Una riflessione sul mito di Don Giovanni conduce immancabilmente ad un’analisi del desiderio che caratterizza l’eroe in cui il mito si incarna. La configurazione di tale desiderio, la sua disamina, è, ad eccellente esempio, sviluppata da Kierkegaard ne Gli stadi erotici immediati, ovvero il musicale-erotico, di cui si dirà avanti.
A voler seguire un presupposto fondamentale della girardiana teoria mimetica, secondo cui nessuno è davvero padrone del proprio desiderio, una sorta di diffidenza riguardo alla immediatezza del desiderio dongiovannesco ci sospinge a ipotizzare una qualche mediazione. Il sospetto è verso l’illusione della immediatezza del desiderio di Don Giovanni, anche del suo. «L’errore fondamentale della filosofia nel cogliere la portata complessiva del comportamento mimetico, non può essere separato da un’illusione che ci è assai cara: la salda convinzione che il nostro desiderio sia realmente nostro, che sia davvero originale e spontaneo» (Girard 2009, p. 6).
È però giusto dire che, pur partendo da questo semplice presupposto rivelatore di ogni celata verità romanzesca, le nostre considerazioni prendono una direzione che probabilmente si allontana dalla prospettiva e forse anche dalle intenzioni entro cui Girard formula la teoria mimetica: poiché egli sembra insistere soprattutto sugli aspetti induttivi del desiderio, sulla funzione del terzo che media la relazione tra il desiderante e l’oggetto del desiderio, suggerendone la desiderabilità. In queste pagine, invece, si svilupperà l’idea di una mediazione del desiderio dongiovannesco pensato come una sostanziale rivalità di fondo collegata all’oggetto del desiderio.
1. Nella famosa, cosiddetta, “aria del catalogo” del Don Giovanni mozartiano, il servo Leporello canta a Donna Elvira la reale inclinazione del suo padrone, rivelandogliela con la finalità di disincantarla e, con ciò, togliere l’inciampo che è Elvira, da mezzo ai piedi del libertino, che ha imposto al suo servo di procedere in tale svelamento. Ella, sedotta e abbandonata, o meglio, già posseduta e abbandonata, si è posta alla ricerca del fuggitivo e lo ha trovato. Pretende che torni da lei, altrimenti, così dice, è disposta a cavargli il cuore. In quanto già posseduta, Elvira è per lui solo un ostacolo alla conquista delle altre, della successiva, la sola donna che lo interessi. Il catalogo è opera del servo, la rappresentazione, scritta di propria mano, del molteplice femminile attraversato dal suo padrone, di cui certo, in proiezione, egli si compiace. Per Leporello, il suo padrone è un modello ammirato e odiato al contempo, emulato e criticato, interiorizzato ed espulso. Sin dalla prima scena dell’opera mozartiana - obbligato a far da palo, mentre il padrone sì è introdotto in casa di Donn’Anna - egli si lamenta della propria condizione servile e trasogna un ribaltamento dei ruoli: «Voglio far il gentiluomo,/ E non voglio più servir». Ma un capovolgimento dialettico è impossibile quando il rivale è nell’immaginario troppo elevato, quando il modello è irraggiungibile. A Leporello, per sentirsi un po’ Don Giovanni, non resta che stilare il catalogo, adempiere così al suo compito, documentando le imprese.
Don Giovanni, invece, ha ben altro cui pensare che non sia scrivere una lista: conquistare la successiva. Più avanti torneremo al catalogo e al suo anonimato. Ma, intanto, consideriamo la dichiarazione di Leporello che, a chiusura e suggello della sua lista in cui, mostrando la realtà di un molteplice femminile, sempre in fieri, svela anche la determinazione dongiovannesca: «Purché porti la gonnella,/ voi sapete quel che fa». Conclude così e sparisce, lasciando Elvira sola a sfogare il suo dolore nel sentimento di vendetta che, momentaneamente, prende in lei il sopravvento.
Ma davvero possiamo credere a quel che dice, che basti “la gonnella” a sprigionare la fiamma del desiderio dongiovannesco? Basta che sia una donna? Bella, brutta, bianca, bruna, bionda, grassa, magra, vecchia o giovane: purché sia donna e basta?
Proprio il rifiuto di Elvira, il non volerla tra i piedi, suggerisce che l’appartenenza al genere femminile non sia condizione sufficiente all’insorgere del desiderio. Cos’ha Elvira che non va?
Ha che, essendo già stata posseduta, già sua, come sua e come già posseduta, è priva d’interesse. Non può essere la successiva, la mancante, e non è, in quanto già stata sua, la donna di altri. Con lei, il desiderio mimetico non può funzionare. Tra le braccia di Elvira mancherebbe il fantasma di un terzo, l’ostacolo che muove il desiderio, mancherebbe l’assente rivale a cui commisurarsi, a cui sottrarre la preda. E l’amore, si sa, a Don Giovanni è interdetto. L’ostacolo non è il rivale, il terzo, l’ostacolo è Elvira, e bisogna toglierlo di mezzo, così, srotolandole in faccia la lunga lista: «Madamina, il catalogo è questo».
Peripezie del desiderio mimetico: Elvira è un ostacolo in quanto la relazione con lei non comporterebbe nessun ostacolo, nessun rivale da soppiantare, nessun interesse, nessun desiderio. Come potere desiderare mimeticamente una donna che ti ama?
Tre sono le figure femminili, i personaggi, dell’opera mozartiana: Elvira, Anna, Zerlina. La prima, da fuggire: desiderio spento, morte del desiderio. Anna e Zerlina, da conquistare, sono donne di altri. Anna, una nobildonna, promessa a Ottavio, che Don Giovanni tenta di violare introducendosi in casa sua, travisato e con il favore delle tenebre, nel tentativo fallito di essere accolto come il fidanzato di lei: Anna lo inseguirà tentando di strappargli la maschera. La contadinotta Zerlina, invece, è conquistata con l’arma della seduzione: la convince di essere talmente bella da meritarsi ben più che un contadino come Masetto, e questo nel giorno delle loro nozze. Preziosissima preda. In entrambi i casi, Don Giovanni sovrappone la propria immagine a quella del rivale.
Lo diciamo chiaramente: per noi, il mito di Don Giovanni si sostanzia nel desiderio della donna d’altri, in questa pulsione fondamentale, mimetizzato tra le pieghe di una pulsione e di un desiderio più vasti, quel desiderio del femminile ancestrale e innocente, naturalmente e candidamente determinato, che caratterizza il sessuale appetito maschile. Sembra perfino strano che, a questo elementare desiderio mimetico della donna d’altri, sovrapposto al desiderio del femminile e in esso celato, non si trovi alcun riferimento in Kierkegaard, il filosofo che ha scritto le pagine più profonde e interessanti sull’opera mozartiana e sulla struttura del desiderio dongiovannesco. Ma è ovvio che, dopo Girard, sia facile scorgere rapporti mimetici - siamo tutti più scaltriti - nella disamina dei meccanismi relazionali, tanto più se appaiono così marcati, come quando sono sostanziati da un mito.
Kierkegaard riconosce il desiderio dongiovannesco come “demoniaco”, non nella prospettiva etica del comandamento che vieta di desiderare la donna d’altri, ma sulla base di un ragionamento dialettico che pone la “genialità sensuale” come principio: il sensuale puro è demoniaco in quanto contrapposto negativamente allo Spirito, il quale lo pone come suo limite. Nel mondo antico, pagano, il mito di Don Giovanni non poteva darsi, proprio perché il sensuale non si era affermato come principio. Sulla base di questa dialettica, è possibile comprendere il senso dell'affermazione secondo cui con il cristianesimo prende posto nel mondo la “sensualità” come demoniaco. Avendo, cioè, elevato lo spirito a “principio”, il cristianesimo ha anche escluso, da questa assolutezza, il valore del sensuale (o il sensuale come valore); ma, appunto, escludendolo così radicalmente dal suo principio, lo ha anche posto (come momento, sia pur negativo, dell’assolutizzarsi dello spirito) (Kierkegaard 1976, p.128).
La figura del Don Giovanni mozartiano si connota, come abbiamo già detto, attraverso la “genialità sensuale”. Essa prende forma attraverso i tre paradigmatici livelli del desiderio: “sognante”, “cercante”, “desiderante” (Kierkegaard 1976, p. 147 e sgg.). Negli stadi erotici immediati, la “genialità sensuale” ha la sua piena realizzazione nel “desiderio desiderante”: trionfo del desiderio sull’oggetto desiderato e conseguente ripetizione in cui, come in una sorta di eterno ritorno del desiderio, quanto da esso è affermato, goduto, vuol anche tornare, reificarsi, indefinitamente ripetersi.
Gli stadi erotici immediati non hanno una vera e propria progressione dialettica (in senso hegeliano), sia perché essi sono, appunto, immediati (e la dialettica è mediazione), sia perché non sono le tappe che conducono verso la “genialità sensuale”, ma la “metamorfosi” interna al desiderio dongiovannesco, al suo stesso espandersi. Scrive Kierkegaard:
Per altro, se in precedenza ho usato l'espressione “stadio”, e continuerò a usarla in seguito, non bisogna dedurne che ogni singolo stadio esista autonomamente, l'uno fuori dell'altro. Sarebbe stato forse più giusto usare l'espressione “metamorfosi”. I diversi stadi presi insieme costituiscono lo stadio immediato; donde si comprenderà che ciascuno stadio è piuttosto la manifestazione di un predicato, cosicché tutti i precedenti affondano nella fecondità dell'ultimo stadio, essendo questo lo stadio vero e proprio (Kierkegaard 1976, p. 139).
I tre stadi, o livelli, del desiderio corrispondono a tre diverse figure, tratte (in una successione non cronologica, ma solo virtuale) da differenti opere mozartiane: il “sognante”, al Paggio o Cherubino delle Nozze di Figaro; il “cercante”, al Papageno del Flauto magico; il “desiderante”, al Don Giovanni. Quest'ultimo stadio comprende anche i precedenti, i quali, dilatandosi e trasformandosi, sono innalzati a quel grado di pura sensualità che Kierkegaard individua nella figura di Don Giovanni.
Insomma, benché “demoniaca”, la “genialità sensuale” di Don Giovanni appare, nella modulazione della sua metamorfosi interna, del tutto innocente, come naturale inclinazione del desiderio aperto al sogno, alla ricerca, all’affermazione del molteplice femminile.
Abbiamo spesso pensato Don Giovanni come una figura dionisiaca, più che erotica, ritenendo quel suo vitalismo collegabile al Dioniso nietzschiano, a quel dio che, appunto, proclama il desiderio del molteplice e l’innocenza del divenire. Nietzsche ha voluto far credere a un Dioniso innocente e benedicente. L’innocenza del divenire prospettava simultaneamente tanto l’innocenza del dio, quanto quella del filosofo che l’annunziava. E anche noi, giovani ed entusiasti lettori di Nietzsche, partecipavamo di questa riflessa innocenza. Così, non poteva che mostrarsi innocente anche quel desiderio del molteplice che muove la sensualità dongiovannesca. René Girard, su Nietzsche, a tanti di quei giovani lettori ha aperto gli occhi: attenti, come fate a dimenticare che Dioniso è un dio divoratore, fisicamente smembratore, il dio che immola la vittima e poi la dichiara colpevole, il dio per cui, essenzialmente, la vittima è colpevole?
Durante una conversazione con Girard, considerammo che la frase di Nietzsche “la vittima è colpevole”, avrebbe potuto significare non la condanna della vittima, che legittima il carnefice, bensì l’ingiunzione a non vittimizzarsi, a non accettare il ruolo di vittima, ad essere attivi, creatori, eccetera: insomma, una sorta di formula pedagogica che vale a irrobustire le coscienze, a nobilitarle.
A nostro modo di vedere, la formula nietzschiana alzava baluardi in difesa della vittima: solo se si fosse eliminato il senso di colpa, che consente ai carnefici di creare delle vittime, sarebbero venute meno le condizioni di un meccanismo sacrificale. Doveva trattarsi, in sostanza, di trasformare le pulsioni negative, alienanti, del “nichilismo passivo” in quelle liberatorie del “nichilismo attivo”. L’evocazione dello spirito dionisiaco avrebbe fatto da guida in questa direzione. Per noi questa direzione era un’apertura.
A queste e ad altre squisite chiacchiere da giovani nietzschiani, lui sorrideva, con una ironia disincantata che metteva a nudo l’ingenuità di quell’entusiasmo e di quella fedeltà iniziatica. Quella fedeltà che rendeva incapaci di vedere che il gatto si morde la coda.
2. A proposito del desiderio del molteplice e dell’innocenza del divenire, cominciamo con il rilevare che il desiderio dongiovannesco risulta, in tutte le sue manifestazioni, tutt’altro che innocente ed ha a che fare con la morte.
Alcuni critici moderni hanno rilevato che con Don Giovanni il morto entra in scena e l’oscenità della morte viene rappresentata nel suo accostamento all’eros. Questo distinguerebbe lo spirito dongiovannesco dalle altre forme, più superficiali, meno intriganti e meno complesse, di libertinaggio erotico. In quest’ottica, Don Giovanni appare come un eroe benedicente, l’eroe che affronta e accoglie in sé la morte, il suo limite, il suo statuto precario, giustificando fino in fondo il valore esistenziale dell’eros. Com’è eroico tutto questo, nevvero?
Kierkegaard considera giustamente quello mozartiano il Don Giovanni per eccellenza, il più emblematico e significativo. Nell’opera musicale, l’essenziale del dongiovannesco, la genialità sensuale ci affascina, ma in questa fascinazione avviene che ci distraiamo rispetto a talune cose essenziali. Vediamo solo lo strapotere della sua personalità, lo vediamo in primo piano, con la sua voglia di molteplice; e tutto il resto, tutto quel che gli sta attorno e gli fa da contorno, viene in lui assorbito, non conta niente. Come ogni eroe, egli si aggiudica l’attenzione del mondo. È come se esistesse soltanto il suo desiderio e quello, nei suoi confronti, delle donne che gli passano accanto. Come se Don Giovanni fosse l’incarnazione di un uomo che vive in un puro stato di natura, di una natura occupata, oltre che dal suo impeto predatorio, soltanto dalla molteplicità delle sue prede. Di prede ben disposte, lo s’intende, a lasciarsi predare. E anche questo non convince.
1) Nell’opera, la prima donna che incontriamo, Donna Anna, viene ingannata, è vittima di un tentativo di stupro, e insegue indignata e furente il suo violatore.
2) Il padre di Donna Anna, svegliato dalle grida della figlia, viene ucciso da Don Giovanni.
L’opera inizia, cioè, con un doppio rituale sacrificale che è chiaramente indicativo dell’economia dell’erotismo dongiovannesco. Non c’è la donna affascinata dall’irresistibilità dell’eroe, ma una violenza (meditata e organizzata, con tanto di spettatore in Leporello). Il morto c’è, ma solo dopo che si è compiuto il sacrificio di una vittima. Non è la morte interna all’eros, simile a quella evocata in talune concezioni mistico-pagane, alla Bataille, né quella romantica del Liebestod, in cui l’eros si eternizza: è la morte di una vittima che, come in ogni rito sacrificale che si rispetti, viene per giunta definita, dal suo assassino, colpevole. A Leporello che gli fa da coscienza e gli dice: «Bravo! Due imprese leggiadre: sforzar la figlia ed ammazzar il padre», Don Giovanni risponde: «L’ha voluto: suo danno». E quando Leporello gli chiede cosa avesse voluto Donna Anna, la risposta è una minaccia di bastonate, motivo per cui il servo taglia immediatamente il discorso. Leporello lo sa quanto il suo padrone sia un “briccone”, e glielo dice, ma rimane al suo servizio, minacciato, in una complicità il cui peso è, per il servo, lenito dal denaro.
È veramente fantastico il modo in cui gli intellettuali possano diventare ciechi di fronte a verità semplicissime, e come riescano a coprire verità, disarmanti per la loro semplicità, attraverso la costruzione di verità complesse, articolate e prive di senso. Dico questo pensando a quanto la critica letterario-musicologica si sia sbizzarrita sulla figura edipica di Donna Anna, psicanalizzandola, e poi sempre andando a parare sul fatto che in fondo quel che inconsciamente desiderava era farsi stuprare da Don Giovanni.
Ma Donna Anna ha un fidanzato, Ottavio, il quale in tutte le interpretazioni critiche non fa altro che la figura del babbeo. Eppure Don Giovanni si era introdotto in casa di Anna mascherato e sotto le sue sembianze, facendo finta di essere Ottavio. Non è importante questo triangolo? Ottavio è solo uno sciocco che promette poco credibili vendette?
Per noi è importante riconoscere che il triangolo mimetico incombe nei meccanismi nascosti del desiderio: si desidera una donna in quanto è desiderata da un altro, e questi, desiderandola, suggerisce che è degna di essere desiderata. Questo altro, che conforma il desiderio, è complice e rivale, modello ed ostacolo. Ogni desiderio nasce da un suggerimento. Per Don Giovanni, nel suo rapporto con il femminile, è fondamentale che ci sia un terzo, un modello-rivale, con cui il suo desiderio deve confrontarsi: perché quello di Don Giovanni, piaccia o meno alle anime romanticamente inclinate, è un desiderio sfacciatamente mimetico. Eppure, nessun Don Giovanni, neanche in piccolo, potrà mai ammetterlo: non si rinunzia all’originalità del sentire.
3. Il Comandamento è terribile, va direttamente all’essenziale: “Non desiderare la donna d’altri”. Scomodo e problematico, al punto che, anche tanti cristiani, ci passano su con aria di sufficienza. Mentre, per molti neo-pagani, anche questo, come altri Comandamenti, è espressione dei limiti evidenti della cultura ebraico-cristiana, limiti di un’etica repressiva. Questa interdizione, questo tabù, esprimerebbe la debolezza che caratterizza tale cultura, la negazione e la condanna della forza di ogni principio vitale, una visione risentita di quella dimensione pulsionale in cui trionfano i più puri istinti naturali. Fosse il comandamento: “non desiderare la donna”, allora avremmo tutte le ragioni per sospettare la debolezza di un’imposizione che condurrebbe verso ambigue sublimazioni dell’istinto. Fosse questo, sarebbe la formula di una prassi ascetica. Sarebbe come una di quelle vie buddiste che conducono alla liberazione dal desiderio, in se stesso considerato, se non peccaminoso, quanto meno alienante. Ma il Comandamento non è questo: quel che non bisogna fare non è desiderare la donna, non bisogna desiderare la donna “d’altri”. La differenza non è una semplice sfumatura del desiderio, ma l’indicazione di un vero e proprio “ostacolo”. Se desideriamo la donna d’altri, siamo, per l’altro, ostacolo, siamo la sua pietra d’inciampo, siamo scandalo.
Viviamo in un mondo pieno zeppo di donne “d’altri”, bellissime, affascinanti, desiderabilissime. E tanto più esse sono desiderabili, in quanto non sono nostre e sono “d’altri”. Cosa c’è di più vitale, che predare la donna di un altro? L’abbiamo conquistata, sottomessa, almeno in senso letterale, e godiamo del suo corpo. Il nostro piacere spadroneggia, esaltato ed estasiato al pensiero che, mentre dovrebbe goderne un altro, ne godiamo noi. Sentimentalmente distaccati (perché la donna d’altri rimane d’altri, non vogliamo innamorarcene, non è questo che c’importa), in questo distacco dell’anima, in questo dominio del corpo sul corpo della donna d’altri, in quest’attacco predatorio in cui vige la legge del più forte, l’azione solletica sullo sfondo il nostro, pur celato, senso di onnipotenza. Un’altra preda è al nostro attivo, un altro spazio vitale è conquistato, un’altra femmina che attraverso la copula può, almeno simbolicamente, prolificare per noi, continuare la nostra specie e non quella dell’altro, può farci sopravvivere, non farci morire del tutto. Siamo dei poveri animali ed abbiamo paura.
C’è un equivoco e un’illusione nel pensare che il principio di piacere sia del tutto autonomo. Ci illudiamo che sia questo principio a regolare naturalmente le nostre esistenze, che questa sia la nostra inclinazione secondo natura. Tendiamo ad ottenere piacere perché ciò a cui siamo indirizzati e ciò che ci spinge ad agire è il piacere stesso. Movente e fine dell’esistenza. Lo diamo per assunto, raramente lo mettiamo in discussione. In realtà, questo principio non è che una delle molteplici strategie di quell’organizzazione del mondo animale di cui l’uomo è partecipe. Ciò che muove e indirizza, altro non è che la conservazione della specie. Ogni forma di piacere è una forma che consente l’affermazione del principio di auto-conservazione. Il piacere di possedere la donna d’altri maschera la tendenza dell’animale maschio a prevalere sull’altro maschio per aggiudicarsi il corpo della femmina che, attraverso l’accoppiamento, gli garantisce una riproduzione, cioè il modo di continuare a vivere nel tempo. Più femmine ci sono con cui accoppiarsi, maggior forza avrà la continuità del maschio nel tempo a venire. Il dongiovannismo è una celata questione di economia naturale. Dietro l’edonismo dongiovannesco (“viva le femmine, viva il buon vino”), c’è questa umanissima, patetica, paura di morire.
Don Giovanni vorrebbe dimostrare, prima di tutto a se stesso, esattamente il contrario: di non aver paura. È a cena, ad una tavola riccamente imbandita, con una bottiglia di “eccellente marzemino” e aspetta il Commendatore (la morte) in un atteggiamento di sfida esaltata. La morte sta per arrivare e lui continua a godersi la vita e ad affermare pienamente il valore della sua scelta radicale. Deve dimostrare, di fronte alla morte, di non aver sbagliato, di aver seguito fino in fondo la strada giusta: il principio del piacere e l’affermazione dell’autonomia di questo principio. Lo afferma senza intellettualismo alcuno, continuando ad avvalorare il piacere nella sua immediatezza. Il Commendatore (la morte) gli comanda il pentimento che Don Giovanni rifiuta. Muore, affermando il piacere. Muore: il piacere è finito. Don Giovanni è finito. Ha mostrato di non aver paura? Semplicemente, naturalmente, è morto. Di fronte alla morte, si fa quel che si può. Bisognerebbe capirlo prima di giungere alla fine che il piacere non è un dio assoluto, liberatore, ma il demonietto che gioca con la nostra inconscia paura di essere animali.
Don Giovanni ha una spavalderia cieca, che gli proviene dal suo essere totalmente immerso entro la dimensione naturale del puro sensuale, che forgia il suo istinto predatorio. E a “non desiderare la donna d’altri” si va contro natura, lo ammettiamo. È questo a ben guardare: tutti i comandamenti non tengono in gran conto la natura. La natura giustifica ogni egoismo, mentre lo Spirito sta in noi, sempre, dalla parte dell’altro.
Il riconoscimento dell’altro, a cui lo Spirito ci chiama, segna il passaggio dall’estetico, dai sensi, all’etico, in cui l’altro non è più la preda, ma il volto da riconoscere e di cui prendersi cura. Ed è in questo salto che Don Giovanni si dissolve, non ha più consistenza. Nella cura dell’altro, Don Giovanni svanisce, ci saluta.
Bibliografia
S. Kierkegaard: (1976), Gli stadi erotici immediati, ovvero il musicale-erotico, in Id., Enten-Eller, I, a cura di A. Cortese, Adelphi, Milano.
R. Girard (2009), Mito e antimito. Il terremoto in Cile di Kleist, in M.S. Barberi (a cura di), Catastrofi generative. Mito storia, letteratura, Transeuropa, Massa.
- (1965), Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del desiderio nella letteratura e nella vita, trad. it. di L. Verdi-Vighetti: Bompiani, Milano.
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