Oltre 120.000 migranti nel 2018. Un numero alto, che giustificherebbe un certo allarmismo. Eppure, nessuno sembra preoccuparsene: sono gli italiani emigrati all’estero, perlopiù giovani e con un alto livello d’istruzione. Molti laureati. La cifra, tra l’altro, è parziale, perché coloro che al momento di trasferirsi all’estero non cancellano la propria residenza anagrafica in Italia, non compaiono nelle statistiche. Il numero degli emigranti italiani è, in realtà, di gran lunga maggiore di quello indicato nelle stime ufficiali. L’emigrazione degli italiani ha una lunga storia e non si è mai arrestata, neppure quando il saldo migratorio del paese è divenuto positivo e l’Italia è diventata terra d’immigrazione. Non abbiamo mai smesso di essere un popolo d’emigranti. Negli ultimi anni, però, il fenomeno ha assunto dimensioni di nuovo molto consistenti (cfr. Pugliese 2018).
23.371 migranti nel 2018. Allarme ai massimi livelli. Tutti ne parlano: sono gli immigrati arrivati in Italia con le barche, o soccorsi nel Mediterraneo da navi della Guardia Costiera o di ONG. Gli “sbarcati” sono stati pochi nel 2018 e sono ancora meno, finora, nel 2019. Un numero irrisorio se confrontato con quello degli anni precedenti. Eppure, essi riempiono i notiziari televisivi e le pagine dei giornali, occupano gran parte del dibattito pubblico e agitano il sonno di tanti italiani spaventati da un’invasione immaginaria. Soprattutto, sono strumentalizzati ai massimi livelli nel confronto tra le forze politiche del paese. La lotta contro i loro arrivi rappresenta il maggiore cavallo di battaglia della Lega, partito che ha fatto la sua fortuna sulla propaganda anti-immigrazione. Ma anche di Fratelli d’Italia, che se possibile cerca di incarnare una linea ancor più dura sull’immigrazione rispetto a quella di Salvini.
Gli sbarchi sono solo una parte, neppure la più consistente, del totale degli immigrati che giungono in Italia - la quota maggiore riguarda ormai chi arriva per ricongiungimento familiare, mentre fino al 2010 era costituita dai permessi per lavoro - ma sono quelli che mettono paura e su cui sono puntati i riflettori dei media.
A ben vedere, è paradossale che in Italia tutta l’attenzione sia posta su chi arriva e non su chi parte, dato che è l’emigrazione dei giovani italiani a costituire davvero un problema. Anche alla luce dei processi di invecchiamento della popolazione italiana - tra le più vecchie al mondo - e di declino demografico. Solo recentemente si è tornato a parlare di questa emorragia di giovani italiani, peraltro senza avere ancora le idee chiare su come limitarla. L’immigrazione straniera, al contrario, è un fenomeno che certamente va governato e ha aspetti potenzialmente problematici, ma che presenta, al contempo, molti aspetti positivi.
In queste pagine tenterò di descrivere i motivi per cui l’invasione di immigrati, per nulla accaduta negli anni passati né realisticamente possibile in futuro, dunque soltanto immaginata, abbia inciso profondamente negli orientamenti dell’opinione pubblica e abbia dettato, in misura sproporzionata, l’agenda politica italiana.
I numeri dell’“invasione”
È vero, in parte, che l’Italia, come lamentano in tanti, sia stata lasciata sola a fronteggiare gli arrivi di migranti via Mediterraneo. Soltanto in parte, perché l’Unione Europea copre parzialmente i costi dell’accoglienza, mentre la Germania, nel solo 2015, ha accolto più migranti di quanti ne abbia accolti l’Italia dal 2014 a oggi. Tuttavia, il rifiuto di modificare il regolamento di Dublino e la resistenza di molti Stati verso i programmi di ricollocamento, sono segnali evidenti di come l’egoismo nazionale prevalga sulla solidarietà tra i membri dell’Unione.
Per comprendere le dimensioni del fenomeno, è bene partire da qualche numero. Nel 2014, su 216.054 migranti giunti nel vecchio continente via mare, il 78,5% (170.100 persone) è arrivato sulle coste italiane. Nel 2015 la situazione è stata diversa per il massiccio passaggio dalla Turchia alla Grecia, soprattutto di siriani: su ben 1.015.078 persone approdate in Europa, quelle arrivate in Italia sono state 153.842, il 15,2%. Già dall’anno seguente, come effetto dell’accordo tra l’Unione Europea e la Turchia e della conseguente chiusura della rotta balcanica, l’Italia è tornata a essere il principale punto d’accesso all’Europa: su 362.753 arrivi, il 50% (181.436 persone) si è avuto in Italia. Nel 2017 la percentuale ha raggiunto il 69,3%, con 119.247 arrivi su un totale di 172.301 (dati UNHCR e Ministero dell’Interno).
Dopo l’accordo tra l’Italia e la Libia nel 2017, gli sbarchi sono diminuiti. Sono stati 23.371 nel 2018 e 7.035 finora nel 2019, alla data del 25 settembre.
A dispetto della retorica dell’invasione, comunque, l’Italia non ha registrato, negli ultimi anni, un incremento negli ingressi, neppure nel periodo 2014-2017. Avendo drasticamente ridotto o, in alcuni anni, perfino chiuso il canale dei flussi per lavoro, il paese ha un calo d’immigrazione rispetto al passato.
Il paradosso è dunque quello di un’immigrazione che non è realmente aumentata nell’ultimo decennio, ma che è divenuta il tema forte di ogni campagna elettorale e che viene considerata da molti “il” problema del paese. Mentre, in maniera sempre più evidente, la gestione dei flussi migratori s’impone come uno dei grandi temi di politica estera e di rapporti tra gli Stati.
Nella mancanza di un reale coordinamento europeo, l’Italia ha portato avanti politiche nazionali cercando di chiudere la rotta del Mediterraneo centrale, attraverso accordi con le autorità libiche e scegliendo la linea dei “porti chiusi”, enfaticamente rivendicata dal ministro dell’Interno Salvini nel primo governo Conte.
Ovviamente, la linea dura dei “porti chiusi” non risolve la questione dei viaggi dei migranti nel Mediterraneo. Semplicemente, obbliga questi ultimi a lunghe e pericolose peregrinazioni per trovare nuovi luoghi di partenza e di approdo. Quando nel 2016 l’Unione Europea ha siglato un accordo con Ankara per bloccare il passaggio dei profughi dalle coste turche alle isole greche, si è subito registrato un aumento dei passaggi lungo la rotta del Mediterraneo centrale e degli arrivi in Italia; quando il governo italiano, nel 2017, ha stabilito accordi con le autorità di Tripoli per il contrasto alle migrazioni, si è prodotto un incremento d’arrivi in Spagna. È quantomeno ingenuo pensare che si possa governare un fenomeno epocale, qual è quello delle migrazioni internazionali, con sole politiche di contrasto. Così, per la prima volta, nel 2018 la Spagna ha registrato un numero più alto di arrivi rispetto all’Italia: su 121.755 migranti complessivamente giunti via mare in Europa, ne ha accolti 64mila. Anche la Grecia, con 33mila arrivi, ha superato l’Italia (dati UNHCR).
Le forze politiche italiane che puntano, per attrarre voti, sul tema immigrazione, in primis la Lega, hanno dato ampio risalto al calo degli sbarchi in Italia, considerandolo una grande vittoria della linea dura di Salvini. Se si esce dagli schemi propagandistici, non è però difficile capire che l’Italia, sul tema migratorio, avrebbe tutto l’interesse a spingere verso un maggiore coordinamento europeo. Mentre, al contrario, la politica dei “porti chiusi” è stata accompagnata, lungo il primo governo Conte, da un’assenza di dialogo con le istituzioni comunitarie e dall’imbarazzante assenteismo dei ministri italiani negli incontri europei su questi temi.
Fin quando l’Unione Europea non riuscirà ad affrontare, in maniera realmente coordinata, i fenomeni migratori, essi costituiranno motivo di tensione e di scontro tra i vari Stati membri: negli ultimi anni, i paesi meridionali hanno spesso accusato gli altri di scarsa solidarietà con chi è soggetto a maggiore pressione migratoria; Francia e Austria, di contro, hanno accusato l’Italia di non impedire il passaggio delle Alpi di richiedenti asilo che, in base al regolamento di Dublino, dovrebbero restare nel paese di primo approdo, e hanno persino ripristinato i controlli di confine rispettivamente a Ventimiglia e al Brennero; Malta è stata aspramente criticata per aver chiuso i suoi porti ai migranti, senza tener conto del fatto che è una piccola isola e che non può essere paragonata agli altri Stati frontalieri (cfr. Pace 2018); il gruppo dei paesi di Visegrád (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) si è duramente opposto a ogni politica europea di ripartizione dei migranti (cfr. Diodato 2018).
Ma se è vero, come ha scritto recentemente Stephen Smith e come ritengono molti analisti, che «l’Africa nera non è ancora partita» (Smith 2018, p. XIX), l’Unione Europea non può permettersi ancora a lungo l’atteggiamento litigioso e inconcludente che caratterizza, su questi temi, il confronto tra i suoi Stati membri. Nella previsione di un aumento della pressione migratoria dall’Africa, sarebbe necessario che i paesi europei adottassero strategie condivise, superando un’impasse che si è tradotta, di fatto, in una chiusura.
Tutto ciò tenendo comunque presente che il numero oggi eccezionalmente alto di migranti nel mondo, circa 258 milioni, corrisponde al 3,4% della popolazione mondiale, dunque una percentuale piuttosto bassa. Nonostante la tumultuosa crescita demografica a sud del Sahara, il perdurare di crisi regionali e gli inevitabili spostamenti di popolazioni determinati dai cambiamenti climatici, la storia degli ultimi decenni spinge a supporre che l’aumento dei fenomeni migratori nel mondo proseguirà, negli anni a venire, con relativa lentezza, senza accelerazioni impetuose e incontrollabili.
Presumibilmente, dunque, non ci sarà un cambiamento sostanziale rispetto agli scenari odierni. Questa considerazione introduce il tema dell’ideologizzazione delle migrazioni, necessario per comprendere i motivi dell’ossessiva attenzione mediatica attorno ad esse. Infatti, dall’osservazione del fenomeno migratorio nel suo complesso, a partire dai numeri degli arrivi in Europa nell’ultimo decennio, si dovrebbe desumere che non esista alcun reale motivo per lanciare allarmi. Nonostante le previsioni sui possibili spostamenti di massa dall’Africa nei prossimi anni, gli immigrati e i rifugiati che sono arrivati in Europa in una fase comunque straordinaria - dopo le cosiddette primavere arabe e la crisi siriana - sono in numero appena sufficiente a contrastare il declino demografico del vecchio continente. Sono, per molti aspetti, utili, in paesi come l’Italia e la Germania, che hanno tassi di natalità bassissimi e un forte invecchiamento della popolazione.
Ma, anche, sarebbero utili in paesi come l’Ungheria, che sta vivendo un processo di spopolamento a causa dell’emigrazione degli ungheresi e il tasso molto basso di natalità (1,45 figli per donna, a fronte di una media europea, già bassa, di 1,58). Le recenti disposizioni volute dal premier ungherese Viktor Orbán nel cosiddetto “piano famiglia” - esonero dalle tasse per chi ha almeno quattro figli, prestiti agevolati per chi ha almeno tre figli, bonus per l’acquisto di vetture a sette posti… - potranno contrastare solo in parte la denatalità, senza avere la forza di produrre una vera inversione di tendenza. Soprattutto, esse possono avere senso in sé, ma non come risposta all’immigrazione, in una logica etnicistica in cui si pensa di popolare il paese con “veri” ungheresi per non doverlo popolare con stranieri. E comunque, esse non hanno la forza di fermare lo spopolamento, anche perché le donne ungheresi, perlopiù, rifiutano la visione ultraconservatrice che le inchioda nel ruolo di riproduttrici, votate al dare figli alla patria. Come ha notato Pierre Haski, dunque, «lo spopolamento è un problema serio per un’economia che non ha più manodopera a sufficienza ma rifiuta di fare ricorso agli stranieri» (Haski 2019).
Nella realtà, insomma, in Italia come in altri paesi europei, il fenomeno migratorio non è tale da giustificare l’allarmismo e le tensioni che provoca. È l’ideologizzazione del fenomeno a creare, attorno ad esso, un’esasperazione irragionevole.
La logica dell’emergenza
Non si tratta, comunque, di una novità degli ultimi anni. La rappresentazione dell’immigrazione come una continua emergenza affonda le sue radici nel triennio della “scoperta” dell’immigrazione da parte degli italiani. Tra il 1989 e il 1991 - dall’omicidio di Jerry Essan Masslo il 24 agosto 1989, agli sbarchi degli albanesi sulle coste della Puglia, nella primavera e nell’estate 1991 - l’immigrazione irruppe sulle prime pagine dei giornali e negli schermi televisivi: dopo un lungo periodo in cui gli immigrati presenti in Italia, in numero già consistente, erano pressoché rimasti nell’ombra, alcuni avvenimenti concentrati nel breve arco di due anni ne fecero un tema di acceso dibattito pubblico.
L’omicidio Masslo fece scalpore: il giovane sudafricano, fuggito da uno Stato razzista, fu ucciso nel corso di una rapina ai danni di braccianti agricoli stagionali, nel casertano, in un contesto di degrado e di sfruttamento, ma anche di disprezzo verso i lavoratori stranieri. Si parlò di un atto di razzismo. La Rai mandò in diretta nazionale i suoi funerali, ai quali parteciparono vari esponenti delle istituzioni, tra cui il vicepresidente del Consiglio dei ministri Claudio Martelli. Fu organizzata una grande manifestazione antirazzista e si affermò l’esigenza di una legge organica sull’immigrazione, per superare l’inadeguata legge Foschi del 1986.
Tuttavia, la legge Martelli approvata nel febbraio 1990 e figlia degli avvenimenti dei mesi precedenti, era molto carente sul piano delle politiche d’integrazione. La mancanza di una politica tesa a governare in maniera strutturale l’immigrazione, alimentò l’idea di un fenomeno emergenziale. Contribuì in tal senso la sanatoria prevista dalla legge Martelli, la quale, nell’opinione pubblica, fu vista come un provvedimento d’emergenza di fronte a un fenomeno di difficile gestione.
Tra l’altro, è bene ricordarlo, la legge Martelli era stato un compromesso tra le istanze delle associazioni degli immigrati e del volontariato - inizialmente molto considerate nel decreto Martelli, approvato dal Consiglio dei ministri nel dicembre 1989 - e l’esigenza, avvertita dalle forze di governo (dal Partito repubblicano in primis, ma anche da gran parte della Democrazia cristiana, compreso il capo del governo Giulio Andreotti), di allinearsi alle decisioni assunte in materia di controllo dei confini dai cinque paesi firmatari degli accordi di Schengen (Francia, Germania occidentale, Belgio, Olanda e Lussemburgo). Per questo motivo il decreto, che manteneva una linea d’apertura verso le migrazioni in ingresso, subì modifiche sostanziali al momento della conversione in legge, in particolare con l’introduzione di un regime di visti per i paesi da cui provenivano i flussi migratori più consistenti. In quel frangente, dunque, l’Italia si trovò a dover scegliere tra una politica mediterranea di apertura verso i paesi del Maghreb e il sistema di Schengen, dal quale inizialmente era stata clamorosamente esclusa (cfr. Paoli 2018). Una scelta, per dirlo in termini ancor più netti, tra l’Europa e il Mediterraneo. Scelse la prima, inasprendo i controlli alle frontiere marittime e limitando i flussi migratori in ingresso, per poter essere accolta dentro Schengen.
All’indomani di quella decisione, il grande esodo albanese marcò un altro momento di svolta nella storia dell’immigrazione in Italia: le immagini della città di Brindisi invasa da migliaia di profughi, nella primavera 1991, e ancor più quelle, nell’agosto seguente, della nave Vlora, sovraccarica all’inverosimile di albanesi, poi concentrati nello stadio di Bari dove si verificarono scene di disordine e violenza, alzarono il livello d’allarme sui media.
Mentre nel luglio 1990 l’Italia aveva accolto quasi 5.000 albanesi (di cui 800 restarono in Italia e gli altri furono trasferiti in Germania), considerandoli dissidenti politici, dopo che questi si erano rifugiati nelle ambasciate straniere a Tirana - il governo di Roma aveva persino mandato navi italiane a prenderli oltre Adriatico, per portarli in Puglia - l’anno seguente si ebbe una stretta e si decise di rimpatriare chi avesse raggiunto le coste italiane. Gli albanesi, così, nell’arco di meno di un anno, passarono da rifugiati a immigrati irregolari. Nell’immaginario e nelle rappresentazioni mediatiche, nello stesso lasso di tempo, passarono da profughi bisognosi d’aiuto a pericolosi invasori (cfr. De Cesaris 2018).
Molti commentatori lanciarono allarmi apocalittici, rappresentando gli arrivi del 1991 come i primi di un’ondata inarrestabile di profughi, che dal sud del mondo e dall’est europeo avrebbero invaso l’Italia, facendone crollare la democrazia se non persino la civiltà. Così, ad esempio, riteneva Eugenio Scalfari, autorevole interprete delle visioni più pessimistiche di quel momento: «Già ora molte decine di milioni di albanesi, turchi, maghrebini di Tunisi, di Algeri, di Orano, di Casablanca premono verso le città dell’Europa civile; ma quei milioni saranno centinaia tra appena trenta o quarant’anni, quando l’incontrollato tasso di crescita demografica di quelle popolazioni avrà fatto diventare le coste dell’Africa settentrionale, dell’Egeo e dell’Adriatico un brulicame umano in cerca di lavoro, di benessere, di sogni che le nostre televisioni alimentano a getto continuo sulle sponde di questo comune mare-lago che ci tiene uniti. Un’invasione di dimensioni analoghe a quelle che forzarono da Nord e da Est i confini dell’impero di Roma millecinquecento anni fa sconvolgendolo dalle fondamenta; di dimensioni maggiori di quella araba che appena tre secoli dopo dilagò nel Sud dell’Europa» (Scalfari 1991).
I media ebbero un ruolo non secondario nella diffusione dell’allarme. Chi ha compiuto un’indagine approfondita sugli articoli a stampa apparsi nei mesi degli arrivi dei profughi dall’Albania, ha rilevato che «la gente nel periodo degli arrivi degli albanesi è stata letteralmente bombardata da notizie allarmanti, visioni preoccupanti di profughi “affamati e straccioni” che arrivavano ad ondate successive, senza che poi a questo sia seguita una adeguata descrizione della situazione di normalità» (Palomba e Righi 1993, p. 10).
Si ebbe, dunque, una situazione particolare: l’emersione dell’immigrazione come questione rilevante per la società italiana, tra il 1989 e il 1991, avvenne in forme traumatiche per l’opinione pubblica, scossa dalle immagini forti dei profughi albanesi e dagli allarmi lanciati sui media. Si diffuse la paura dell’invasione, che avrebbe determinato pesantemente il dibattito sul tema negli anni a seguire e sino a oggi. La prima conseguenza della paura fu la rapida involuzione del dibattito politico sulla cittadinanza, con l’approvazione, nel 1992, di una legge del tutto anacronistica e sostanzialmente reazionaria (Morozzo della Rocca 2014).
La logica emergenziale è stata mitigata in alcuni momenti recenti della storia italiana, in cui si è tentato di distendere i torni e riportare il dibattito sull’immigrazione su binari di realismo. È accaduto, in particolare, durante il governo Monti, per merito del ministro Riccardi che ha insistito sull’esigenza di usare, sul tema immigrazione, un linguaggio sobrio e non allarmistico. Al contrario, negli ultimi anni, la crescente ideologizzazione dei fenomeni migratori ha provocato un ulteriore deterioramento del dibattito.
Lo scontro ideologico sulle migrazioni
Sempre più spesso, così, si sente l’esigenza di ripetere quella che, per tutta evidenza, è una banalità assoluta: i migranti sono uomini, donne e bambini. Lo ricorda in continuazione papa Francesco, la più alta autorità spirituale che si è schierata dalla parte dei migranti. Lo ricordano l’ONU, le ONG, le associazioni in difesa dei diritti umani. Il motivo per cui appare necessario riaffermare una banalità del genere è duplice: da un lato, le migrazioni internazionali sono ormai finite nel mezzo di uno scontro ideologico in cui i migranti cessano d’essere persone e diventano l’oggetto della contesa, la posta in gioco in una partita politico-ideologica; dall’altro lato, la crescita di xenofobia e razzismo rischia di produrre una disumanizzazione dei migranti, come in passato è accaduto per altri gruppi umani discriminati e infine perseguitati.
Il primo aspetto non va sottovalutato: nello schema ideologico sovranista, le migrazioni sono viste come la testa d’ariete di un “globalismo” omologante, che livella le differenze fino a distruggere le identità e le comunità locali. In quella visione, il problema non sono tanto le persone - uomini, donne e bambini -, ma il fenomeno delle migrazioni in sé.
Anche se, purtroppo, la capacità di comprendere la differenza che intercorre tra la critica alle migrazioni come “fenomeno” e l’aggressività, verbale e fisica, contro i migranti, non sembra essere alla portata intellettuale di taluni militanti delle formazioni dell’estrema destra sovranista, che si rivelano, spesso e volentieri, razzisti e violenti.
L’ideologia sovranista si accompagna a una severa critica al meticciato, non soltanto in termini di mescolanza di persone di origine etnica diversa, ma come “meticciato culturale”. È dunque, al fondo, una visione conservatrice della società, centrata sulla difesa delle tradizioni e delle identità locali.
In quella logica, la rappresentazione dell’immigrazione come un’emergenza non è più soltanto, né soprattutto, legata agli elementi che hanno contribuito, nel corso degli ultimi trent’anni, a consolidare quel tipo di rappresentazione, quali la mancanza di politiche d’integrazione o il frequente ricorso alla sanatoria. Essa è piuttosto alla base dell’ideologia sovranista, che considera l’immigrazione un’emergenza in sé, indipendentemente dai numeri e dalle dimensioni del fenomeno, dall’efficacia o dalla carenza di politiche d’integrazione, dall’utilità o meno degli immigrati per l’economia. Emergenza in quanto volto e simbolo del cosiddetto globalismo.
Limitandoci, nella nostra riflessione, al caso italiano, è evidente come quell’atteggiamento vada a discapito dell’integrazione degli immigrati nella società e della normalizzazione dei fenomeni relativi all’immigrazione. La presenza degli stranieri e gli arrivi dei migranti sono stati dapprima politicizzati, fin dagli anni Novanta del secolo scorso, fomentando le paure degli italiani, e infine ideologizzati, all’interno di un confronto tra sovranismo e globalismo, tra due visioni diverse e antitetiche di società.
Non mi soffermo oltre, per motivi di spazio, sul tema dell’ideologizzazione delle migrazioni, che è però di grande rilevanza non soltanto in Italia e in Europa: l’enfasi posta dall’amministrazione Trump sul muro al confine con il Messico, ad esempio, risponde in pieno a quella logica.
Il secondo aspetto che accennerò brevemente, la disumanizzazione dei migranti, è forse ancor più preoccupante: non di rado, nel corso dell’età contemporanea, coloro che erano percepiti come pericolosi hanno subito un processo di disumanizzazione, o persino di animalizzazione. Tristemente celebri sono le rappresentazioni naziste degli ebrei con una peluria eccessiva e grandi orecchie a punta (cfr. Herf 2006). Ma ci sono molti casi meno noti, benché altrettanto impressionanti. Si pensi, solo per fare un esempio più recente, all’animalizzazione dei tutsi nella propaganda di Radio Mille Colline al tempo del genocidio in Ruanda (cfr. Ndemesah 2009). La disumanizzazione del nemico è sempre stata un modo per giustificare la violenza contro di esso, colpevole di non essere pienamente uomo e di costituire una minaccia.
Come ho avuto modo di notare in maniera più estesa altrove (De Cesaris 2018, pp. 116-117), nel corso della storia la discriminazione, nelle sue molte facce, si è spesso mascherata da legittima difesa. Gli ebrei in Europa, tra Otto e Novecento, erano rappresentati come colpevoli di ammalare la società, il giudaismo era considerato una patologia in grado di portare al disfacimento della civiltà europea. Secondo gli antisemiti bisognava difendersi. Il razzismo è stato presentato come un necessario strumento di difesa della “razza bianca”, attraverso la separazione (si pensi alle esperienze storiche segregazioniste) e il contenimento della presenza delle “razze” considerate inferiori e colpevoli, a causa del meticciato, d’indebolire quelle ritenute superiori. Secondo i razzisti bisognava difendersi. La xenofobia è talvolta giustificata con l’idea che i migranti portino malattie, o riportino in Europa malattie che erano state debellate, o anche che provochino - solo per il fatto di essere “diversi” - instabilità sociale. Così, si dice, bisogna difendersi.
L’idea di doversi difendere da una minaccia giustifica atteggiamenti di chiusura e di discriminazione. Si riducono i diritti dei migranti, ma si dice di farlo per garantire i diritti degli autoctoni. Si tratta, in realtà, di una “illegittima difesa”, perché basata su presupposti ideologici e non reali. Il rischio che oggi si producano meccanismi di quel tipo - già se ne vedono le avvisaglie, non soltanto in Italia - non andrebbe sottovalutato.
Normalizzare le migrazioni
Non c’è altra via, per superare la logica emergenziale e vincere la paura dell’invasione, che normalizzare le migrazioni. Può sembrare un’affermazione ingenua, a fronte di fenomeni che appaiono difficilmente governabili e che suscitano reazioni emotive. È però una strada obbligata, che dovrà essere percorsa assumendo decisioni chiare e coraggiose.
Innanzitutto, garantendo vie legali d’ingresso adeguate. Non, com’è ora, vicoli stretti in cui pochissimi riescono a passare. Le vie legali dovrebbero essere una possibilità reale per chi, in mancanza di alternative, tenta oggi di arrivare in Europa in maniera irregolare, con viaggi pericolosi nel Mediterraneo. Le innumerevoli morti in mare di uomini, donne e bambini in cerca di un futuro migliore, sono uno scandalo di cui i popoli e gli Stati europei dovrebbero vergognarsi, per non aver saputo (e forse voluto) impedirle.
In secondo luogo, legando in maniera forte accoglienza e integrazione, con un coinvolgimento diretto di attori istituzionali e non nei processi di inserimento degli immigrati nella società e nel mondo del lavoro. Il programma dei corridoi umanitari – creato per i rifugiati, ma potenzialmente utilizzabile in maniera più larga anche per altre forme di migrazione – dimostra come sia possibile coniugare accoglienza e integrazione (cfr. Impagliazzo 2018). Si dovrebbe inoltre, sul tema dell’integrazione, potenziare la figura del mediatore interculturale, che può essere un efficace ponte tra istituzioni italiane e immigrati. L’inserimento di mediatori in programmi specifici, nella sanità, nelle carceri o nelle scuole, ha sempre dato ottimi risultati, favorendo l’integrazione degli immigrati e, più in generale, la coesione della società italiana. È un aspetto su cui puntare, prima di tutto giungendo finalmente a un riconoscimento normativo della figura professionale del mediatore interculturale.
In terzo luogo, è necessario tornare alla dimensione europea. Non è pensabile che l’Italia e gli altri paesi frontalieri possano, da soli, gestire i flussi migratori via Mediterraneo. La Grecia si è trovata in questi anni in difficoltà, e ha reagito con politiche disumanizzanti (i richiedenti asilo lasciati ammassati nelle isole, nei campi, come in quello di Moria a Lesbos); Malta è una piccola isola con una densità di popolazione molto superiore alla media europea, ed è incapace di accogliere numeri consistenti di migranti; la Spagna persegue da molti anni politiche di fortificazione dei confini con il Marocco e non ha alcuna intenzione di cambiare linea; nel caso italiano, l’idea, diffusa, che l’Unione Europea ci abbia scaricato il problema delle migrazioni, lavandosene le mani, ha fatto da volano alle forze politiche populiste e antieuropee. Il recentissimo accordo di Malta tra alcuni Stati europei è un passo in avanti, che prevede una redistribuzione, su base volontaria, dei richiedenti asilo che giungono in Europa via mare. Ma è un accordo parziale e ancora da definire nel dettaglio. È urgente rivedere il regolamento di Dublino e coinvolgere tutti gli Stati membri dell’Unione. Se non si potrà avere, in tempi brevi, una vera comunitarizzazione delle politiche migratorie, come sembra evidente, si dovrà almeno adottare un meccanismo equo e realmente efficace di distribuzione dei richiedenti asilo nei paesi europei.
Infine, per normalizzare le migrazioni, bisognerebbe normalizzare anche il dibattito su di esse. C’è, in quest’aspetto, una responsabilità ineludibile dei media e di tutti coloro che operano nella comunicazione. Il linguaggio esasperato e aggressivo che si è imposto su questi temi, ormai da tempo, è come soffiare sul fuoco della paura, mentre bisognerebbe spegnere quel fuoco mostrando l’immigrazione per quello che realmente è: un fenomeno strutturale, governabile, utile all’economia italiana, complesso e non privo di problematicità, ma capace di arricchire enormemente la società e la cultura del nostro paese.
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