Con riferimento all’attuale contesto pare quanto mai opportuno tornare a ragionare attorno al principio di tolleranza. Discuterne certamente a partire dallo sfondo etico-culturale e socio-politico odierno, senza però dimenticare alcune questioni fondative riguardanti, da un lato, il legittimo diritto di tutti di sostenere le proprie opinioni in un regime di piena libertà e autonomia di pensiero e, dall’altro, un necessario riferimento alla crisi della categoria di verità che attanaglia anche la riflessione sulla natura e le regole della sfera pubblica. Su questa strada mi propongo di rileggere il dibattito tra quelle posizione laiche che, attraverso l’argomento dell’ingerenza, si segnalano come molto dure sul piano del riconoscimento di validità della presenza pubblica del pensiero credente e delle posizioni culturali religiosamente ispirate e chi invece avanza questo diritto di discussione e di intervento cultural-politico attraverso il richiamo al piano (-strumento) del dialogo argomentativo.
Queste mi sembrano alcune ineludibili, seppur limitate, coordinate per rileggere la querelle nata attorno all’apertura dell’anno accademico alla Sapienza e la connessa polemica circa l’opportunità dell’invito fatto a Benedetto XVI a tenere la prolusione Magistrale.
Della laicità e delle ragioni che ancor oggi la animano
Negli ultimi anni si è intensificato il dibattito sulla laicità delle istituzioni e sulla necessaria salvaguardia del pluralismo democratico. Testimonianza evidente ne è la sterminata letteratura attorno a temi come la globalizzazione culturale, la gestione del multiculturalismo, il nuovo emergere del pensiero religioso di fronte alle questioni eticamente sensibili, il futuro delle nostre società e i relativi modelli di convivenza. In connessione alla questione della laicità, dunque, emergono nodi e sfide su cui le intelligenze più avvertite del nostro tempo e i dibattiti pubblici dovranno confrontarsi per riuscire a pensare a uno spazio sociale realmente polifonico e inclusivo. Ma sul tappeto sta anche la questione della tenuta complessiva del sistema democratico, nel momento in cui le cosiddette basi pre-politiche che animano sostanzialmente la cornice procedurale dei nostri apparati di convivenza vanno sempre più sgretolandosi, richiamandoci all’esercizio di una nuova responsabilità capace di gestire la conflittualità tra diversi. Si tratta a mio parere di ripensare la natura stessa dello spazio sociale, valorizzandone i tratti inclusivi e cercando, allo stesso tempo, di limitare le spinte identitarie e le chiusure sistemiche.
Se le moderne democrazie hanno potuto nutrirsi di un patrimonio di valori, frutto della raggiunta consapevolezza che la pacifica convivenza è un autentico bene indisponibile posto a garanzia del rispetto di tutti e delle loro visioni del mondo, oggi pare che questo sostrato sia fortemente in crisi e che richieda una spinta cooperativa nuova. Serve ritessere quella trama invisibile di legami che dal profondo sostengono la naturale composizione del corpo sociale, in vista di un’armonizzazione delle interne tensioni del sistema. Solo attraverso un modello di società in grado di gestire e mediare il conflitto ritengo si possa avere una ricerca integrata di giustizia e bene comune. Per questo la laicità è strumento e principio insostituibile di libertà e, allo stesso tempo, garanzia d’inclusione. Una laicità che pur inverandosi nel dispositivo giuridico della separazione e della neutralità istituzionale, trova la sua concretizzazione in una prassi di ascolto e dialogo tra posizioni alternative, a volte contrastanti, ma non per questo strutturalmente sorde alle ragioni dell’altro. Questo è il senso di quella morale del discorso pubblico di cui ci parla Mill in On Liberty.
Nel nostro Paese al di là di questi auspici, la laicità (come neutralità) è frequentemente agitata in senso strumentale ogni qualvolta si crea un dibattito serrato sui temi centrali del convivere. Questo non può che esser deleterio, non può che contribuire ad aumentare le fragilità e le carenze che via via sempre più sembrano pesare sullo stato di salute della nostra democrazia, realizzando quella che da più parti viene indicata come un deterioramento di una delle condizioni necessarie della convivenza: la solidarietà tra estranei che sostiene le comunità politiche. Del resto preoccupante pare anche lo scontro para-ideologico che la morsa di un bipolarismo incompiuto e muscolare sta producendo sul piano dell’ethos. La logica del bipolarismo, nata per assicurare stabilità e governabilità, porta spesso a un’impropria polarizzazione di tutte le questioni pubbliche. Questa dinamica, che sta trasformando un normale ‘dispositivo della rappresentanza’ in una lotta permanente che esclude la prassi del dialogo, rischia concretamente di contribuire a una cultura del non riconoscimento e della squalifica permanente dell’altro, e di tradurre tutto ciò in una lotta che non lascia spazio alla sintesi e alla mediazione tra visioni del mondo. La paura è che nei prossimi anni si costruisca uno steccato culturale che non permetta più di autocomprendersi in quanto appartenenti ad un noi comunitario, ma sempre in quanto parti di un sistema condannato allo scontro tra opposti. In tal caso invece che di ricerca del bene comune dovremmo cominciare a riflettere sulla natura e gli esiti del conflitto comune; cosa che si sperava aver consegnato definitivamente ai classici del pensiero politico.
Tali squilibri ci conducono anche a riflettere sul dispositivo rigidamente neutralista in cui si è sostanziata la laicità moderna (che spesso si è tradotta in indifferenza sostanziale), provando a ripensarla in un’ottica inclusiva che preveda anche il riconoscimento di una legittimità piena di intervento nel dibattito pubblico al linguaggio religioso, purché ancorato al principio razionale e ragionevole del rendere ragione sul piano del dialogo. Per tale via non si comprende fino in fondo le motivazioni che hanno generato la protesta e negato la condizioni fattuali dell’intervento di Ratzinger alla Sapienza.
Religione e sfera pubblica
L’animato dibattito di questi mesi mi offre altresì la possibilità di discutere di alcune tesi avanzate da una voce particolarmente autorevole della pubblicistica europea, che ha appoggiato, in occasione del caso Sapienza, le ragioni dell’opposizione alla presenza del capo della chiesa cattolica. Intendo riferirmi alle prese di posizione di Stefano Rodotà che in vari momenti, ma in particolare in un suo interessante commento, ha inteso esplicitare quelli che a suo avviso sono «i principi di un discorso pubblico in una società che vuole essere democratica»1. L’argomentare dello studioso è molto interessante perché porta a sintesi ed a coerenza teorica quanto sostenuto dal “fronte del no”. Afferma, infatti, Rodotà che «la correttezza del discorso pubblico esige il rispetto del principio di parità», «della veritiera descrizione dei fatti», del principio di contesto, della libera partecipazione, «della presenza costante del canone della democrazia». Ritengo che questi esigenti principi, posti a confine tra una sfera pubblica realmente laica e le tentazioni neo-temporalistiche cui un «uso strumentale della religione» porterebbe, se svolti fino in fondo non conducono alla giustificazione delle posizioni del fronte da Rodotà ottimamente rappresentato, ma giusto alla evidenza di una fallacia argomentativa, e quindi a giustificare proprio l’opposto. Procediamo con ordine: se «nella sfera pubblica tutti i soggetti devono accettare la logica del dialogo, della critica e anche della contestazione», non si capisce perché questa logica non includa la possibilità di un discorso fatto da un Pontefice che, sconfiggendo l’idea di un esercizio di autorità, accetta di intervenire in un luogo laico e dunque per struttura aperto alla criticità permanente. L’esercizio del pensiero critico e del logos non riguarda solo la possibilità di un dibattito diretto o di un dissentire in presenza (come Rodotà sembra sostenere), ma anche di un ragionare successivo delle stesse questioni, visto che la cerimonia di apertura di un anno accademico (non per scelta degli invitati) ritualmente non consente uno spazio di dibattito al momento, non vieta però le tante altre modalità di confronto, di elaborazione culturale, e persino di aperta polemica intellettuale. L’università è il luogo istituzionale del confronto scientifico, ed è in qualche modo lo spazio privilegiato in cui visioni delle cose e prospettive sul mondo si confrontano attraverso studi, ricerche, indagini, etc. A me pare invece che quest’argomento sui condivisibili principi dello spazio pubblico sopra enunciati conduca a fare una discutibile operazione preliminare, attraverso la quale si decide quali visioni della realtà, quali prospettive sulle cose e quali attori possano prendervi parte. Se lo spazio pubblico democratico è per costituzione aperto al confronto, fallibile negli esiti e disponibile alla critica non si capisce secondo quale principio un’autorità religiosa non possa esercitare il libero diritto di parola, peraltro in un contesto in cui questa parola era stata invitata ad esprimersi.
Una strana logica sembra attanagliare la discussione pubblica: si può discutere se ci si dice convinti che una verità non ci sia e che siamo consegnati a un irriducibile prospettivismo (epistemologicamente in contrasto con una forte fiducia nella ricerca solidale del vero). Anche per questo ci siamo trovati ad assistere a una situazione per lo più incomprensibile agli osservatori stranieri e dal sapore francamente tardo ottocentesco; in cui un anticlericalismo di maniera sembra fare il paio con una cultura sostanzialmente debole e che non riesce a vivere fino in fondo le ragioni più intime del pensiero democratico-liberale. Questo a tutto scapito, come ha giustamente sostenuto Garelli2, del tessuto democratico del paese, nel quale bisogna invece lavorare per ricreare i motivi di un reciproco riconoscimento pubblico tra laici, credenti e diversamente credenti. La cogenza delle sfide aperte sul futuro dell’umanità mi fa sostenere che «la discussione tra fede e scienza, e la demarcazione tra i rispettivi territori, e il confronto di ambedue col potere, è la cosa più seria di questo mondo, a condizione di avvenire, e non di essere reciprocamente elusi o peggio interdetti»3. Infatti il principio di tolleranza rischia di essere praticamente annullato se posto sotto il duplice assedio di dogmaticità e indifferenza.
L’idea che la presenza di un’autorità religiosa durante il rito dell’apertura di un anno accademico sia nefasta per la salute plurale e pubblica dell’università, tanto da trasformare le critiche legittime nell’affermare l’inammissibilità di questa presenza stessa, non può che darci un segno evidente della debolezza dogmatica sia di tante posizioni che fanno della laicità dello stato la premessa metodologica per escludere il possibile contributo alla vita pubblica del linguaggio religioso, sia della sfera politica stessa e della sua incapacità di una mediazione alta. Politica pronta sovente a facili inchini, a strumentalizzazioni o a sbandierare un verginale laicismo di principio
Verità e democrazia
Se queste veloci incursioni sul tema hanno segnato un po’ i confini nei quali tento di rileggere la questione dell’oscuramento del principio di tolleranza, inteso non come semplice sopportazione ma come concreta capacità di riconoscimento critico delle ragioni dell’altro, allora qualche passaggio più teorico, su quello che ritengo il nodo centrale per decifrare in pienezza quanto sta avvenendo nel dibattito occidentale, è opportuno metterlo in conto. Partirei da alcune indicazioni fondative che Popper dava legando categorialmente ricerca della verità, sfera politica e tolleranza. Egli sostiene che la tolleranza è condizione ineliminabile del percorso che conduce alla scoperta del vero e allo stesso tempo base etica dell’autonomia individuale. La ricerca della verità, sempre costitutivamente pubblica e discorsiva, fa leva sulla tolleranza perché richiede la continua possibilità di critica e allo stesso tempo dell’ineliminabile confronto sulle tesi sostenute, in vista di una diminuzione delle possibilità di errore. Comporta anche che i nostri linguaggi siano razionalmente svolti; questa è l’unica via finita per avvicinarsi con pretesa di validità intersoggettiva al vero. La tolleranza è coessenziale alla democrazia e pone la tonalità di un’autentica società aperta che non rinuncia all’idea regolativa di verità4. Proprio quest’ultima categoria è oggi espunta dalla ragione pubblica. Basti qui ricordare, senza riprendere tutte le posizioni deflazioniste sul piano dell’accettabilità della categoria di verità, le note tesi di Rorty. Quest’ultime ci aiutano a decifrare alcune linee guida su cui si svolgono le riflessioni sulla natura dello spazio democratico. Secondo Rorty la democrazia, intesa come regola costitutiva di una comunità politica che include in sé un ordine pubblico pluralistico fondato sui diritti e le libertà degli individui e dei gruppi, ha sempre la priorità sulla dogmaticità che l’idea di verità porta con sé. È pertanto utile «conservare l’insegnamento socratico relativo al libero scambio di opinioni senza l’insegnamento platonico sulla possibilità di un accordo universale»; la dimensione universale ed intersoggettiva della verità è «semplicemente non rilevante per la democrazia politica». «Sono sufficienti il senso comune e la scienza sociale». Ciò, secondo il filosofo della fine della filosofia, renderebbe «gli abitanti del mondo più pragmatici, più tolleranti, più liberali»5. In fondo qui emerge il generale scetticismo delle teorie etico-politiche contemporanee, che hanno allontanato l’idea di verità (considerata come violenza dogmatica e volontà di dominio sul darsi della differenza) e, con essa, l’idea di bene comune. Se lo spazio sociale chiede, per essere autenticamente laico, la rinuncia alla ricerca cooperativa della verità, la rinuncia a trovare insieme vie per realizzare forme di vita realmente rispondenti alla pienezza dell’umano e la rinuncia a discutere della natura e delle modalità in cui si concretizza un autentico ethos condiviso, allora mi pare chiaro che quelle forme di pensiero che conservano strutturalmente la domanda sul senso generale della realtà non possano trovare più spazio nell’agone pubblico. Per questo trovo opportuno richiamare le indicazioni di Habermas circa il rapporto neutralità-secolarizzazione: «La neutralità del potere statale per ciò che concerne la visione del mondo, garanzia di uguali libertà etiche per ogni cittadino, è inconciliabile con la generalizzazione politica di una visione del mondo secolaristica. I cittadini secolarizzati […] non possono disconoscere un potenziale di verità in linea di principio alle concezioni di mondo religiose, né contestare ai propri concittadini credenti il diritto di contribuire alle discussioni pubbliche in lingua religiosa. Una cultura politica liberale può persino chiedere ai cittadini secolarizzati di partecipare allo sforzo di traduzione di materiali significativi della lingua religiosa ad una lingua accessibile a tutti»6.
La società post-secolare ha bisogno anche dei potenziali cognitivi presenti nel linguaggio dei credenti, sarebbe una cieca e ideologica sordità non riconoscere il contributo alle basi pre-politiche che le visioni del mondo religiose possono offrire alla costruzione di una sfera pubblica all’altezza delle sfide planetarie sul futuro dell’uomo7. È a mio avviso auspicabile, con Habermas, «evitare di condurre ad una esclusione scorretta della religione dalla sfera pubblica –esito che priverebbe la società secolare di risorse importanti per la fondazione del senso– solo se anche la componente secolare riuscirà a conservare una sensibilità per la forza di articolazione dei linguaggi religiosi. […] ciascuna delle parti sia pronta ad accogliere anche la prospettiva dell’altra»8. Questo sforzo di reciproco riconoscimento traduttivo dovrebbe condurre ad affidarsi completamente alla garanzia che il logos offre sul piano di una ricerca cooperativa delle ragioni pubbliche e sul carattere tollerante e paritetico che la fatica del render ragione porta con sé. Non si tratta di rinnovare lo schema degli assoluti, ma di compiere uno sforzo per far sì che la laicità di cui siamo difensori diventi tollerante rispetto e non indifferenza. Una tolleranza come capacità di lasciarsi inquietare dalle ragioni dell’altro in vista di uno spazio pubblico plurale, non nichilistico e agnostico sul piano dei valori di convivenza.
Congedo
Nel limitato ragionamento fin qui condotto, mi preme in via conclusiva spendere anche qualche parola sul clima generale nel quale l’affare Sapienza si è prodotto. Ritengo che il terreno di coltura sia stato negli ultimi anni preparato anche da una oggettiva sovraesposizione delle gerarchie ecclesiastiche italiane in materia di questioni pubbliche, e da un concomitante inasprimento dei toni complessivi del dibattito sulle materie etiche. Quindi se, per un verso, trovo datato ogni tentativo di relegare alla dimensione privata la visione credente, per altro verso valuto come poco fruttuoso il fatto che il vero soggetto interlocutore, non solo a livello culturale, ma anche istituzionale siano sempre più diventati i rappresentanti della gerarchia e meno i fedeli laici, ai quali il Magistero affida il compito del discernimento sui segni dei tempi e della responsabilità per un giusto ordine della società9. Proprio per questo bisognerebbe chiedersi quanto i fenomeni di chiusura e l’irrigidimento intollerante del dibattito possano dipendere da una afasia dei laici credenti nei luoghi propri della mediazione culturale e della ricerca del bene possibile.
Per queste ragioni auspico una rimodulazione nella prassi d’intervento pubblico del pensare credente a partire dalle concrete sintesi culturali che i cristiani sono chiamati ad operare tra i principi e il vivere storico, in rispetto al compito che lo stesso magistero cattolico li invita a non evadere.