cosmopolis rivista di filosofia e politica
Cosmopolis menu cosmopolis rivista di filosofia e teoria politica

La parabola del socialismo italiano

Carmelo Calabrò

In un recente sondaggio sugli orientamenti elettorali degli italiani commissionato dal Tg dell'emittente televisiva La7, tra le formazioni politiche minori collocate nell'area del centro-sinistra compariva anche il PSI. Al Partito socialista l'agenzia demoscopica attribuiva un 1% tondo.
Nella testa di chi prova a dedicarsi sine ira et studio alla riflessione sulla storia della cultura socialista, vedere il PSI nella griglia approntata dal sondaggista ha inevitabilmente innescato una serie quasi automatica di rimandi, sintetizzabili in una considerazione: come non pensare alla lunga, complessa e travagliata vicenda che per un secolo ha visto il socialismo – nel bene e nel male – svolgere un ruolo da protagonista nella storia italiana?
L'indicazione cronologica "per un secolo", preferita a "per più di un secolo", può apparire ingenerosa. Le diverse particelle della diaspora successiva allo scioglimento del PSI – consumatosi nel 47° congresso il 13 novembre 1994 presso l'Auditorium del Palazzo dei Congressi di Roma – meritano rispetto. E altrettanto si può dire della formazione politica che dal 7 ottobre 2009 ha formalmente assunto la decisione di chiamarsi Partito socialista italiano. Tuttavia, sarebbe difficile negare che il destino del socialismo italiano ha incontrato in Tangentopoli la sua "Beresina"[1]: una rotta dalle conseguenze irreversibili.
Non è questa la sede per esprimere una valutazione approfondita su "Mani pulite" e i suoi effetti. Nel complesso, la stagione che ha assunto a simbolo l'inchiesta milanese continua ad essere oggetto di giudizi contrapposti. L'ondata giudiziaria ebbe certamente un impatto violento, ma è anche vero che le fondamenta su cui si accanì erano logorate dall'interno. Sarebbe pertanto semplicistico e riduttivo attribuire il crollo della prima repubblica, e con essa del PSI, esclusivamente all'azione dei giudici. Per quel che riguarda in particolare le vicissitudini del PSI, l'iniziativa del pool di Milano rivelò la sua maggiore incisività quando scricchiolii sinistri si erano fatti già sentire in termini di consenso, credibilità della classe dirigente, prospettiva strategica. Ad ogni modo, per perfidia della storia, l'estate del 1992 fu talmente drammatica da compromettere il congresso del centenario, in precedenza fissato tra agosto e settembre. Cento anni prima, il Congresso di Genova aveva visto nascere il Partito dei lavoratori italiani, divenuto socialista l'anno dopo a Reggio Emilia. L'ambizione era grande: dare alla classe lavoratrice un'unica casa comune.



1. La casa comune il socialismo l'ebbe per quasi trent'anni, sebbene abitata da inquilini spesso litigiosi. E per capire meglio come gli eredi del partito nato a Genova si presentarono all'appuntamento con la nascita della Repubblica, è forse utile partire proprio dalla scissione del 21.
La fatidica rottura di Livorno, con la conseguente nascita del PCD'I, in realtà non risolse il problema della dialettica tra unità e divisione nella sinistra; e neanche l'uscita dei riformisti di Turati, avvenuta a poche settimane dalla "marcia su Roma", contribuì a sciogliere i nodi. Il grande corpo socialista si divise in tre tronconi, tutti e tre animati dalla sincera ambizione di riunificare la classe lavoratrice, che però non riuscì a trovare una regia condivisa cui affidarsi neanche dopo l'attentato Matteotti. Le scissioni divisero ma non chiarirono, a differenza di altri paesi dell'Europa occidentale, dove tra il 17 e il 19 si crearono le premesse affinché socialdemocratici e comunisti si mettessero su due binari separati – quanto meno dal punto di vista delle opzioni strategiche di fondo[2]. La vicenda dell'antifascismo vide il modularsi a fisarmonica di avvicinamenti e allontanamenti: tra i due partiti socialisti, che attraverso l'esperienza della Concentrazione antifascista approderanno a una faticosa riconciliazione; e tra questi e il PDC'I, con un andamento fortemente condizionato dalle strategie di Mosca.
Dal punto di vista ideologico, il socialismo italiano era ben lontano dal "mettere Marx in soffitta". Il marxismo d'altronde non era solo un porto teorico sicuro; era la dottrina della "Patria del socialismo" e assicurava risorse simboliche difficilmente sostituibili. Ciò non garantiva omogeneità di impostazione, ma escludeva vie alternative. Ne offre testimonianza il modo in cui fu respinto il tentativo di Carlo Rosselli di affrancare il socialismo dall'impianto marxista. Con vari argomenti, e da posizioni diverse, a Rosselli replicarono negativamente i riformisti Rodolfo Mondolfo e Claudio Treves prima e, dopo l'uscita di Socialismo liberale a Parigi nel 1930, tanto Nenni quanto Saragat, protagonista nel '47 della scissione di Palazzo Barberini, ma negli anni trenta convinto marxista e sostenitore della stretta alleanza con i comunisti.
In effetti, la questione cruciale non era tanto il riferimento "ufficiale" al marxismo, e nemmeno l'unità d'azione con il PCD'I. Se si eccettua la parentesi del patto nazi-sovietico del '39, dalla fase dei Fronti popolari a quella della Resistenza la volontà di compattarsi contro il comune nemico prevalse in tutta la sinistra europea[3]. Inoltre, sarebbe un errore sottovalutare l'enorme ascendente esercitato dalla Russia sovietica, nonostante la consapevolezza relativa ai rigori del regime staliniano. C'era qualcosa di più. Le figure di spicco del gruppo dirigente – quasi tutto disperso in esilio – che nell'inverno del '42-'43 si ritroverà a ricostituire in Italia il movimento socialista, esprimevano orientamenti culturali riconducibili a vario titolo al pensiero rivoluzionario. In Nenni pulsava la passione del repubblicanesimo giacobino; Lelio Basso si ispirava alle idee di Rosa Luxemburg; Morandi esplorava le vie dell'operaismo. Sebbene con un vertice ideologicamente plurale, il PSIUP nato nel '43 era un partito che non solo non intendeva in senso tattico l'unità d'azione, ma che laddove si contrapponeva al PCI, tendeva a farlo da sinistra.
Questa condizione fu determinante nell'orientare la rotta socialista nel CLN, all'Assemblea costituente, nella scelta del frontismo. È certamente eccessivo giudicare «distratto e miope»[4] lo sguardo rivolto dal partito socialista al dopoguerra. Eppure, è difficile non ritenere velleitario l'insistente richiamo alla repubblica socialista come obiettivo immediato della lotta di liberazione, nel momento in cui, con opportunismo realista, Togliatti avallava il principio della continuità istituzionale. C'era un'altra strada? Pensando a cosa avveniva in quegli stessi anni in Europa occidentale, non è così insensato rispondere di sì. Pur tenendo conto dei molteplici vincoli di contesto, la via seguita non era obbligata. Cercando di rivolgersi a una base sociale ampia, nel nome di ideali diffusamente sentiti, era forse possibile avviarsi a diventare una forza di alternativa progressista nell'ambito della democrazia liberale. Non va dimenticato che alle elezioni del '46 – prima della rottura di Saragat – i socialisti conquistarono il 20,7% dei voti, a fronte del 19% appannaggio del PCI. Due anni dopo, del 31% dei consensi per il Fronte democratico popolare, oltre il 20% furono comunisti. D'altro canto, i limiti del partito socialista vanno misurati tenendo conto della peculiare incisività del comunismo italiano, che seppe sfruttare al meglio sul piano politico l'efficacia militare dimostrata nella Resistenza. Togliatti forgiò un partito capace di essere forza rivoluzionaria legata a doppio filo a Mosca e al tempo stesso partner del compromesso di sistema con la DC. Il PCI attingeva a pieno alle risorse di quella "doppiezza" che nel lungo periodo avrebbe presentato il conto: godeva ideologicamente della propria collocazione internazionale e si proponeva all'interno come partito di riforme a spiccata vocazione egemonica.



2. Il PSI uscì dal secondo dopoguerra com'era uscito dal primo: sconfitto e diviso. Le elezioni del '48 non aprirono la strada a un potere autoritario, ma al blocco a direzione cattolica nella nuova repubblica democratica. Sullo sfondo, la guerra fredda imponeva la logica della contrapposizione. Negli anni '48-'54, si può dire che il partito guidato da Nenni replicò, mutatis mutandis, l'atteggiamento successivo alla Rivoluzione russa. Le critiche allo stalinismo furono pressoché inesistenti; in compenso gli Stati Uniti incarnavano l'imperialismo capitalista che minacciava la pace mondiale. Il lessico prevalente aveva il tenore dell'ortodossia: la DC era custode di un potere reazionario mascherato da democrazia formale, e l'unità proletaria doveva servire per la costruzione della democrazia sostanziale. Anche nella vita interna, il partito socialista era improntato al centralismo democratico organizzato da Morandi. La subalternità politica e culturale al PCI toccò in questo periodo i suoi vertici, e il PSI rischiò di diventare un «partito ausiliario»[5]. Ciononostante, il socialismo italiano aveva ancora un suo popolo, pronto a mobilitarsi nelle battaglie a tutela del lavoro e dei diritti di libertà; e a contrastare il tentativo di restaurazione conservatrice condotto con la mano dura di Scelba e frenato dal fallimento della "legge truffa".
Il '56 è considerato l'anno della "svolta": in realtà non si trattò di un fulmine a ciel sereno, e il termine svolta non restituisce complessità e limiti del processo che condusse il PSI in una nuova direzione. A dispetto dell'apparente immobilità, già a partire dal '53 nel mondo socialista si affacciò l'idea dell'autonomia, insieme all'ipotesi di sondare il "dialogo con i cattolici" e il riavvicinamento al PSDI. Questa linea voluta da Nenni presupponeva la chiusura della stagione frontista, ma non implicava la rottura col PCI, né un profondo ripensamento ideologico. Anche dopo i fatti di Ungheria, quando non mancarono interventi aspri nei confronti dell'URSS, il socialismo reale rimase un modello di cui si potevano criticare le distorsioni, senza però ripudiarne la validità storica.
Il PSI si avviò verso il centro-sinistra con una contrastata operazione di vertice, senza rivolgere alla società civile più sensibile l'invito ad aprire il cantiere di un ampio e meditato cambio di orizzonte. D'altronde, anche nelle intenzioni dei suoi più lucidi sostenitori, l'eventuale accordo politico per entrare nella "stanza dei bottoni" non era funzionale alla trasformazione in senso socialdemocratico del partito. Questo giudizio può valere anche per Riccardo Lombardi, la mente delle "riforme di struttura", concepite per rimediare ai gravi squilibri della società italiana, ma anche come leve per far saltare i meccanismi dell'economia di mercato. In fin dei conti, il nuovo corso avrebbe dovuto collocare il socialismo italiano a mezza via tra il comunismo filosovietico e la socialdemocrazia riconciliata con le istituzioni rappresentative: una sorta di eurocomunismo ante litteram. Non c'è da stupirsi se da parte del PCI togliattiano arrivarono accuse di "deviazionismo opportunistico" e rottura della solidarietà di classe. Il problema è che le resistenze furono acute anche internamente, dove l'affezione all'intransigenza marxista rimaneva salda e l'eventuale collaborazione di governo era associata da molti al tradimento della causa socialista. La pensavano così gran parte dell'apparato morandiano, la vecchia guardia "unitaria" e personaggi di indiscusso spessore come Basso, Foa e Panzieri: si ritroveranno insieme nel PSIUP con la spaccatura del '64. In queste condizioni, l'apertura socialista al centro-sinistra nasceva nell'incertezza, destinata a non essere recepita dalle grandi masse organizzate – sulle quali era sempre più salda l'egemonia del PCI – e a rimanere invischiata nella rete democristiana.
Il centro-sinistra fu un'esperienza controversa, ma è difficile negare che quanto meno nella sua prima fase rappresentò un momento di progresso nella storia d'Italia. A molti anni di distanza, Vittorio Foa è arrivato a scrivere: «il governo Fanfani del 1962-'63 mi sembra uno dei migliori della storia della repubblica»[6]. Il PSI era ancora unito, partecipava dall'esterno al governo e fu in grado di imprimere un notevole impulso riformatore: basta ricordare gli interventi sulla scuola e la nazionalizzazione dell'industria elettrica.
Già il modo in cui nacque il primo governo Moro nel dicembre del '63 lasciava intravedere il vicolo cieco che attendeva il PSI. Indebolito dalla fuoriuscita della sinistra e con margini di contrattazione ridotti, il partito non era in grado di imporre alla DC lo spirito di cambiamento che avrebbe voluto infondere all'esperienza di governo. Il patto di centro-sinistra avrebbe dovuto ruotare intorno alla politica di programmazione, strumento al servizio di uno sviluppo socialmente equo. Ben presto però la programmazione divenne un mantra sbiadito e costretto nelle maglie della stabilizzazione economica – giustificata in parte dalla contingenza sfavorevole subentrata agli anni del boom e condotta con esiti divisivi nei confronti del mondo del lavoro.
Le ali del riformismo socialista furono tarpate: la destra democristiana dispiegò tutta la sua capacità di interdizione, Moro si mosse come un novello Giolitti, il Piano Solo del generale De Lorenzo ebbe un effetto di intimidazione ricattatoria sulla leadership socialista. Invece di sfilarsi dalla trappola, Nenni puntò alla riunificazione con il PSDI, ormai del tutto subalterno alla DC. Nell'ottobre '66 nasceva il PSU: l'operazione avrà esiti elettorali disastrosi nel '68.



3. Il mondo cambiava. Il movimento studentesco fu espressione di un sentimento anti-autoritario che assunse linguaggi e miti eterogenei: leninismo e anarchismo, maoismo e guevarismo. Il denominatore comune fu la radicalità, dapprima liberatoria, poi sempre più inquieta. Contemporaneamente, le lotte operaie del '68-'69 aprirono una fase di conquiste considerevoli per il lavoro, prima che si scatenasse la spirale tra strategia della tensione e deriva violenta del conflitto.
In un momento così tumultuoso, il socialismo italiano appariva politicamente diviso e culturalmente impreparato, in bilico tra riformismo incompiuto e marxismo d'antan. Lo scioglimento del PSU nel luglio '69 sancì un fatto evidente: il socialismo democratico europeo non attecchiva in Italia. L'incontro tra socialisti e socialdemocratici era stato un matrimonio posticcio, privo di radici teoriche e motivazioni culturali solide. La scommessa di una forza socialista moderna, capace di contrastare a sinistra l'egemonia comunista erodendo al tempo stesso adesioni al centro, aveva fallito la prova del nove: il consenso.
Il problema però rimaneva, intrecciato al destino irrisolto dei rapporti tra PSI e PCI. Gli inizi degli anni '70 videro il primo dibattersi con insofferenza nella dimensione ormai asfittica del centro-sinistra, e il secondo consolidare il proprio ruolo di collettore della domanda di cambiamento, mietendo consensi ben oltre i confini tradizionali. I risultati ottenuti dal PCI tra le amministrative del '75 e le politiche del '76 furono eclatanti e consolidarono la leadership di Berlinguer, che probabilmente lesse il successo in modo parziale. I voti al PCI non erano solo il frutto di una linea convincente; corrispondevano anche alla richiesta di una soluzione progressista in grado di sbloccare il sistema[7]. Anche se gli ostacoli da superare erano molti, si poteva aprire lo spiraglio dell'incontro tra i due partiti della sinistra, che peraltro stava dando notevoli risultati a livello di poteri locali. In condizioni complesse, il PCI seguì invece la via del compromesso storico. Lo fece con coerenza, ma perdendo lentamente vitalità e suffragi. La lotta al terrorismo e l'impegno di unità nazionale coincisero con un paradosso. Il partito di Berlinguer si erse a baluardo della democrazia, però furono ritardati i conti rispetto ai nodi identitari e al legame ormai insostenibile con l'URSS.
Nel frattempo in casa socialista l'impasse politica si aggravava. Al congresso del '76 Lombardi lanciò la proposta dell'alternativa di sinistra: la formula però non trovava sponde concrete nel PCI, e poteva essere accolta nel PSI solo con la riserva che tra i due partiti si ridefinissero gli equilibri in termini di peso. Inoltre, persisteva il problema delle diverse collocazioni internazionali. Lo sbandamento seguito all'esito deludente delle elezioni di giugno aprì la strada alla segreteria Craxi.
I risultati elettorali del giugno '76 avevano consegnato ai due partiti della sinistra storica il 44% (34,4 PCI; 9,6 PSI). Non ne scaturì né un governo incentrato sull'unità delle sinistre, né un governo di coalizione da queste imposto alla DC; si formò invece il monocolore presieduto da Giulio Andreotti, grazie all'astensione tanto del PSI quanto del PCI. Era il suggello dell'anomalia italiana: l'assenza di una robusta socialdemocrazia non consentiva l'assunzione diretta del governo, e neanche di ricorrere alla Grosse Koalition in modo chiaro e limpido. Dal '76 all'80 la distanza tra socialisti e comunisti si allargò, in un contesto segnato da riflusso ed escalation del terrorismo.



4. La stagione craxiana iniziò in sordina. Al congresso del MIDAS (luglio '76) il nuovo segretario era stato sostenuto da una coalizione eterogenea. Dalle assise non era emerso alcun colpo d'ala. La novità era consistita nel ricambio del gruppo dirigente: oltre a Craxi, si facevano largo i giovani Signorile, Cicchitto, De Michelis, Manca.
Ma pian piano le novità affiorarono. Al congresso torinese del marzo '78 Craxi e Signorile (l'allievo di Lombardi che diverrà vicesegretario) presentarono il progetto L'alternativa dei socialisti. La mozione, che raccolse i due terzi dei voti, per certi aspetti era di una studiata vaghezza politica. La prospettiva unitaria non era esplicitamene ripudiata, ma ricondotta nell'ambito di una "alleanza riformatrice" che, pur rimanendo incentrata sulla forza politica e sindacale della sinistra, avrebbe dovuto aspirare al consenso maggioritario in modo trasversale. In sostanza, ciò significava presa di distanza dal PCI in attesa di definire meglio la strategia autonoma del PSI. Eppure non era tutto qui. Gia dal '76 Craxi aveva rivelato l'interesse a lanciare una sfida sul piano delle idee. Il programma di Torino, come pure il saggio Il Vangelo socialista pubblicato dal segretario del partito il 27 agosto '78 su "l'Espresso", insistevano in questa direzione: il socialismo doveva rifarsi a una tradizione plurale, ripudiando l'impostazione leninista; andavano recuperati soprattutto i riferimenti libertari e decisamente respinte le versioni autoritarie e statolatriche. Più spazio dunque alle autonomie sociali e produttive, meno allo Stato; più pluralismo e meno burocrazia; più Proudhon e meno Marx. Si può dire che, con innegabile istinto, Craxi coglieva l'importanza di sostenere la propria leadership dando una connotazione culturale di rottura al nuovo corso, politicamente ancora da definire. E la risposta da parte dell'intellighenzia non mancò. In particolare la rivista "Mondo operaio", diretta da Federico Coen, dove già nel '75 Bobbio aveva avviato il dibattito critico sulla dottrina marxista dello stato, fu fucina di interventi in una certa misura consonanti col possibile rinnovamento socialista. In quegl'anni, a "Mondoperaio" collaborano tra gli altri Giuliano Amato, Luciano Cafagna, Gino Giugni, Luciano Pellicani, Giorgio Ruffolo, Domenico Settembrini.
Con le elezioni del '79 il quadro cominciò a chiarirsi e le suggestioni teoriche si avviarono a lasciare il campo alla politique d'abord, che verrà progressivamente interpretata da Craxi con piglio molto più spregiudicato in confronto al suo vecchio maestro Nenni.
L'assetto politico degli anni '80 si delineò a partire da due presupposti convergenti: la fine del compromesso storico e la nuova rotta su cui Craxi riuscì a trascinare il PSI. La DC chiuse al PCI col prevalere della coalizione detta del "preambolo"; il PCI si attestò sullo slogan chiarificatore "o al governo o all'opposizione" .
Tra l'80 e l'82 nel partito socialista fu piegata ogni resistenza alla scelta di ritorno al centro-sinistra. Mostrando innegabili doti carismatiche, Craxi di fatto si sbarazzò di ogni opposizione interna. A conferire forza trascinante alla guida craxiana contribuì la sollecitazione dell'orgoglio socialista. L'alleanza con la DC fu interpretata con spirito aggressivo: il PSI era indispensabile ad assicurare la governabilità e la capacità di manovra del leader puntava a far pesare il partito più della sua reale consistenza. I successi non mancarono, e toccarono il punto più alto con la conquista della presidenza del consiglio, che Craxi mantenne dall'83 all'87. In virtù della contingenza internazionale favorevole, fu più facile cavalcare l'illusione di un nuovo boom economico. Ideologicamente, negli ambienti socialisti si puntò sull'idea che fosse finalmente all'opera un riformismo modernizzatore, in sintonia con i mutamenti strutturali che investivano la società e il mondo della produzione. Il socialismo craxiano si lasciava alle spalle gli ancoraggi novecenteschi e mirava a divenire partito "pigliatutto", con particolare attenzione rivolta ai "ceti emergenti". Al tempo stesso, la proposta della "grande riforma" istituzionale, ritagliata su misura delle ambizioni mitterandiane di Craxi, era agitata come panacea per liberare il sistema dalle pastoie del parlamentarismo. Nel complesso, l'obiettivo era scardinare gli equilibri che consentivano alla DC e al PCI di spartirsi gran parte del consenso popolare. La prima andava messa alle corde dimostrandone la stanchezza attraverso la serrata competizione nell'ambito del pentapartito. Il secondo doveva essere isolato per metterne a nudo i ritardi politici e culturali. Ma le cose andarono diversamente. Per quanto in fase discendente, la DC contrastò fino all'ultimo il protagonismo craxiano. E il PCI, sebbene avesse perso slancio espansivo, trovò nella "diversità" berlingueriana l'argine morale che manteneva lontano dal PSI l'elettorato tradizionale di sinistra. Il partito di Craxi non andò mai oltre il 15%.
In definitiva, il sistema politico italiano era bloccato. La rinnovata conventio ad escludendum impediva qualunque ipotesi di alternanza e i partiti di governo trovarono sempre più nella spartizione del potere l'unico collante. La strategia craxiana finì con l'aggiornare in senso deteriore la metafora nenniana della "stanza dei bottoni": i bottoni ora facevano «tutt'uno con la cassaforte»[8]. Debito pubblico crescente, corruzione dilagante e mancanza di sbocchi politici contribuirono alla degenerazione complessiva fino al 1992: l'annus horribilis della prima repubblica.

E-mail:



[1] P. BAGNOLI, Una Beresina! Discorso sullo stato presente del socialismo italiano, Felici, Pisa 2008.
[2] Cfr. G. SABBATUCCI, Il riformismo impossibile. Storia del socialismo italiano, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 9.
[3] Cfr. E. HOBSBAWM, Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l'eredità del marxismo, Rizzoli, Milano 2011, p. 270.
[4] D. SASSOON, Cento anni di socialismo. La sinistra nell'Europa occidentale del XX secolo, Editori Riuniti, Roma 1997, p. 102.
[5] P. AMATO, Il PSI tra frontismo e autonomia (1948-1954), Lerici, Cosenza 1978, p. 74.
[6] V. FOA, Questo Novecento, Einaudi, Torino 1996, p. 287. A pagina 281, Foa scrive anche: «oggi mi appassiona l'idea che la sinistra avrebbe potuto allearsi coi riformatori Lombardi e Giolitti».
[7] Cfr. M.L. SALVADORI, La sinistra nella storia d'Italia, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 160.
[8] L. CAFAGNA, La grande slavina: l'Italia verso la crisi della democrazia, Marsilio, Venezia 1993, p. 97.

torna su