Nelle prime righe della prefazione al Discours sur l’origine de l’inégalité parmi les hommes, lo scritto del 1755 che getta le fondamenta della sua intera riflessione, Rousseau identifica con nettezza filosofia e conoscenza della natura umana, facendosi così erede della tradizione socratica: «La plus utile et la moins avancée de toutes les connaissances humaines me paraît être celle de l’homme et j’ose dire que la seule inscription du temple de Delphes contenait un précepte plus important et plus difficile que tous les gros livres des moralistes» (ET V, p. 81). Questo memorabile incipit, che mostra come l’idea di natura umana sia sin dal principio l’asse portante del discorso antropologico, morale e politico di Rousseau, evidenzia al contempo la problematicità di tale nozione, che sembra irrimediabilmente sottratta alla comprensione dell’essere umano.
L’ammonimento di Socrate ricorda infatti che per vedersi non basta guardarsi e che l’uomo che si guarda crede di sapere quale sia la propria natura, mentre in realtà ne conosce soltanto l’apparenza. Il “conosci te stesso” racchiude pertanto l’essenza della filosofia perché evidenzia la drammatica frattura tra être e paraître, perché invita a cercare ciò che l’uomo nasconde a se stesso per guidarlo a conoscersi “così com’è” veramente. Il tentativo di colmare tale frattura rappresenta il punto di partenza della spiegazione fornita da Rousseau alla genesi della disuguaglianza morale:
Car comment connaître la source de l’inégalité parmi les hommes, si l’on ne commence par les connaître eux-mêmes? et comment l’homme viendra-t-il à bout de se voir tel que l’a formé la nature, à travers tous les changements que la succession des temps et des choses a dû produire dans sa constitution originelle, et de démêler ce qu’il tient de son propre fonds d’avec ce que les circonstances et ses progrès ont ajouté ou changé à son état primitif (ET V, p. 82).
Emerge in questo brano l’intrinseca duplicità che connota l’idea di naturalezza agli occhi di Rousseau. Essa, come rimarcato da Robert Derathé (1964, p. 207), «désigne à la fois ce qui est authentique et essentiel à la nature de l’homme, et ce qui est originel ou primitif». In un primo senso, la naturalezza presuppone la fiducia “ontologica” in un’autentica natura umana creata da Dio, la cui esistenza – difesa contro gli altri philosophes, Helvétius in primis – viene evocata da Rousseau in molti punti della sua opera, a partire ovviamente dalla celebre apertura dell’Émile: «Tout est bien sortant des mains de l’auteur des choses, tout dégénère entre les mains de l’homme» (ET VII, p. 309). In un secondo senso, che come conferma proprio la citazione del trattato sull’educazione è inseparabile dal primo, la naturalezza non viene definita positivamente – come l’essenza primigenia della natura umana –, ma esclusivamente in modo negativo, vale a dire in opposizione al cosiddetto progresso. La difficoltà di conoscersi trova in tale prospettiva un ostacolo nella storia, che si connota come un processo inverso alla manifestazione della naturalezza. Questa antitesi viene espressa attraverso una delle metafore più celebri del secondo Discours, quella (di ascendenza platonica) che paragona la natura umana alla statua sfigurata del dio marino Galuco : «Semblable à la statue de Glaucus que le temps, la mer et les orages avaient tellement défigurée qu’elle ressemblait moins à un dieu qu’à une bête féroce, l’âme humaine altérée au sein de la société par mille causes sans cesse renaissantes […] a, pour ainsi dire, changé d’apparence au point d’être presque méconnaissable» (ET V, p. 82).
Il processo di dénaturation è pertanto animato da una dialettica beffarda: esso non scaturisce semplicemente da una contrapposizione tra la natura umana e qualcosa di esterno ad essa (la storia), ma affonda le proprie radici in una lacerazione interna al primo termine. In altre parole, non si tratta di opporre banalmente l’être della natura al paraître della storia, ma di comprendere un divenire della natura umana che si contrappone all’essenza di questa stessa natura. Da qui discende un’altra celebre tensione che anima il pensiero di Rousseau, ossia quella tra l’homme de la nature, emblema del primo tipo di naturalezza, e l’homme de l’homme, prodotto dell’evoluzione storica e manifestazione di una natura “seconda”. Questo iato sarà lungamente approfondito nell’Émile, in cui il modello di riferimento per l’allievo ideale «ce n’est pas l’homme de l’homme, c’est l’homme de la nature» (ET VII, p. 288).
Il paradosso della natura umana, che coincide con il paradosso della speculazione filosofica, emerge così in tutta la sua forza. Il desiderio di conoscere filosoficamente la natura “prima” nasce soltanto in una condizione di natura “seconda”, ossia quando i progressi storici (tra cui deve essere annoverata la stessa filosofia) l’hanno ineluttabilmente modificata: «Ce qu’il y a de plus cruel encore, c’est que tous les progrès de l’espèce humaine l’éloignant sans cesse de son état primitif […] et que c’est en un sens à force d’étudier l’homme que nous nous sommes mis hors d’état de le connaître» (ET V, p. 82).
«La nature humaine ne rétrograde pas»: natura nascosta, natura perduta
Il paradosso della natura umana viene declinato da Rousseau alternativamente – ma a tratti anche simultaneamente – in due modi, che coincidono con la duplice valenza che egli attribuisce all’idea di naturalezza. Se si assume la definizione “negativa” di naturalezza, cioè vista come in opposizione al progresso, la natura umana risulta completamente perduta, condannata, per così dire, a non ritrovare mai più la sua bellezza originaria. Se si prendono invece le mosse dalla concezione positiva e “ontologica” della natura umana, intesa come un’essenza creata da Dio, essa non può risultare completamente deformata, ma solo nascosta. Tale natura continuerebbe a esistere, comunque intatta, al di là di tutti gli artifici che la nascondono a la mascherano, lasciando così aperta l’ipotesi di una sua “riconquista”.
In nessuno dei due casi, ben inteso, è possibile un ritorno alla natura “prima”, come conferma la celebre definizione dello stato di natura in quanto postulato teorico: «Car ce n’est pas une légère entreprise de démêler ce qu’il y a d’originaire et d’artificiel dans la nature actuelle de l’homme, et de bien connaître un état qui n’existe plus, qui n’a peut-être point existé, qui probablement n’existera jamais, et dont il est pourtant nécessaire d’avoir des notions justes pour bien juger de notre état présent» (ET V, p. 83). Rousseau – al di là delle accuse che gli furono mosse in tal senso dai philosophes, e in particolare da Voltaire – non è affatto un primitivista, come egli stesso chiarisce una volta per tutte nei Dialogues: «Mais la nature humaine ne rétrograde pas et jamais on ne remonte vers les tems d’innocence […] quand une fois on s’en est éloigné» (ET III, p. 365). Il suo progetto antropologico non guarda al passato ma ambisce, al contrario, a far rivivere nel futuro l’originaria natura umana nella natura “seconda” dell’uomo sociale. Questo obiettivo è perseguito attraverso una duplice strategia, che ricalca la tensione tra una natura umana nascosta e una natura umana perduta: la soluzione al primo corno del problema va ricercata nel ripiegamento in se stessi e nell’indagine autobiografica, mentre la soluzione alla seconda difficoltà diventa appannaggio della riflessione pedagogico-politica.
«Intus et in cute»: natura umana e autobiografismo
Anche se la natura “prima” non può essere storicamente conosciuta e, pertanto, non può essere descritta se non attraverso il metodo ipotetico messo in pratica nel Discours sur l’inégalité, essa ricopre nondimeno una funzione normativa di notevole importanza. L’idea che esista un’essenza autentica della natura umana – che non può in ogni caso venire adulterata – riveste agli occhi di Rousseau una funzione determinante nell’indirizzare l’agire umano nel mondo, in quanto «l’homme doit être ce qu’il est» (Goyard-Fabre 1972, p. 199).
La riscoperta di questo elemento originario richiede tuttavia un mutamento di prospettiva radicale rispetto a quella comunemente adottata dai sostenitori dell’esistenza di un “modello” umano. Il vero stato di natura non si può ricercare, come pretendevano i giusnaturalisti, nelle profondità del tempo, ma solamente nei meandri dell’io. Questa idea è illustrata con chiarezza nei Dialogues, nel corso della descrizione che Rousseau fa di Jean-Jacques: «D’où le peintre et l’apologiste de la nature aujourd’hui si défigurée et si calomniée peut-il avoir tiré son modèle, si ce n’est de son propre cœur? Il l’a décrite comme il se sentait lui-même» (ET III, p. 366). La conoscenza di sé equivale così, socraticamente, a una sorta di “reminiscenza” della natura originaria, in grado di annientare l’inesplorabile distanza storica nella distanza interiore. Questa è l’essenza dell’autobiografismo di Rousseau per come descritto nella dichiarazione programmatica che apre le Confessions: «Je forme une entreprise qui n’eut jamais d’exemple, et dont l’exécution n’aura point d’imitateur. Je veux montrer à mes semblables un homme dans toute la vérité de la nature; et cet homme, ce sera moi» (ET I, p. 67). Mentre gli Essais di Montaigne avevano ritratto solo di profilo (per di più quello migliore) il loro autore, le Confessions mostrano Rousseau intus et in cute, «interiormente e fin dentro la pelle», secondo il loro motto d’apertura ripreso dalle Satire di Persio.
È in questa profondità dell’introspezione che risiede, agli occhi di Jean-Jacques, l’originalità della sua indagine autobiografica, che si configura – sin da questa dichiarazione d’intenti – come un’operazione squisitamente filosofica che consente di giungere alla conoscenza, se non diretta per lo meno analogica, della natura “prima”. Una simile conoscenza è tuttavia sterile se non viene applicata alla natura “seconda” (o, se si preferisce, alla dimensione sociale). Non solo, come si è constatato, un ritorno allo stato di natura non è né possibile né auspicabile, ma la natura “prima”, se lasciata a se stessa, mostra sorprendentemente la sua insufficienza. Questo aspetto – che contraddice con forza la visione ingenuamente ottimista del pensiero di Rousseau ancor oggi in voga presso un certa vulgata storiografica – emerge già nell’analisi della perfettibilità, quella «qualité très spécifique» che distingue gli uomini dagli altri animali e ne garantisce la libertà. Pur trattandosi di una facoltà indiscutibilmente naturale, la perfettibilità è non solo privata di un qualsiasi indirizzo teleologico, ma il suo operato – come ipotizzato da Rousseau in un amaro passaggio del secondo Discours – sembra intrinsecamente rivolgersi contro la naturalezza stessa: «Il serait triste pour nous d’être forcés de convenir, que cette faculté distinctive, et presque illimitée, est la source de tous les malheurs de l’homme; que c’est elle qui […] le rend à la longue le tyran de lui-même et de la nature» (ET V, p. 111).
Poiché la natura umana sembra portare in seno una ferita che le impedisce di manifestarsi appieno, la vera sfida della filosofia diviene allora quella di “plasmare” una nuova naturalezza in grado di conciliare natura e storia, libertà e socievolezza. Solo così sarà possibile sostituire alla dénaturation negativa, che ha segnato il progresso storico, una dénaturation positiva, in grado di far rivivere l’uomo della natura nell’uomo dell’uomo, elevandolo tuttavia a una nuova e superiore dimensione morale.
«Mieux dénaturer l’homme»: una nuova naturalezza?
Per “salvare” la natura umana è fondamentale abbandonare lo sguardo retrospettivo con cui generalmente si guarda a essa. Poiché l’homme de l’homme è inevitabilmente una creatura de-naturata, nel senso descrittivo e non valutativo del termine, egli non potrà far altro che realizzare se stesso nella relazione con gli altri, in quella paradossale forma di “buon snaturamento” suggestivamente evocata nell’Emilio: «Les bonnes institutions sociales sont celles qui savent le mieux dénaturer l’homme, lui ôter son existence absolue pour lui en donner une relative, et transporter le moi dans l’unité commune» (ET VII, p. 314).
Questa necessità di modificare la natura umana per ritrovarne l’essenza o – per riprendere la celebre metafora di Starobinski (1971) – di mettere l’ostacolo al servizio della trasparenza, anima apertamente tutta la produzione rousseauiana matura. La Nouvelle Héloïse – in cui Rousseau si propone di «ramener tout à la nature» (ET XV, p. 1229) – si può considerare una brillante trasposizione letteraria di questa dialettica filosofica tra naturalezza e artificio. Julie è infatti costantemente combattuta tra il desiderio di abbandonarsi all’amore passione, diretta espressione della natura istintuale dell’uomo, e la volontà di tener conto delle convenzioni sociali, espresse dalla scelta coniugale, che, pur essendo meramente artificiali, rappresentano il certo e solido fondamento della convivenza umana (cfr. Pulcini, 1990). Nonostante questo contrasto tra la natura “prima” e la natura “seconda” non trovi una risoluzione definitiva, come conferma il finale drammaticamente sospeso dell’opera, un importante sviluppo della dialettica tra naturalezza e artificio è offerta dalla descrizione di Clarens, la piccola comunità agreste fondata da Julie e da Wolmar. I membri di tale “società a misura d’uomo” conducono un’esistenza felice ed autarchica, caratterizzata dalla moderazione e dall’uguaglianza. In questa sorta di luogo utopico, in cui molti interpreti hanno scorto un “laboratorio” di alcune delle tematiche politiche del Contrat social, spicca la creazione dell’Eliso, il verziere di Julie (cfr. Loche, 2005). In questo giardino all’inglese, dove la natura è educata per essere selvatica, si rinviene solo ciò che vi si sarebbe potuto trovare anche spontaneamente, se si fossero cioè prodotte tutte quelle condizioni favorevoli che solo l’intervento di Julie ha riunito: «La nature a tout fait, mais sous ma direction et il n’y a rien là que je n’aie ordonné» (ET XV, p. 837). La fanciulla ha saputo dunque naturalizzare completamente l’artificio ed è riuscita a far sparire qualsiasi forma di mediazione, sino a dar vita a una nuova naturalezza ricostruita da esseri ragionevoli passati dall’esistenza istintuale (l’amore passione) a quella morale (l’amore coniugale).
Lo stesso tentativo di forgiare una nuova naturalezza rappresenta la sfida decisiva sia per il pedagogo dell’Émile, sia per il legislatore del Contrat social. Queste due figure, di primo acchito così differenti, sono in realtà accomunate dalla capacità – che Rousseau non si stanca ripetere essere più degna di un dio che di un uomo – di «changer la nature» (ET VIII, p. 806). L’educazione negativa di Emilio è infatti interamente regolata da un sapiente uso dell’artificio che serve a preservare la purezza naturale. L’idea di naturalezza che anima il progetto pedagogico è, in altre parole, destinata a rimanere esclusivamente un ideale normativo, come confermato dalla constatazione che «[l’éducation] de la nature ne dépend point de nous» (ET VII, p. 311) e che il pedagogo deve servirsi, per raggiungere il suo obiettivo, esclusivamente dell’“educazione delle cose”. Il risultato di questo “esperimento” – basato esattamente come il Discours sur l’inégalité su un metodo ipotetico – è la dissociazione (storicamente impossibile) tra crescita individuale ed educazione sociale. Infatti, come lo stesso Rousseau scrive nei Dialogues, «l’Émile […] n’est qu’un traité de la bonté originelle de l’homme, destiné à montrer comment le vice et l’erreur, étrangers à sa constitution, s’y introduisent du dehors, et l’altèrent insensiblement» (ET III, p. 364).
Il medesimo intreccio tra naturalezza e artificio che caratterizza il trattato sull’educazione si ritrova, declinato nella prospettiva opposta e complementare, negli scritti politici di Rousseau. Il compito del legislatore è qui quello di recuperare l’uguaglianza naturale perduta, di sostituire un patto giusto e fraterno a quello leonino affermatosi storicamente, nella consapevolezza tuttavia che un simile compito coinciderà, ancora una volta, con una metamorfosi della natura umana: «Celui qui ose entreprendre d’instituer un peuple doit se sentir en état de changer, pour ainsi dire, la nature humaine; […] d’altérer la constitution de l’homme pour la renforcer» (ET V, p. 507). Anche in questo caso l’artificio è tuttavia messo al servizio della naturalezza. La società civile, come chiarito già nel Manuscrit de Genève, si fonda su di un diritto che «n’a point sa source dans la nature; il est donc fondé sur une convention» (ET V, p. 464). Questo convenzionalismo non s’identifica in alcun modo con un anti-naturalismo, ma semmai con un’elevazione del diritto naturale stesso: «Les droits individuels ou le droit naturel ne sont pas anéantis par le contrat social, on les retrouve au sein de l’État, mais transformés ou rétablis par la raison» (Derathé 1995, p. 171).
Perennemente sospesa tra una dimensione descrittiva e una dimensione normativa, tra la rivendicazione di un’autonomia assoluta e la consapevolezza che una sua effettiva realizzazione è possibile solo in una dimensione storica e sociale, l’idea di natura umana riflette tutte le contraddizioni di una creatura animata da un’aspirazione profonda alla felicità, ma profondamente contrariata dal divenire della sua stessa natura. Per questo, nonostante il concetto di natura umana sia destinato a rimanere, da un lato, mai del tutto conoscibile e, dall’altro, riveli dei limiti intrinseci (la città del Contrat social è destinata a perire, come sono perite Sparta e Roma, ed Emilio precipiterà nella disperazione in seguito alla morte della figlia e al tradimento della moglie) l’essere umano non potrà fare a meno di confrontarsi – nel bene come nel male – con esso, nella consapevolezza che «c’est un assez beau roman que celui de la nature humaine» (ET VIII, p. 917).
È proprio in questa accettazione del paradosso della natura umana, da lui indagato con dolorosa profondità, che risiede l’attualità, preziosa e a tratti sconcertante, del pensiero di Rousseau, acutamente rimarcata da quel fine interprete della modernità che fu François Mauriac: «Jean-Jacques est près de nous, ce n’est pas assez dire: il est l’un de nous» (Mauriac 1947, p. 29).
Riferimenti bibliografici
Derathé R. (1964), L’homme selon Rousseau, in Études sur le Contrat social de Jean-Jacques Rousseau, Les Belles Lettres, Paris.
Derathé R. (1995), Jean-Jacques Rousseau et la science politique de son temps, Vrin Paris; tr. it. di R. Ferrara, Rousseau e la scienza politica del suo tempo, Il Mulino, Bologna.
ET (2012): Rousseau J.-J., Édition du Tricentenaire-Œuvres complètes, a cura di R. Trousson e F. Eigeldinger, Slatkine-Champion, Paris-Genève, 24 voll.
Goyard-Fabre S. (1972), La Philosophie des Lumières en France, Klincksieck, Paris.
Loche A. (2005), La “perfezione” di Clarens. Utopia e politica in Jean-Jacques Rousseau, «Rivista di storia della filosofia», LX/3, pp.385-407.
Mauriac F. (1947), Trois grands hommes devant Dieu, Hartmann, Paris.
Starobinski J. (1971), La transparence et l’obstacle, Gallimard, Paris; tr. it. di R. Albertini, La trasparenza e l’ostacolo, Il Mulino, Bologna.
Pulcini E. (1990), ‘Amour-passion’ e amore coniugale. Rousseau e l’origine di un conflitto moderno, Marsilio, Venezia.