legami sociali, narrazioni; e anche di nuovi tipi di disturbi mentali e comportamenti devianti ma pensati come non conflittuali, non pericolosi socialmente perché circoscritti in uno spazio ben delimitato e non confusi nella folla metropolitana: una volta individuati ci penseranno la psichiatria a catalogarli e le case farmaceutiche a curarli. È quella “follia controllata” che ha fatto la fortuna di uno scrittore geniale come J. G. Ballard (e oggi di molte serie TV americane), il primo a capire che il sobborgo sarebbe stato veramente l’alba di un nuovo mondo (Colombino 2013).
2. Ciò che fa di Ballard un pioniere di una nuova forma di narrare il rapporto tra utopia e distopia è proprio il fatto che i contesti in cui sono ambientate le sue storie non fanno parte di un futuro lontano e neanche di un presente alternativo ma sono realmente esistenti. Confrontiamo questo passo di Città di quarzo di Mike Davis, un classico della sociologia urbana...
Nuovi quartieri di lusso fuori dai confini cittadini sono spesso divenuti città-fortezze, con cinta murarie, limitati punti d’accesso con posti di controllo, polizie private che si sovrappongono a quella pubblica, e persino strade private. È impossibile per il privato cittadino entrare nelle città di Hidden Hills, Bradbury, Rancho Mirage o Palos Verdes senza un invito da parte di un residente [...] Chiunque abbia provato a fare una passeggiata all’ora del tramonto in un quartiere non suo, pattugliato da guardie e punteggiato da cartelli che minacciano morte, si è reso conto rapidamente di quanto la vecchia idea di libertà della città sia una pura astrazione, per di più obsoleta (Davis 1993, pp. 138-140).
... con queste due descrizioni scritte qualche anno prima da Ballard.
Nonostante la vicinanza alla City, circa due miglia a ovest lungo il fiume, i palazzi e gli uffici del centro di Londra appartenevano a un altro mondo, nel tempo e nello spazio. Le imponenti proporzioni delle strutture architettoniche in vetro e cemento, insieme alla sensazionale posizione, su un’ansa del fiume, separavano nettamente quell’area residenziale dalle zone circostanti in via di disfacimento (Ballard 1994, p. 7).
Difesi da muri di cinta e da telecamere di controllo questi complessi residenziali costituiscono in effetti una catena di comunità chiuse e collegate direttamente attraverso la M4 agli uffici, le banche, i ristoranti e le cliniche private del centro di Londra. I loro abitanti non hanno alcun contatto con le comunità locali, salvo che per reclutarvi un ristretto e ben selezionato numero di autisti, governanti e giardinieri ai quali affidare la manutenzione delle loro prestigiose proprietà [...] Tutta l’area comprensoriale, che si estende per circa 32 acri, è circondata da una recinzione metallica dotata di un sistema d’allarme elettronico e [...] regolarmente pattugliata da sorveglianti muniti di ricetrasmittente e con un paio di cani da guardia al guinzaglio (Ballard 1993, pp. 18-19). [...] Tutti questi dispositivi di sicurezza sono senz’altro efficienti e ingegnosi, però a me il Village ricorda una fortezza. I cani e le telecamere impediscono di entrare ma anche di uscire (p. 35).
Gli spazi descritti da Ballard sono familiari al lettore, soprattutto quello angloamericano, che da decenni viene bombardato regolarmente da pubblicità che promuovono il nuovo paradiso di Suburbia; lo scrittore inglese si limita a trasformare la promessa di queste utopie in una minaccia inquietante. E lo fa soprattutto in 6 romanzi scritti tra il 1975 e 2006 in cui mostra come il sobborgo chiuso, polifunzionale, protetto sta diventando il modello della nuova espansione e riorganizzazione abitativa a livello globale uniformando tutti gli spazi: i centri urbani, le periferie, i luoghi del divertimento, i luoghi di lavoro, i centri commerciali, etc. Fino ad arrivare a Eden-Olympia la struttura abitativa immaginata da Ballard nel romanzo Supercannes in cui la novità è che al suo interno cominciano a concentrarsi tutte le funzioni di una città che prima erano ubicate in spazi diversi. Mai produzione e consumo si erano trovate così vicino fino quasi a confondersi: è l’avvento dell’economia postfordista che cancella le differenze tra tempo di lavoro e tempo libero. Nella ipertecnologica città fortezza di Eden Olympia infatti c’è tempo solo per il lavoro:
Gli abitanti di Eden-Olympia non hanno tempo di ubriacarsi in compagnia, di tradire o di litigare con la fidanzata, di intrecciare relazioni adulterine o di desiderare la moglie del vicino di casa, non hanno tempo nemmeno per gli amici. Non ci sono energie da sprecare per la rabbia, la gelosia, il pregiudizio razziale, e le riflessioni più mature che ne seguono. Non c’è nessuna delle tensioni sociali che ci costringono a riconoscere la forza o le debolezze degli altri, i nostri obblighi nei loro confronti o i nostri sentimenti di dipendenza. A Eden-Olympia non c’è nessun tipo di interazione, nessuno di quegli scambi emozionali che ci danno il senso di chi siamo (Ballard 2000, p. 245).
Il tempo della vita quotidiana è stato perfettamente ottimizzato. Il nuovo taylorismo dell’età dell’informazione sembra essersi esteso a tutti i momenti della giornata e a tutti gli aspetti dell’esistenza. Tutto viene messo in produzione, tutto viene valorizzato nel ciclo economico, ogni sentimento, affettività, inclinazione o esperienza sono trasformati in strumenti produttivi e successivamente in merce (Virno 2001). Qualsiasi inutile e fastidioso investimento di tempo e energia sul collettivo è stato eliminato. Sconfitta la paura, eliminata qualsiasi forma di responsabilità verso la comunità, a Eden-Olympia l’individuo sembra aver conquistato il massimo della libertà: la libertà dai legami sociali fondati sulla contiguità territoriale.
Il lavoro domina la vita di Eden-Olympia e caccia via tutto il resto. Il sogno di una società del tempo libero è stata la grande illusione del ventesimo secolo. Il vero svago è il lavoro. Le persone ambiziose e di talento lavorano più duramente di quanto abbiano mai fatto, e per più ore. La loro unica gratificazione è il lavoro. Gli uomini e le donne a capo delle società di successo devono concentrare le loro energie sul compito che hanno davanti ogni minuto della giornata. L’ultima cosa che vogliono è distrarsi. Il lavoro creativo fornisce a se stesso lo svago necessario (Ballard 2000, pp. 244-245).
A Eden-Olympia non c’è più nessun dispositivo sociale o morale che possa limitare la libertà dei suoi abitanti. C’è solo l’orario di lavoro e i sistemi di vigilanza. Ma è l’orario di lavoro della produzione postfordista che dura ventiquattro ore e che prevede che si sia produttivi in ogni momento della giornata. L’opposizione a questa gabbia viene trovata non in una risposta politica ma nella devianza e sociopatia. Solo il sadismo e una violenza senza senso riescono a creare uno spazio e un tempo indipendenti dal processo produttivo.
Un’infrastruttura invisibile rimpiazzava le virtù civiche tradizionali. A Eden-Olympia non c’erano problemi di parcheggio, nessun timore di furti e scippi, né di aggressioni o stupri. I professionisti di alto livello potevano tranquillamente evitare di preoccuparsi l’uno dell’altro, e non erano più costretti a sottoporsi ai vincoli e agli equilibri che caratterizzano la vita di una comunità. Non c’erano consigli comunali, né tribunali, e nemmeno servizi di assistenza per i cittadini [...]. La democrazia rappresentativa era stata sostituita dalle telecamere della sorveglianza e da un corpo di polizia privata (Ballard 2000, p. 42).
La follia [...] ecco che cosa rimane a quella gente, dopo aver lavorato sedici ore al giorno per sette giorni alla settimana. Impazzire è l’unico modo che hanno per rimanere sani di mente (p. 197). In una società perfettamente sana, la pazzia è l’unica libertà rimasta (p. 349).
I romanzi di Ballard ci pongono di fronte a un paradosso: l’ossessione per la sicurezza e per l’ottimizzazione del tempo spinge l’individuo a rinchiudersi nelle gated community a eliminare la casualità dalla sua vita a ridurre drasticamente i rapporti sociali. Una volta raggiunta la sicurezza assoluta però l’individuo perde il senso del vivere nel mondo, scomparsa la paura scompare anche l’unico fondamento della comunità ed egli si ritrova con una libertà potenzialmente illimitata ma concretamente rinchiusa tra le quattro mura della città prigione. A quel punto ancora una volta solo l’insicurezza e dunque la devianza lo possono salvare. La devianza come unico strumento per ricreare legami sociali e un’identità collettiva, e la paura come unico paradigma della socializzazione.
Scrive Mario Perniola:
Il fenomeno urbano implica l’incontro di due aspetti distinti: uno di carattere sociale, riguarda la natura del legame esistente tra gli abitanti della città, l’altro, di carattere formale, riguarda la struttura architettonico-urbanistica della città. Ora questi due aspetti, che sono strettamente congiunti nell’esperienza urbana e nella riflessione sulla città, divergono tra loro e si rendono indipendenti e autonomi l’uno dall’altro. Il legame sociale diventa sempre più immateriale e privo di connessione con un insediamento, con un luogo, con un territorio: il dissolvimento delle relazioni sociali tradizionali, l’indebolimento dei rapporti personali diretti, il regresso degli incontri non finalizzati al raggiungimento di uno scopo, l’informatizzazione degli strumenti di comunicazione crea da un lato un isolamento senza precedenti storici, dall’altro una nuova socializzazione che si configura sul modello di una rete di collegamenti. La metropoli costituisce un resto materiale che la smaterializzazione informatica non riesce a dissolvere (Perniola 1994, p. 53, corsivo mio).
Dave Eggers nel suo recente romanzo Il cerchio mostra che anche questo resto materiale è ormai in via di smaterializzazione.
3. Il Cerchio è il quartier generale della più importante multinazionale di comunicazione digitale della Terra ed evidentemente si ispira all’“astronave” la nuova sede della Apple voluta da Steve Jobs prima della sua repentina scomparsa. Ed è lo stesso Steve Jobs che ci racconta come l’estetica del sobborgo in cui era cresciuto abbia influenzato la forma delle sue successive “utopie” digitali.
La casa dei Jobs e le altre del quartiere erano opera dell’imprenditore edile Joseph Eichler, la cui ditta costruì, tra il 1950 e il 1974, oltre undicimila case nelle varie aree residenziali della California. Ispirandosi all’idea di Frank Lloyd Wright di case moderne razionali per l’“uomo comune” americano, Eichler costruì abitazioni economiche che presentavano pareti di vetro dal pavimento al soffitto, piante aperte, pilastri e travi a vista, pavimenti a lastre di cemento e molte porte scorrevoli di vetro [...] L’apprezzamento per le case di Eichler, mi disse Jobs, gli trasmise il gusto di fare prodotti di ottimo design per il mercato di massa. “Mi piace molto quando si possono combinare insieme un bellissimo design e semplici funzioni tecniche in un prodotto che non costa molto” disse indicando la limpida eleganza dell’architettura delle case di Eichler. “È stata la visione da cui sono partito per la Apple. È quello che abbiamo cercato di fare con il primo Mac. È quello che abbiamo fatto con l’iPod” (Isaacson 2011, p. 19).
D’altronde anche i pionieri del cyberspazio William Gibson e Bruce Sterling paragonano spesso l’avvento dei mondi digitali alla nascita ed espansione improvvisa di città utopiche e sobborghi negli Stati Uniti. E infatti la prima descrizione che dà del Cerchio la neoassunta Mae sembra in tutto e per tutto rispondere al modello classico di sobborgo: chiuso, ordinato, autosufficiente da tutti i punti di vista.
Qualche migliaio di circler cominciavano a radunarsi nelle prime ombre della sera, e stando in mezzo a loro Mae comprese che non avrebbe mai voluto lavorare – mai voluto essere – in un posto diverso. La sua città natale, e il resto della California, il resto dell’America, sembravano la caotica babele di un paese in via di sviluppo. Fuori dalle mura del Cerchio tutto era rumore e lotta, disastro e sporcizia. Ma lì ogni cosa era perfetta. Le persone migliori avevano creato i sistemi migliori e i sistemi migliori avevano permesso di raccogliere i fondi, fondi illimitati che rendevano possibile tutto questo, il posto più bello del mondo. Ed era naturale che fosse così, pensò Mae. Chi poteva creare l’utopia se non degli utopisti? (Eggers 2014, p. 30).
Ma qualche differenza appare subito ai suoi occhi: per rendere meno impersonale un posto enorme come quello, ad ogni settore del campus era stato dato il nome di un’epoca storica e nei vialetti esterni «al posto dei pacifici ciottoli rossi c’erano, ogni tanto, mattonelle con accorati appelli all’ispirazione, ‘Sogna’ diceva uno, con la parola incisa dal laser nella pietra rossa, ‘Partecipa’ diceva un altro. Ce n’erano a dozzine: ‘Socializza’, ‘Innova’, ‘Immagina’» (ivi, p. 7). E fin dai primi colloqui con i suoi superiori scopre che tra le sue mansioni lavorative c’è quella, obbligatoria, di socializzare: con gli altri dipendenti dell’azienda, poi con i clienti, infine con tutti gli iscritti al portale in una struttura espansiva a cerchi concentrici in cui ciascuno può potenzialmente osservare gli altri. Per evitare il conflitto tipico degli spazi concentrazionari ballardiani, derivante dalla scomparsa delle relazioni sociali e del senso di comunità, il rimedio che inventa il Cerchio è quello della socializzazione forzata e della trasparenza assoluta con un duplice obiettivo: convincere i suoi abitanti di essere unici e irripetibili offrendo a ciascuno un suo spazio sulle piattaforme social e nello stesso tempo evitare il conflitto facendo in modo che si controllino a vicenda.
Ma sappi, d’ora in poi, che essere social, ed essere una presenza nel tuo profilo e in tutti relativi account, fa parte del motivo per cui ti trovi qui. Noi consideriamo la tua presenza online una parte integrante del lavoro che svolgi al Circle. Tutto si tiene (ivi, p. 81).
Vogliamo che questo sia il tuo posto di lavoro, certo, ma anche un posto umano. E questo significa incoraggiare la comunità. Anzi deve essere una comunità. È uno dei nostri slogan come probabilmente sai: “Prima di tutto la comunità” (ivi, p. 43).
La comunità dunque non è più una scelta ma un obbligo e quest’ultimo viene giustificato con la riduzione e scomparsa di ogni tipologia di conflitto. L’obiettivo dei capi di questa struttura è di estendere il modello del Cerchio all’intera umanità fino al “completamento”. Rispetto agli universi di Ballard in cui rimaneva un “resto materiale”, una via di fuga, oggi grazie le nuove tecnologie ogni spazio fisico può essere digitalizzato, connesso e monitorato e i corpi diventano «testi in senso letterale piuttosto che in quello post-strutturalista: libri aperti per chiunque acceda alla banca dati relativa» (Dery 1997, p. 283).
In Ballard la follia e la violenza sembrano essere l’unico strumento che hanno a disposizione i personaggi per sfuggire all’immagine simulata del proprio corpo prodotta dalle tecnologie di sorveglianza, per rendere il corpo opaco e imprevedibile alla gestione attuariale del rischio (Lyon 2002). Nel Cerchio questo non è più possibile perché tutti sorvegliano tutti e non esiste più un’eccedenza di spazio anonimo e non controllato per sfuggire alle regole imposte dal nuovo modello di villaggio globale.
4. Ma come fa il Cerchio a convincere cittadini, imprenditori e politici che il suo modello è il migliore e che va adottato in ogni ambito della vita umana? Un modello che si basa sulla piattaforma Tru You che, una volta perfezionata, prevederà la creazione di un account obbligatorio per tutti i cittadini, l’archiviazione e l’accesso a tutti i dati personali, l’impianto di chip sottocutanei, la interconnessione di tutti i servizi offerti dallo Stato, la possibilità per ciascun utente di collocare telecamere personali in ogni parte del globo e pubblicare senza restrizioni gli streaming, etc. Il Cerchio nasconde la distopia del controllo assoluto dietro l’utopia luminosa della trasparenza, dell’accessibilità, della democrazia, dell’ecologia e della sostenibilità; il narcisismo consumistico dietro la comunità globale e l’intelligenza connettiva; la sorveglianza dietro il sogno della fine della criminalità e della violenza. Ciò che ha capito il Cerchio è che lo scambio che avviene tra il fornitore di servizi e l’utente che cede i suoi dati personali può funzionare solo se esso è inserito in un frame narrativo e simbolico che abbia l’utopia come paradigma. Finora il mercato per omogeneizzare e conquistare il mondo aveva puntato sull’individualismo consumistico che aveva prodotto però come effetto collaterale insorgenza di una microconflittualità diffusa. Nel Cerchio invece si scommette sull’utopia comunitaria che offre la promessa di un unico ambiente omogeneo capace però di esaltare le individualità grazie alle tecnologie digitali. Individuo e comunità finalmente uniti in un obiettivo comune perché si controllano a vicenda. Un consumismo capace di autoregolarsi che ha rimosso il senso di colpa dell’egoismo in quanto strettamente legato al lavoro e quindi percepito sempre come creativo e al servizio della collettività. Trasformando la socializzazione in lavoro coatto il Cerchio riesce a far coincidere perfettamente produzione e consumo; grazie alla trasparenza evita che quest’ultimo produca comportamenti devianti conflittuali e improduttivi; e, a differenza di ciò che accadeva nei romanzi di Ballard, rende il mondo, almeno apparentemente, un contesto pieno di eventi. Il controllo assoluto su quello che una volta si sarebbe definito “tempo libero”, la sua sussunzione in un immane processo in cui ogni azione diviene produttiva, una socializzazione che si trasforma contemporaneamente in merce e sistema di controllo, l’eliminazione dei tempi morti che punta ad evitare qualsiasi introspezione da parte del cittadino sono i veri obiettivi del Cerchio. Ma quest’ultimo è capace di nasconderli dietro un affascinante narrazione utopica.
Ad esempio l’obbligo di trasparenza assoluta delle informazioni e la fine della privacy viene giustificata dai filosofi-proprietari del Cerchio in due modi. Il primo è la creazione del cittadino virtuoso:
Ci ho pensato su per anni, e devo ancora immaginare una situazione in cui il segreto faccia più bene che male. I segreti sono all’origine dei comportamenti asociali, immorali e distruttivi [...] Ma il mio punto è: e se ci comportassimo tutti come se fossimo osservati? Porterebbe a un modo di vivere più morale. Chi farebbe qualcosa d’immorale o d’illegale se sapesse di essere osservato? Saremmo finalmente costretti a essere la versione migliore di noi stessi [...] In un mondo dove le brutte strade non sono più un’opzione, non abbiamo altra scelta che essere buoni (Eggers 2014, p. 231).
Se c’è una porta chiusa io comincio a inventare storie di ogni genere su quello che potrebbe esserci dietro. Lo sento come se fosse una specie di segreto, e mi spinge a fare voli di fantasia. Ma se tutte le porte sono aperte, materialmente e metaforicamente, esiste una sola verità (ivi, p. 238).
La trasparenza dev’essere assoluta. Dev’essere pura e completa. E so che per qualche giorno questo episodio sarà doloroso, ma fidati di me, presto nulla di tutto ciò avrà il minimo interesse per qualcuno. Quando ogni cosa è nota, ogni cosa accettabile sarà accettata (ivi, p. 294).
Antonio Tursi a questo proposito utilizza la metafora, mutuata da Giorgio Agamben, del campo di concentramento per descrivere questi spazi. Ma nel Cerchio l’omologazione coatta tipica del campo viene mascherata dal fatto che ogni individuo possiede un nome e un cognome, ha un suo spazio sui social dove riversa la sua vita e crede di costruire la sua identità irripetibile anche se in realtà le opzioni di scelta si sono ridotte, il libero arbitrio è di fatto annullato e il frame è fisso e deciso da altri.
Il secondo strumento che utilizza il Cerchio per obbligare alla “trasparenza” è il diritto assoluto di accesso che ogni cittadino deve avere a qualsiasi tipologia di informazione, inclusi i dati personali degli altri.
Parità di accesso a tutte le esperienze umane possibili: ecco un diritto fondamentale che abbiamo tutti. Siamo obbligati, come esseri umani, a condividere ciò che vediamo e sappiamo. E che tutta la conoscenza dev’essere democraticamente accessibile I segreti sono bugie. Condividere è prendersi cura. La privacy è un furto (pp. 241-242).
Da “la proprietà privata è un furto” di prodhoniana memoria alle varianti marxiane, si arriva all’idea di vita privata come appropriazione indebita di informazioni che invece devono essere collettive.
Alla fine del romanzo la natura distopica del Cerchio si svela in tutta la sua evidenza; eppure la protagonista, ormai convertita all’utopia della trasparenza, non riesce a prenderne coscienza e anche il lettore, bombardato quotidianamente dalle utopie tecnologiche, rischia di tifare per il nemico.
Bibliografia
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