1. Dalla fame alla sazietà e ritorno
C'è chi mangia troppo poco, chi non mangia affatto e chi mangia troppo, e poi – tanti, troppi – che invece mangiano sulla fame: con conseguenze devastanti sulle risorse naturali e umane. Partiamo da due giornate mondiali: ce n'è una ogni giorno dell'anno, ma le due dedicate al cibo cadono entrambe – forse non a caso – nello stesso mese. Nel calendario mondiale, ottobre è diventato il mese della sazietà e della fame. E va sottolineato che ipernutrizione e sottonutrizione, celebrate nello stesso mese, conducono anche negli stessi "luoghi": le malattie, le povertà, i disagi.
Prima si "celebra" la Giornata dell'obesità (10 ottobre), patologia che affligge milioni di persone soprattutto nel mondo cosiddetto sviluppato, con conseguenze sanitarie e ricadute economiche assai gravi. Ma anche nei paesi in via di sviluppo il numero degli obesi sta superando quello degli affamati, merito delle diete occidentali. Poi scatta la Giornata mondiale dell'alimentazione (16 ottobre), che ci ricorda il "peso" degli affamati sparsi nei quattro angoli del pianeta, in aumento anziché in calo come vorrebbero i Millennium Development Goals – dimezzare povertà e fame entro il 2015 – e il piano strategico dell'Organizzazione per l'Agricoltura e l'Alimentazione, la FAO.
La FAO, appunto. Ma, a parte presentare alla vigilia delle festività rapporti tanto catastrofici quanto patinati, cosa fanno concretamente le agenzie internazionali? Sono in molti a chiederselo, ma in pochi a saperlo. Non tutti sanno, infatti, che praticamente la metà delle dotazioni delle agenzie internazionali specializzate in campo agroalimentare – FAO, PAM e IFAD ad esempio – serve per mantenere se stesse, cioè le loro strutture pesanti e appunto costose. Tra stipendi, benefit, trasporti e spese generali si bruciano miliardi di dollari: uno scandalo che, finiti i controvertici mediatici di protesta da parte delle Organizzazioni non governative, passa ben presto nel dimenticatoio. Tirando le somme e moltiplicandole per enne (il numero delle agenzie delle Nazioni Unite) si capisce poi chi mangia sulla fame.
Allora siamo tutti matti, si direbbe. Sì, del resto non è un caso che sempre in ottobre cada anche la giornata mondiale della salute mentale (10 ottobre, come l'Obesity Day). In effetti, il nostro rapporto con il cibo, molto spesso diventa espressione di malessere: l'ingorgo alimentare esprime un profondo disagio, soprattutto psicologico, che riguarda il rapporto equilibrato con la propria mente e individualità: si cerca continuamente quello che non si trova negli eccessi, nei consumi sfrenati, nel bere compulsivo (o pub crawl), nel sesso compulsivo, nel mangiare senza fine…o nel non mangiare. Questa esagerazione esasperata delle nostre esperienze si rivela anche sul piano linguistico, con un aumento di superlativi e parole che rimandano alle cose grandi – l'acqua Levissima che diventa altissima, purissima e levissima… – in questa ricerca spasmodica di tutto ciò che è super e maxi, iper e estremo: anche il gelato è Extreme e il gusto è extreme... L'eccesso nelle piccole e grandi cose ormai è uno stile, un modello di vita e di consumo, sostenuto dall'idea che bisogna sempre essere ovunque in qualsiasi momento.
2. Produzione, consumo, spreco: i paradossi
D'altra parte in questi campi si registrano alcuni paradossi, almeno tre dei quali sono difficili da digerire.
Il primo è questo: la stessa FAO stima che la produzione agricola mondiale potrebbe nutrire abbondantemente 12 miliardi di esseri umani, cioè il doppio di quelli attualmente presenti sul pianeta. E non a caso nel World Food Summit del 2009 uno degli obiettivi da raggiungere nel 2050 è l'incremento della produzione agricola del 70%, proprio perché le potenzialità già ci sono.
Com'è possibile, allora, che nonostante summit, dichiarazioni e obiettivi sbandierati il numero di affamati non diminuisca, anzi aumenti? Hanno superato il miliardo ormai. Mentre nel mondo l'obesità riguarda oltre 300 milioni di persone e un miliardo di adulti risultano sovrappeso tanto da far proporre a qualcuno una tassazione ad hoc sugli alimenti eccessivamente calorici, il cosiddetto junk food. Già, un vero dilemma dell'epoca moderna: aumentare o no le imposte sul cibo-spazzatura, ovvero il consumo preferito degli obesi?
Magri e grassi sembrano concentrare tutte le storture dello sviluppo capitalistico e dell'omogeneizzazione dei modelli di produzione e di consumo: il cibo che si produce, si trasforma, si commercia, si distribuisce, e poi si consuma segue sempre lo stesso "modello globale"[1]. Del resto che la produzione agricola sia strategica per il futuro se ne sono accorti i maggiori "giocatori" sui mercati mondiali – Paesi emergenti come le petro-monarchie del Golfo, la Cina, il Sud-est asiatico, imprese private, fondi di private equità – che stanno acquistando milioni di ettari soprattutto in Africa e negli altri paesi del Sud del mondo: è il land grabbing ovvero l'accaparramento dei terreni che in un modo o nell'altro minaccia la sovranità alimentare dei popoli, un nuovo colonialismo nella prospettiva che le bocche da sfamare nel giro di due decenni arrivino a 9 miliardi.
Dunque produciamo o potremmo produrre tanto (di più), sovvenzionando la produzione stessa (quanto ho detto sull'agricoltura europea viene replicato negli USA e in altri paesi sviluppati), ma non in modo sufficiente per tutti, e poi mangiamo anche male, tanto da pensare di tassare le schifezze alimentari. La malnutrizione è il denominatore comune dei nostri tempi: quasi due terzi della popolazione mondiale mangia male, o troppo o troppo poco, comunque male. Con conseguenze devastanti anche dal punto di vista economico, sanitario e sociale[2].
Il secondo paradosso è che fame e sazietà, scarsità e abbondanza si incrociano, talvolta pericolosamente: dove c'è denutrizione c'è abbondanza, dove c'è scarsità troviamo obesità. Tutti pensano con un'immagine stereotipata che i "magri" siano perlopiù concentrati nei paesi poveri mentre i "grassi" esplodano in quelli ricchi. Non è così. Ad esempio l'Africa è colpita da entrambe le patologie. Non tutti hanno coscienza che l'obesità ha raggiunto livelli elevatissimi anche in questo continente. Un numero significativo di africani ha lasciato le aree rurali per recarsi in quelle urbane, dove consuma molto cibo ma di scarsa qualità. Nelle aree della Cina più "occidentalizzate" l'obesità arriva al 20%. Il sovrappeso è divenuto un problema non meno preoccupante della carenza di cibo. Sia la denutrizione che la sua condizione opposta sono causa della povertà e dell'insicurezza alimentare, che colpiscono una larga porzione di popolazione urbana, la quale non è in grado di accedere ad alimenti freschi e nutrienti[3]. In alcuni Stati del Nord e del Sud dell'Africa, le persone in sovrappeso hanno superato di numero quelle denutrite, ma in queste aree non vi è alcuna consapevolezza dei problemi che tale condizione comporta. Anzi, qui l'obesità non è vista come un problema ma come uno status invidiabile, simboleggiante un buon tenore di vita. Seppure in proporzioni diverse questo trend è simile anche nei paesi sviluppati, Italia compresa. Secondo un recente studio dell'Istituto superiore di Sanità, gli obesi nel nostro Paese sono in preoccupante aumento. Le persone in sovrappeso in Italia sono oltre due uomini su tre (67%) e più della metà delle donne (55%), mentre assai più significativo è il dilagare del problema nei più giovani. I bambini italiani sono i più grassi d'Europa con uno su tre di età compresa tra i 6 e gli 11 anni che pesa troppo[4]. Problema che si cerca di risolvere, coerentemente con l'attuale logica di consumo e crescita semplicemente con un (para)farmaco nuovo che con "tre spruzzi sotto la lingua 5 volte al giorno" toglie i crampi della fame. Ecco un illusorio placebo, che dovrebbe sostituire in modo molto semplicistico quelle problematiche psicologiche ed esistenziali che stanno dietro alla necessità compulsiva di mangiare. Un altro bisogno inesistente, il full fast, spray sublinguale, miracolo del progresso sicuramente più costoso di una sana dieta fisica e mentale. E probabilmente, anche meno efficace[5].
Il terzo paradosso riguarda proprio la spazzatura, dove finisce invece tutto il cibo sprecato. Solo qualche elemento, tanto per capire lo squilibrio tra l'offerta e la domanda, lo squilibrio meno noto al mondo ma probabilmente il più scandaloso. Intanto il dato, frutto del lavoro di uno studioso inglese, Tristram Stuart che, rielaborando i bilanci alimentari della FAO, ha calcolato un livello di "surplus superfluo" che sarebbe 22 volte superiore a quello necessario per alleviare la fame delle popolazioni malnutrite del pianeta o basterebbe per alimentare 3 miliardi di individui[6]. Insomma lo spreco potrebbe rappresentare anche un'opportunità, almeno per qualcuno (e non sono pochi).
Non sono molte, peraltro, le analisi serie nel campo dello spreco alimentare. Ecco qualche altro numero, anche se da prendere fra virgolette. Negli Stati Uniti il 25% di alimenti perfettamente consumabili viene incenerito. Su una spesa campione di 42 dollari, 14 ne vengono spesi per l'acquisto di prodotti non necessari. In Italia lo spreco annuo di prodotti alimentari ancora perfettamente consumabili ammonta a 1,5 milioni di tonnellate, pari a un valore di mercato di 4 miliardi di euro. Finiscono ogni giorno in discarica o nell'inceneritore 4 mila tonnellate di alimenti, il 15% del pane e della pasta che gli italiani acquistano quotidianamente, il 18% della carne e il 12% della verdura e della frutta. Secondo l'Associazione per la Difesa e l'Orientamento dei Consumatori (ADOC), ogni nucleo familiare in Italia getta via ogni anno 584 euro di prodotti alimentari su una spesa mensile di 450 euro, circa l'11%.
Spreco che oltretutto ha anche un importante impatto ambientale. Ad esempio da uno studio condotto da "Last Minute Market", spin off dell'Università di Bologna (vedi oltre), emerge che solo la distribuzione organizzata italiana nel 2009 ha sprecato ben 244.250 t di cibo ancora perfettamente consumabile, il cui smaltimento ha provocato la produzione di 291.393 t di CO2 e per la cui neutralizzazione sono necessari 586.205.532 m2 di area boschiva equivalenti a 58.620 ettari[7]. Peraltro, se si riuscisse a mettere in rete l'intero sistema di distribuzione del nostro Paese si potrebbe recuperare tanto cibo da mettere a tavola – colazione, pranzo e cena – quasi un milione di indigenti al giorno.
Insomma nel nostro mondo scarsità e abbondanza, fame e sazietà, produzione e consumo pur scontrandosi non si incontrano: sono i rovesci della stessa medaglia. Un conio che lega malnutrizione, insicurezza alimentare, salute, povertà e spreco: il vero scandalo.
3. Lo spreco utile: proprio un ossimoro?
Eppure lo spreco, ciò che si getta via, in parte può essere utile, almeno per qualcuno: una manna dal cielo. Perché allungando la vita dei beni e dei prodotti (alimentari), allunghiamo anche quella di chi li consuma: gettare i prodotti invenduti prima della loro fine "naturale" è un po' come ucciderli, e con loro far morire anche le persone che invece potrebbero consumarli. Questo, in fondo, è l'obiettivo del progetto che poi si è sviluppato a partire da quell'osservazione. Insomma quel collante, come dicevo prima, tra scarsità e abbondanza, tra affamati e ipernutriti, tra produzione (abbondante) e consumo (scarso).
Così alla mia domanda se si potessero recuperare quei prodotti la risposta fu netta: niente da fare, erano già diventati rifiuti. Invece, a ben vedere, quella era un'offerta, potenziale almeno, di prodotti. Si poteva anche immaginare che ci fosse una domanda inespressa per quegli stessi prodotti: bastava guardarsi attorno per trovare una grande quantità di enti e associazioni caritative che assistono gli indigenti, questi ultimi consumatori senza potere di acquisto. Ecco il rovescio della medaglia: ciò che per tanti è abbondanza, e quindi spreco, per qualcun altro è scarsità e dunque fame.
Allora, assieme a un gruppo di studenti, cercai di scoprire il meccanismo che regolava questo sperpero. Girando tra gli scaffali ci accorgemmo che gli yogurt vicini alla scadenza – tanto per fare un esempio – venivano posti ad altezza occhio, ma tutti i consumatori, noi compresi, andavamo a prendere quello posto nella seconda fila o ancora più dietro. Ignorando, tutti quanti, che quello yogurt invenduto della prima fila, oltre al costo per produrlo e trasportarlo fin lì, sarebbe costato ancora, per essere nuovamente trasportato e poi smaltito, senza contare l'ulteriore inquinamento prodotto da queste operazioni aggiuntive. A quel punto abbiamo pensato di trovare un sistema per far sì che quello yogurt, invece di finire in discarica, potesse arrivare sulla tavola di qualcuno.
4. Il "Last Minute Market": dono, relazione, reciprocità
Dopo un anno di studio, abbiamo predisposto un modello chiamato "Last Minute Market", il mercato dell'ultimo minuto, iniziando a sperimentarlo nel 2000, quando abbiamo capito che le quantità di cibo sprecate sono un'enormità. Perché "Last Minute Market"? Last significa ultimo, ma con un doppio senso: l'ultimo minuto perché dobbiamo fare in fretta, i prodotti scadono, sono danneggiati, li dobbiamo consumare presto, ma anche ultimo perché i beneficiari sono gli "ultimi" della società. Così si innesca un meccanismo virtuoso, conveniente per tutti, e che per questo funziona: da una parte l'impresa for profit trae vantaggio a donare il prodotto perché evita il costo di trasporto e smaltimento, dall'altra il mondo non-profit riceve gratuitamente un prodotto che dà un doppio vantaggio: economico, dato che si risparmia, e nutrizionale: si mangia di più e meglio. Tutto si basa sul dono – che in fondo è uno scambio di anime, come diceva Marcel Mauss[8] – fra chi ha troppo e chi ha troppo poco. E soprattutto, chi ha meno può risparmiare denaro in cibo e acquistare altri beni e servizi[9].
È il caso, fra gli altri, di una "mamma", Angela, che gestisce una piccola comunità di bambini e ragazzi tra i sette e i diciassette anni, in affido dal Tribunale dei Minori di Bologna. In un anno di "Last Minute Market" è riuscita a destinare i soldi risparmiati in cibo per costruire un campo da basket dove i ragazzi possono giocare. Alcuni bambini hanno potuto avere gli apparecchi per i denti, altri andare in piscina. Ecco il cuore del "Last Minute Market": fare sì che tutti ci guadagnino qualcosa, poco magari, ma pur sempre qualcosa. Un "modello" che diventa poi il modo per collegare due mondi apparentemente distanti e per riequilibrare un mercato, quello alimentare, palesemente inefficiente, dove chi ha troppo spreca, e chi ha poco soffre la fame. Questo modello è duttile, si può declinare in tanti modi, non soltanto in relazione al cibo, che peraltro rimane il problema principale perché l'alimentazione è un bisogno primario[10].
Un principio, quello del mercato "Last Minute", che si può applicare anche ad altri beni, teoricamente a tutti. Ad esempio anche i libri non si vendono e vanno al macero il che rappresenta uno spreco doppio, perché viene distrutto un bene materiale ma anche un lavoro intellettuale. È nato così il "Last Minute Book": in due anni sono stati recuperati cinquantamila libri, talmente tanti non solo da rifornire gli scaffali di associazioni ed enti caritativi che già ricevono il cibo, ma anche da poter essere inviati nel mondo (ad esempio nei paesi dell'America Latina legati alla cultura italiana). Come dire: abbiamo bisogno di cibo per lo stomaco, ma anche di cibo per la mente.
Con il tempo si sono aggiunti altri mercati dell'ultimo minuto. Così sono nati in sequenza: "Last Minute Harvest" (raccolti), "Last Minute Pharmacy" (farmaci), "Last Minute Seeds" (semi) e "Last Minute Waste" (prodotti non alimentari). Il primo "mercato" è finalizzato a non sprecare la frutta e la verdura che si lascia pendere dagli alberi o marcire nei campi a causa dei costi di produzione superiori ai prezzi di vendita. Il secondo ha il fine di recuperare i prodotti farmaceutici e parafarmaceutici che farmacie e grossisti non riescono a vendere e devono poi smaltire a costi assai elevati. Il terzo è rivolto a salvare sementi il cui unico difetto è avere un grado di germinabilità leggermente inferiore rispetto agli standard europei, il quarto a recuperare tutto il resto[11].
Questi "mercati dell'ultimo minuto" e altri ancora che potranno essere studiati e attivati, pongono in essere un'alternativa al mercato, quello vero, e ai suoi fallimenti. Del resto, lo spreco, ciò che si getta via perché invenduto, rappresenta un fallimento del mercato. Allora, mutuando quanto diceva Emanuele Severino a proposito del capitalismo, il nemico più implacabile e più pericoloso del mercato è il mercato stesso. Dunque mettendo in relazione, anche fisica, un'offerta che però non viene offerta a una domanda che però non viene o non può essere esercitata, il prezzo (la guida del mercato) si perde e viene necessariamente applicata una scala di valori diversi, che pone al centro del "circuito" il legame, la relazione, il dono, la reciprocità tra le persone coinvolte a prescindere dal bene che viene scambiato.