Premessa necessaria
Sono un "uomo di marketing". Nessuna meraviglia, quindi, che io analizzi, seppur sinteticamente e solo parzialmente, la vicenda di Enrico Mattei "in chiave di marketing". Piuttosto, mi corre l'obbligo di avvertire che quello che io chiamo "marketing" – e che trenta anni dopo di me anche Philip Kotler oggi definisce così – è la "gestione delle transazioni", di ogni e qualsiasi scambio, sotto ogni cielo, in ogni momento, quale ne sia l'oggetto e la ragione. Con questo in più: che la disciplina non si limita ai rapporti interpersonali, ma si estende ai rapporti intrapersonali. I quali tutti, senza eccezioni, sono rapporti di scambio, realizzano una modifica del "modo di essere di ciascuno". E quindi sono oggetto di una attività di gestione.
E con questo ancora: quando si parla, a proposito ed a sproposito, di marketing, la gran parte degli interlocutori si riferisce- erroneamente- ai soli scambi che avvengono nel "mercato", inteso come insieme e luogo degli scambi propriamente economici; alle imprese e, tra queste, a quelle "private" ritenendosi, almeno in Italia, quasi impossibile riferire la disciplina alle imprese ed alle altre strutture pubbliche; al profitto e non all'utilità sociale.
Di tutto questo, Mattei quasi certamente non aveva sentito parlare. Non come uomo, non come imprenditore, non come gestore di imprese pubbliche. La disciplina veleggiava nel mar dei misteri, avvolta nelle nebbie fitte del "sentito dire" e coloro che, quasi di nascosto, ne accennavano, lo facevano come omaggio dovuto a quegli americani che, avendo vinto la guerra e godendo di una economia molto più florida della nostra avevano per questo assolutamente ragione ed andavano dunque imitati. Tanto che si racconta che un noto imprenditore italiano investisse in un viaggio del figlio negli Stati Uniti al fine di "acquistare un po' di marketing", con la speranza che fosse di qualche utilità alle velluterie di famiglia. Neppure qualcosa filtrava dalle Università, nelle quali l'insegnamento era evidentemente estraneo. Che era meglio di adesso, con le cattedre occupate da più di qualcuno che non ha mai visto un'impresa e con "uomini di marketing" soltanto organizzatori di festival pubblicitari e di sagre delle ricerche.
In compenso, disponevamo, un tempo, di "imprenditori illuminati", capaci non solo di intuizioni vincenti, ma anche e soprattutto di tradurre in pratica i progetti senza per questo aver mai neppure lontanamente sentito parlare di marketing. C'erano gli Olivetti, allora, e i Crespi, e i Pirelli, e i Visconti di Modrone, i Marzotto, i Florio…: nella peggiore delle ipotesi, gente capace di "copiare" e di portare in Italia "migliorando", creando nuovi prodotti o, almeno, nuovi vantaggi per i prodotti esistenti. Soprattutto capaci di gestire ogni e qualsiasi scambio nella sua totalità e dunque anche di fondare intere città e di dar vita ad altissimi momenti di cultura.
Oggi dovremmo avere uomini di marketing, e non li abbiamo; non abbiamo imprenditori e neppure gestori degli scambi d'impresa degni di questo nome, professionalmente preparati ad operare in quel mondo che qualcuno si ostina a considerare "globalizzato", e dunque con una mentalità non propriamente identica a quella del bottegaio, con tutto il rispetto per quest'ultimo. E neppure disponiamo più di economisti e di politici di livello accettabile. Anzi: per ragioni che tutti conosciamo, il livello culturale degli italiani è precipitato in verticale, posizionandoci agli ultimi posti della classifica dei Paesi così detti avanzati.
Abbiamo bisogno di un miracolo, forse di più d'uno.
E mi pare si possa sostenere che siamo sulla buona strada: chi i miracoli promette e afferma di saperli fare lo abbiamo. E in attesa che si decida a farne almeno uno, non ci resta che sperare e sorridere. E continuare a credere che i miracoli avvengano. Esattamente come lo credettero tutti gli italiani quel 13 giugno dell'anno del signore 1949 a Cortemaggiore. Un miracolo laico stupefacente, se non proprio garanzia, almeno promessa evidente e concreta di un futuro luminoso quanto profumato e – perché no? – gioioso. E l'Italia apparve improvvisamente ricca e anche per questo avviata sulla via della potenza. Soprattutto, divenne tale – ricca e potente – con effetto immediato per i giornalisti presenti e per quelli rimasti alla scrivania ad analizzare, a commentare, a profetare ed a "montare" la notizia, nel contenuto così come nella forma. Ed ecco, dunque, un mare di petrolio sul quale galleggia la pianura padana, e titoli a tutta pagina, e trionfanti peana di vittoria e, soprattutto, migliaia di (formalmente credibili) bugie, di argomentazioni di vendita dirette a fare accettare agli italiani – e quindi a convincerli – che il genio italico, unito alle capacità di un uomo eccezionale ed a quelle di politici illuminati tanto da aver scelto quell'uomo, avrebbero fatto dell'Italia uno dei Paesi guida della economia mondiale.
Enrico Mattei: il primo uomo di marketing pubblico
Mattei sapeva pensare. Uno dei suoi tratti distintivi è stata la consapevolezza che una qualsiasi impresa è, in un qualsiasi mercato, un soggetto portatore di bisogni, di interessi e di motivazioni proprie e, in questo, assolutamente identico ad una qualsiasi persona fisica. Con la sola differenza di essere una "costruzione" che utilizza e organizza cose e persone in modo "artificiale", finalizzato al raggiungimento di obbiettivi dell'imprenditore attraverso l'uso dell'azienda. Consapevolezza comune agli imprenditori privati in genere, almeno in apparenza. Molto meno a chi, invece, ha il compito di guidare le imprese e le altre strutture pubbliche. E questo per una ragione importante: il privato che fa l'imprenditore è portato a considerare l'impresa cosa di sua proprietà e con il compito precipuo di creare ricchezza per lui imprenditore. Nelle imprese "pubbliche", dal momento che non esiste un imprenditore fisicamente identificabile, la struttura sembra non essere obbligata a creare ricchezza o, meglio, sembra assumere il ruolo di una macchina destinata a far divenire ricchi e potenti i politici ed i manager loro clientes. Spesso a puro titolo personale. E dal momento che "paga lo Stato", in macchine che consentono di dirottare verso lidi più o meno identificati i fondi di cui dispongono.
Il che spiega molte cose.
Mattei pensava anche che in nulla le imprese pubbliche si differenziassero da quelle private se non per aspetti in fondo puramente formali, per quanto con ogni probabilità molto importanti. E in entrambi i casi, sia per le imprese che aveva creato in proprio che per quelle delle quali per ragioni politiche si è trovato a capo, Enrico Mattei è sempre stato il "portavoce" di bisogni, di esigenze, di motivazioni propri e in qualche modo esclusivi alle imprese stesse. E dunque anche, se del caso, di interessi in conflitto con le persone fisiche che le componevano, con quelli di altri soggetti singoli o collettivi, e con qualsiasi altra organizzazione pubblica o privata, riconosciuta e non, in qualche modo attiva sul mercato di riferimento.
Ma c'è di più: Mattei sembra rispondere anche alle esigenze, più moderne e attuali, della trasformazione del gestore di prodotto (il PM) in gestore dello scambio. Che non è la stessa cosa, dal momento che il prodotto (o la linea di prodotti) non è che l'oggetto di un fenomeno ben più ampio e complesso, lo scambio, appunto. Tanto che credo sia possibile ritenere come proprio per questo la visione imprenditoriale e gestionale di Mattei sia stata assolutamente ampia e per molti aspetti innovativa. Andava ben al di là del produrre benzina e provvedere a venderla, magari persino guadagnandoci. Se non fosse stato così, forse l'uomo si sarebbe limitato ad obbedire al desiderio (politico, e dunque inaffidabile) di chiudere quell'AGIP divenuta, secondo il comune sentire, una sorta di ospizio per anziane creature incapaci e oziose.
Mattei è stato senza dubbio un avveduto, accorto, sensibilissimo e preparatissimo "gestore di scambi". E poiché, almeno a partire da un certo momento della sua vita, si è trattato in prevalenza di scambi che riguardavano una impresa di Stato (meglio: le imprese dello Stato italiano), è stato il primo "gestore di scambi pubblici" in assoluto. Forse con un limite: era così consapevole della "personalità" dell'impresa e dei suoi "interessi" da entrare spesso in conflitto proprio con quello Stato che dell'impresa era proprietario.
Mattei non era un "economista", almeno non nel senso ed ai livelli di cui allora come oggi gli economisti italiani (e, ancora una volta, non solo) si auto-gratificano. Un ragioniere, questo sì, e dunque un esperto di contabilità. Si tenga conto che quando Mattei si diplomava in ragioneria, il ragiunatt era un personaggio molto vicino ai vertici della cultura. Sapeva non solo far di conto, compilare e leggere un bilancio, ma aveva studiato l'economia con maestri e su testi che oggi i nostri studenti universitari sarebbero a male pena in grado di comprendere, sempre che li abbiano compresi i maestri. E sapeva fare l'imprenditore. Ma non era un economista. Eppure, aveva capito, e alla perfezione, uno dei principi della economia liberista dei quali o non si accenna neppure o, se lo si fa, si parla in modo contraddittorio e improprio.
Questo. In linea puramente teorica e di principio, l'essenza del libero mercato è una concorrenza la cui libera espressione non conosce limiti: il mio competitore è un "nemico da abbattere", ed io devo essere libero di ricorrere a tutte le armi possibili e immaginabili per vincere la mia guerra. E non a caso la terminologia americana (e per imitazione quella italiana) di marketing prende spunto dal linguaggio militaresco. Se l'economia è una scienza che poco o nulla ha a che fare con il diritto e l'etica, allora tutto ciò che i sistemi giuridici prevedono e stabiliscono e tutto quanto la morale imporrebbe sono intralci all'azione economica. Da qui deriva, tra l'altro, che il monopolio è il portato naturale della competizione tra imprese: il fine ultimo di una guerra guerreggiata è esprimere "un" vincitore, che in una economia di mercato è il monopolista, appunto. Uno dei compiti del quale consiste nell'impedire il sorgere di nuovi competitori. E vincere una guerra significa anche ricavare benefici che non consistono soltanto nel rimborso dei costi e nella riparazione dei danni, ma soprattutto in profitti ulteriori.
E Mattei questo lo sapeva perfettamente e, con molta probabilità, da buon ragioniere di vecchia scuola, conosceva anche il punto di Cournot (quanti dei nostri studenti ne hanno sentito parlare?) ed aveva sentore dei rapporti esistenti tra "prezzo psicologico" e "prezzo di mercato".
È chiaro che, se guidi una impresa di Stato e questo fai in onestà e nell'interesse del "pubblico", il tuo obiettivo è di trarre da questa impresa il massimo dei vantaggi possibili, nell'interesse della comunità di riferimento, del quale l'interesse dell'impresa pubblica è tramite e per molti versi misura.
Se sei monopolista, vantaggi puoi averne, e tanti. E non è una legge economica quella secondo la quale monopolista devi diventarci solo perché hai vinto la concorrenza: puoi, se ne hai gli strumenti, esser monopolista "ope legis" oppure "per diritto della natura pubblica" del soggetto. Che significa: individua e sfrutta le opportunità.
Mi sembra di poter affermare che l'insistenza di Enrico Mattei per la creazione di un vero e granitico monopolio, per legge, delle imprese da lui guidate sia dovuto proprio a quanto fin qui argomentato, che è solo un tentativo di comprendere e spiegare un ragionamento almeno apparentemente elementare: il popolo è sovrano; l'Eni è dello Stato, e dunque del popolo; l'Eni deve soddisfare gli interessi della nazione e creare ricchezza per il popolo italiano; uno Stato che, pur potendolo perché è Stato e perché ne ha il modo, non mette al riparo le proprie imprese dalle azioni di guerra della concorrenza viene meno a tutti i suoi compiti.
In pratica, il contrario di quanto sembra accadere oggi: spogliare lo Stato di quasi tutte le sue prerogative, affidando ai "privati" ed al "libero mercato" compiti per molti versi irrinunciabili e, nel contempo, rivendicando un diritto-dovere di non intervento nella economia anche per materie che sono, invece, tra le ragioni che giustificano l'esistenza stessa di uno Stato. Significa – questa è la mia opinione – che lo Stato, in quanto persona, ha certamente la possibilità di entrare in un mercato libero con proprie imprese. E ne ha anche il diritto, quando non addirittura il dovere. L'importante è che ciò faccia "nell'interesse dei suoi cittadini". E, naturalmente, che lo sappia fare. E sempre probabilmente, il "saperlo fare" può manifestarsi nel creare e guidare imprese le quali, in regime di libera concorrenza, "concorrano" appunto con i privati e dunque ne condizionino l'innata rapacità.
Tra i limiti di Mattei, forse, uno è consistito proprio nel chiedere insistentemente la costituzione di un monopolio, invece di proporre o sopportare una concorrenza condizionata dalla guida "illuminata" delle imprese di Stato.
E ci sono anche buone probabilità che l'altro limite importante dell'uomo sia stata una forma di incapacità all'autolimitazione. Mattei sembra non aver mai considerato la possibilità di fermarsi, di non superare almeno alcuni dei confini che comunque il mercato gli opponeva, in Italia e all'estero. Primo tra tutti, quello costituito dall'essere l'Italia uno Stato e dal doversi confrontare come tale con altri soggetti, ben al di là del – nonostante tutto – piccolo fenomeno industriale e commerciale del quale egli si occupava. Questo, forse, anche perché Mattei si occupava in modo vario e sfaccettato di politica, all'interno della DC e del Parlamento e con buona probabilità, come gran parte dei politici, riteneva di essere in possesso della ricetta vincente. Opinione, peraltro, supportata dai successi economici. Ed era, anche, abituato al comando, all'esercizio di un potere radicato nella autorità del capo partigiano e dunque pressoché assoluto e comunque con scarse opposizioni, molto diverso dal potere esercitabile in un regime di democrazia, in un partito politico, in una impresa che era anche espressione della volontà dei partiti di sistemare propri referenti nelle posizioni che contano.
La capacità innata di gestire ogni e qualsiasi scambio avente per oggetto la propria persona, il proprio modo di essere, i propri vantaggi ed i propri limiti sembra essere un'altra caratteristica dell'uomo. Mi pare di poter notare come ogni sua attività, nell'esser fascista e nel diventare consapevole nemico di quella dittatura; nell'essere operaio e nel divenire imprenditore di successo in proprio; nell'accettare incarichi di Stato dai politici e nel porsi come antagonista degli stessi politici e, in un certo senso, anche dello Stato se necessario; ogni sua attività, dicevo, sia stata diretta a "far accettare" e dunque a "vendere" se stesso. E farlo con argomentazioni di vendita e mezzi di convincimento assolutamente pragmatici anche ricompensando alla grande i favori, le facilitazioni, gli aiuti ricevuti, senza dimenticare di pagare neppure il più piccolo tra i debiti contratti. Ponendo anche la massima cura nel cercare di far sì che neppure coloro che in politica o sul mercato non gli erano proprio amici, avessero da lamentarsi più che tanto. Le sue vicende politiche e i legami con la Democrazia cristiana e con la corrente di Base mi pare siano assolutamente paradigmatici, in materia.
La consapevolezza che nessuno fa nulla per nulla e che chiedere significa esser pronti a restituire è stato uno dei principi primi della sua azione.
Un grande "venditore di se stesso", un grande "comunicatore" ed un grande "animatore".
Mattei "pianificatore"? Forse, d'istinto. Intanto, sembra sapesse esattamente cosa volere. Che in una corretta pianificazione di marketing significa "avere chiari gli obbiettivi da raggiungere". Con molta probabilità l'individuazione di questi obbiettivi è avvenuta e maturata in maniera inconscia, almeno nel senso che non pare Mattei abbia svolto – in proprio o per interposte persone – le ricerche necessarie, in genere, per individuare gli obiettivi perseguibili, e non solo: anche necessarie per elaborare piani alternativi e valutarne la confidenza.
Enrico Mattei aveva vissuto intensamente il periodo della Resistenza e, anche grazie agli incontri fatti, conosceva gli aspetti pratici, concreti, dello "scenario attuale" e aveva le doti necessarie per "leggere" una buona parte dello scenario futuro. Il quale scenario almeno in un elemento sembrava chiarissimo: sarebbe stato improntato dall'uso e dalla valorizzazione dei rapporti personali, meglio se nati al momento della Resistenza e rafforzati da una visione e militanza politica comune quanto basta a creare una base d'intesa.
E dunque, per "annusare" obiettivi e mezzi da utilizzare.
Il tutto nell'ambito di una economia che – e l'America ne era un esempio più che luminoso – aveva fatto della competizione e del raggiungimento della ricchezza individuale i propri reali punti di forza. Dunque, principio primo: essere ricchi e disporre di ampio potere sono le condizioni essenziali per essere riconosciuto come "qualcuno" e, per questo, candidarsi in automatico e divenire ancora più ricco ed ancora più potente.
Fino, naturalmente, ai limiti di un conflitto di interesse "ultimativo": la tua ulteriore ricchezza e la tua ulteriore potenza potrebbero rivelarsi un pericolo per me. E dunque, cercherò di impedire in tutto i modi che questo avvenga.
E, principio secondo, la popolarità ed il consenso "delle masse" di cui io e la mia azione godiamo, possono costituire una remora per chi vuole impedirmi di raggiungere i miei obiettivi, almeno nel senso che "andare contro il sentimento popolare" non è mai stata l'azione più semplice da compiere. Essere un ricco isolato ed essere, invece, un ricco accettato e divenuto modello di vita non sono la stessa cosa.
E allora, ecco la ricerca del consenso attraverso le "argomentazioni di vendita" di se stesso e della propria azione. Prima tra tutte, il porsi come interessato innanzitutto al benessere della nazione, alla difesa dell'Italia dai monopoli mondiali, e dunque anche come strumento per fare di ogni cittadino un uomo "più ricco".
Che, detto da uno che nasce certamente non ricco e che è divenuto tale in nome di un riscatto di sé, della sua gente, della Nazione tutta, peraltro difesa nel momento del bisogno, è non solo credibile, ma appagante e dunque da appoggiarsi sempre e con ogni mezzo. Con un vantaggio ulteriore: il cavallo dell'interesse della nazione, del bene comune, è mezzo di trasporto verso il successo dei politici, di ciascun politico. E così è da sempre e sotto ogni cielo.
Occorre disporre di mezzi propri per comunicare, perché quel che si è fatto, si fa e si farà sia adeguatamente conosciuto. Un risultato, questo, che si può raggiungere anche disponendo di un quotidiano, di un giornale che ci esprima e che narri di noi. Come fanno tutti gli imprenditori arrivati. Una impresa di Stato non può rimanere indietro. "Il Giorno" nasce da questa intuizione sulla comunicazione globale, con questo in più: che il quotidiano poteva essere – allora come oggi – fonte di cultura, mezzo di formazione. E Mattei era consapevole della importanza della cultura e della formazione. Come era consapevole del valore della "diversità costruttiva", della "innovazione" del prodotto. E "Il Giorno" nasce diverso da tutti gli altri quotidiani italiani di allora. E gli arride un successo immediato ed invidiabile. "I giovani intellettuali politicamente impegnati che leggono il Giorno" (come si diceva allora) si avviano a diventare una nuova importante élite. Un successo però presto sprecato, poiché "Il Giorno" si rivela ben presto un flop finanziario. E si potrebbero fare diverse considerazioni, sul fenomeno, a mio parere dovuto innanzitutto all'appetito di giornalisti strapagati e alla endemica incapacità dei direttori dei giornali di divenire "gestori" degli stessi. O meglio: al rifiuto, poiché la posizione di colui che appare come un monarca, ha i poteri di un monarca, ma non le responsabilità finanziarie di un gestore di prodotto è molto ma molto più comoda di quella di un imprenditore che deve far quadrare i conti. Magari soltanto per non perdere. Ma quando a pagare è qualcun altro… Poi, forse un altro fattore: i giornalisti italiani hanno sempre posseduto uno spiccato senso di appartenenza non al giornale di turno, ma alla categoria. Pronti a scannarsi reciprocamente, appaiono granitici quando si tratta di crearsi nuovi e più consistenti privilegi. E i giornali sono il mezzo per ottenere privilegi e potere e mantenerli, se non accrescerli, in nome del "diritto-dovere di informare liberamente". Anche "Il Giorno" divenne troppo presto fabbrica e al tempo stesso rifugio di giornalisti costruiti su base quasi esclusivamente partitica e, sulla interpretazione non sempre corretta degli orientamenti di Mattei, sindacale. Uno di loro, un giorno a Milano, ebbe a dichiarare "mi sono assunto al Giorno", vantando così i risultati del proprio opportunismo sindacale. Un'occasione sprecata, "Il Giorno". E forse, Mattei nutriva qualche dubbio fin dal momento della sua fondazione: sembra che per tre anni negasse con forza di aver qualcosa a che fare con quel giornale. E non è detto che la sola ragione sia stata l'opportunistica difesa della privacy.
I politici sembrano salire in massa sul carro della comunicazione costruito da Mattei. La Politica e l'economia dell'AGIP non possono non andare di pari passo. Se il popolo crede che il petrolio è a Cortemaggiore; se è convinto che grazie all'AGIP ed a Mattei è stato possibile non dipendere se non in parte molto più piccola di prima dagli stranieri, al politico non resta che convincere gli elettori che anch'egli c'era e c'è. E dunque, ha almeno il merito di non aver ostacolato Mattei nel riscatto d'Italia. Una buona ragione perché il popolo si fidi dei politici che aiutano l'ingegnere. Il consenso e l'appoggio dei politici e della politica viene perseguito con ogni mezzo, e da buon uomo del popolo Mattei sa che ogni uomo, politico o giornalista che sia, ha un suo livello di corruttibilità. Con qualche eccezione, si dice, ma che è tutta da dimostrare. Nella maggior parte dei casi, comunque, il danaro è un mezzo potente di convincimento e Mattei è disposto a pagare e per questo predispone i fondi necessari e le azioni opportune per disporne.
Mattei ha individuato le opportunità ed utilizzato tutte le leve possibili offerte da un sistema economico e politico che, allora, sembrava trionfare. L'economia degli Stati cresceva a ritmi addirittura in alcuni casi imponenti e quella italiana sembrava ritenere proprio dovere non rimanere indietro. Si trattava di un sistema economico che giustificava e ammirava chiunque perseguisse e raggiungesse la ricchezza, anche solo a titolo personale, e questo indipendentemente dall'essersi attivato nel pieno rispetto delle leggi e dell'etica. Solo obiettivo essendo l'aumento della ricchezza, l'averlo raggiunto faceva dei risultati la più credibile delle scriminanti. D'altra parte, ripeto, tutti gli economisti – ed era questo, forse, il solo punto di accordo tra gli innumerevoli maestri lanciati nella lettura dei "fatti relativi alla conquista, all'incremento ed al mantenimento della ricchezza" nonché alla "divinazione del futuro" – insegnavano che l'economia è una scienza che prescinde dall'etica, dalla morale e che, quando proprio non può farne a meno, ha limiti solo nella legislazione vigente.
E non mi pare che oggi sia diverso.
Ma lo era per Mattei, diverso. Perché egli era dotato di "Valori" veri, nei quali credeva e in forza dei quali aveva elaborato una gerarchia alla quale si è sempre attenuto, nei limiti del possibile e spesso anche oltre.
Il fatto è che coloro che credono fermamente nei Valori della solidarietà, della onestà, dello Stato, di Dio e altri di questo livello, traendone le conseguenze operative non possono non fare tutto quanto è in loro potere perché i valori stessi non siano traditi, non solo: credono di dover fare – e lo fanno – tutto quanto è possibile perché questi valori si realizzino.
Ecco allora che Mattei "entra e lavora" in Politica, vista come condizione e strumento per poter operare nell'interesse della comunità. E per questo non esita in qualche caso anche a sacrificare il proprio interesse personale, così come non esita a rischiare quando, non facendolo, la sola certezza sarebbe di lasciare a casa un certo numero di lavoratori e nella miseria un altrettanto certo numero di famiglie.
Non è la stessa posizione che, oggi, sembra dividere gli imprenditori italiani tra di loro e dalla Politica. Da un lato, Luca di Montezemolo, che esorta i giovani imprenditori a "scendere" in politica (Santa Margherita Ligure, 12 giugno 2010); dall'altra, Emma Marcegaglia, che ritiene che gli industriali debbano lasciar fare alla Politica il proprio mestiere, facendo, invece, esclusivamente ciò che agli imprenditori compete: creare profitto per sé e per le imprese (Convegno di Santa Margherita, cit.). E non lo è, a mio avviso, perché i Valori cui si ispirava Mattei sono scomparsi: qui si tratta solo di sapere se è più proficuo, per gli imprenditori, "scendere" in Politica oppure non farlo. Qui il vero e solo valore sembra essere il profitto, mentre per Mattei questo non è che uno dei mezzi che possono concorrere al benessere "della gente". Anzi: che hanno il dovere di essere strumenti di benessere per tutti.
Per Mattei, la Politica è un Valore assolutamente prioritario rispetto all'economia, ed ha il compito preciso e ineluttabile di "soddisfare i bisogni pubblici", anche fornendo a chi di economia si occupa in concreto le migliori condizioni possibili per raggiungere gli scopi "comuni", "sociali", "generali". E poiché legiferare è compito precipuo della Politica, non è possibile raggiungere risultati apprezzabili in assenza di leggi "buone" ed "efficaci".
Mattei sapeva che la legge è un vincolo, un limite sempre, forse inaccettabile quando non nasce per fare il bene comune, bensì soltanto per garantire il funzionario e la struttura dai rischi sempre possibili. Ogni legge è un prodotto in sé, ed è un prodotto destinato allo scambio, ad essere "accettato", prima che imposto. Deve dunque essere "vendibile", semplificare la soddisfazione dei bisogni e l'uso delle risorse. Deve essere "fabbricata" nell'interesse della comunità. Quando ciò non avviene, ed anche quando i "produttori della legge" sono impreparati, incolti, incerti, faziosi, la norma è solo un intralcio, quasi sempre dannosissimo. Allora, secondo una pratica consolidata e riconosciuta dal sistema economico, all'homo oeconomicus ed al gestore d'impresa non resta che individuare i mezzi migliori per aggirarla, la legge. Che vuol dire, violarla senza incorrere nelle sanzioni previste, quando esistano. Anche in modo apparentemente banale. E Mattei pare facesse tracciare nottetempo le sedi dei tubi che avrebbero trasportato il gas senza le necessarie autorizzazioni dei Comuni e facesse posizionare le condotte e ricoprire il tutto prima che il giorno sorgesse. Un grande risparmio di tempo. Non so se anche di danaro. Certo, però, è che il sistema (quando degeneri a tutela di interessi personali) è lo stesso che consente ancora oggi la costruzione di case e capannoni abusivi: coperti prima che il sole sorga, non possono essere abbattuti. Sembra. E comunque, uno dei sacri principi fondamentali della cultura italiana suona "cosa fatta, capo ha": al massimo, potrà essere oggetto di condono…
Sotto l'aspetto della cultura dei popoli, questo significa che il Comune, la Provincia, la Regione, lo Stato, che si identificano con ciascuno di noi quando si tratta di trarne benefici e vantaggi, divengono in un istante "altro da me" quando a torto o a ragione intralciano il raggiungimento dei miei interessi. E in un Paese che, tra le altre cose, si professa profondamente cristiano, composto da qualche milione di persone per le quali i figli sono "pezzi 'e core" e che si affida alla Madonna soprattutto quando si tratta di giocare al lotto ed alle lotterie; in un Paese siffatto, l'aggirare le leggi non è soltanto una professione come tale affidata ad avvocati e notai, ma diviene un vero e proprio atto di fede, magari colorato da qualche sentimento di bontà e di solidarietà umana. Sono esattamente le "argomentazioni di vendita" a popolo ed a politici del "prodotto acquisto della Pignone". Unite ad un razionale (cito a memoria) è vero che per statuto l'ENI deve occuparsi solo di idrocarburi. Ma questi hanno bisogno di tubi, di condotte, di serbatoi, di bombole e di quanto altro di questo tipo. Fabbricar tubi in proprio è meno costoso e più sicuro dell'acquistarli da altri. E poi, così facendo salviamo posti di lavoro…
È anche l'inizio della filosofia secondo la quale lo Stato ha, tra i compiti che gli sono propri, quello di soccorrere le imprese in crisi. Cosa che Mattei fa con impegno, in un certo senso aggirando ancora altre norme ed altri concetti che apparivano acquisiti. Come quello che non è "impresa" la persona fisica e non è "salvataggio d'impresa" affidare incarichi ben retribuiti e in qualche caso anche prestigiosi a strani personaggi i quali, per puro clientelismo generalmente politico, diventano amministratori delle società da salvare, sono lautamente retribuiti per l'incarico affidato e riescono in genere a non salvare nessuna impresa. Per incapacità. Che, peraltro, risponde ad una cultura ancora una volta tutta italiana: non è il professionista che disegna la funzione, ma è questa che fa il professionista. Si diventa "in gamba" perché ti hanno nominato direttore generale, e non direttore generale perché sei "in gamba".
Una questione di "cultura" e di "formazione"? Secondo me, certamente è così. Ma la mia opinione non è certo importante come quella di Enrico Mattei, che la pensava esattamente nello stesso modo. E che ha sempre sostenuto che la cultura di livello alto è la sola vera risorsa di un Paese e, di conseguenza, il compito primo ed ineluttabile della Politica. Chissà cosa penserebbe, oggi, della sottovalutazione della formazione, della scuola, della cultura e della gestione interessatamente dilettantistica di quanto la riguarda?
La "gente dell'ENI" aveva anche in questo un vantaggio ed un richiamo: lo sforzo di dotarsi di una cultura comune, elevata e riconoscibile. E dunque anche appagante. Ed era tutto merito di Mattei. Forse, un problema era fin da allora costituito dalle dimensioni della struttura. Mattei sceglieva i collaboratori tra uomini che garantivano una "cultura" per qualche verso elevata, e questo faceva sempre quando possibile direttamente. Poi, forse inevitabilmente, lungo i rami numerosissimi e contorti, i principi di base andavano man mano affievolendosi fino a disperdersi, affidati sempre di più a personaggi per i quali tendeva a prevalere l'interesse personale (di guadagno, di potere, di entrambi) e per i quali, dunque, i collaboratori divenivano sempre più marcatamente strumenti per la gestione di interessi non più generali e neppure più della società di riferimento. E dunque cambiavano i criteri di selezione e di assunzione.
E se le cose stanno così, è forse immaginabile che Mattei ed i Valori nei quali credeva si siano trovati in rotta di collisione con interessi di minore valenza, sì, ma eccessivamente numerosi per consentirne il controllo e la modifica. E magari anche poco o nulla avvertibili dal vertice, proprio perché "minimi". Ma di difficile soddisfazione, perché, appunto, in contrasto "ideologico" con il Nume tutelare dalla economia di Stato. Il quale dovette apparire sempre più isolato ed indifeso, anche da quella Politica che, per altro verso, era il campo da coltivare da parte degli ambiziosi aspiranti boiardi di Stato o, semplicemente, di carrieristi a oltranza o, ancor più semplicemente, di gente desiderosa di appropriarsi di una parte delle risorse, appetibili sempre e, tra l'altro, non trascurabili in quantità, soprattutto se valutate dal singolo individuo.
E poi, l'essere in posizione di un qualche rilievo in una struttura pubblica diveniva sempre di più una sinecura, apportatrice di qualche onore, di una fetta di potere e di più di un quattrino. E ancora: Mattei aveva insegnato che nulla sembrava poterlo fermare, neppure le frequentazioni pericolose. Solo che le sue frequentazioni pare fossero sempre filtrate alla luce di una onestà profonda, e dunque con molta probabilità si arrestavano di fronte a situazioni non chiare, fosse anche soltanto un centimetro prima dell'abisso. Certamente un esempio, ma perché fosse costruttivamente seguito doveva essere letto da uomini della stessa levatura, della stessa intelligenza, della identica onestà personale. E il disporre di queste caratteristiche non era certo nella generalità e, inoltre, andava sempre di più rarefacendosi nei corridoi della azienda di Stato. Dunque, l'onestà di Mattei tendeva a diventare un concreto ostacolo alle ambizioni di boiardi o aspiranti tali e di politici. E gli ostacoli, aveva insegnato lo stesso Mattei, vanno aggirati o rimossi.
E allora?