1. Che cos'è il liberalsocialismo? È la proposta teorica e politica che pretende di "mettere insieme" – mi si passi l'espressione volutamente generica – liberalismo e socialismo, le libertà individuali e la redistribuzione tendenzialmente egualitaria delle risorse collettive. È insomma il tentativo di coniugare in una dottrina politica e in una visione della società i due valori politici della libertà e dell'eguaglianza. Ovviamente si può procedere da una prospettiva che consideri valore supremo la libertà individuale da integrare o correggere con una misura di eguaglianza (liberalismo sociale o socialista) o, in direzione contraria, da una che assegni la priorità all'eguaglianza senza che ciò avvenga a discapito della libertà individuale (socialismo liberale). Infine si può pensare ad una commistione paritaria, ad una perfetta sintesi tra liberalismo e socialismo meglio espressa appunto dal termine "liberalsocialismo", anche se, come osserva Virgilio Mura, «qualunque sia il punto di partenza – dal liberalismo verso il socialismo, dal socialismo verso il liberalismo – e qualunque sia il composto lessicale che scaturisce dalla possibilità di molteplice combinazione della diade, il significato generale dei termini e delle espressioni comunque non cambia»[1]. In ogni caso, neppure i dilemmi di fondo che riguardano il liberalsocialismo cambiano: si tratta di una sintesi praticabile e auspicabile, o praticabile ma non auspicabile? O si tratta di un «ircocervo» (Croce), di un ossimoro teoricamente inconsistente la cui realizzabilità tuttavia sarebbe auspicabile? O ancora, di un costrutto teorico non solo stravagante e irrealizzabile ma anche nient'affatto desiderabile?
Bastano queste poche osservazioni per arguire come la fortuna – per certi versi, la sfortuna – del liberalsocialismo, nelle sue molteplici sfaccettature teoriche e nelle sue differenti tradizioni nazionali, sia stata già più volte raccontata e analizzata. A mio giudizio, l'opera italiana cui rimandare per una ricostruzione storico-analitica di tali vicende resta I dilemmi del liberalsocialismo (cfr. n. 1). Si tratta in ogni caso di vicende in itinere, visto che non mancano filosofi e scienziati sociali che in qualche modo ancora oggi si possono considerare esponenti di una qualche declinazione del liberalsocialismo. A titolo di esempio, si pensi a Rawls, o a Dahrendorf, in qualche misura a pensatori quali Habermas, Sen e Walzer; in Italia, a Bobbio e agli studiosi che ne hanno ripreso criticamente la lezione[2]. Della vicenda del "liberalsocialismo" è tutt'al più rinvenibile un punto di partenza nella seconda edizione dei Principi di Economia politica (1849) di J.S. Mill, anche se forse si potrebbe risalire ancora qualche anno indietro[3].
Dicevo poc'anzi che forse sarebbe meglio parlare, soprattutto in Italia, di sfortuna piuttosto che di fortuna del liberalsocialismo. Nel secondo dopoguerra il Partito d'Azione che faceva proprie le istanze liberalsocialiste fu (e fu bollato come) un partito di intellettuali senza alcun radicamento popolare e rapidamente scomparve dalla scena politica. Tuttavia le idee in senso lato (o in senso debole) liberalsocialiste sono quelle che in Italia e in Europa hanno innervato la costruzione delle democrazie costituzionali seguite alla sconfitta del fascismo e del nazismo e pensate proprio per essere antitesi e antidoto ai regimi totalitari. Per provare a spiegare quest'apparente contraddizione mi pare utile la distinzione avanzata da Michelangelo Bovero tra due forme o livelli di liberalsocialismo – "minimo" e "massimo" – che vengono rispettivamente descritti in questo modo:
«Il primo […] è il liberalsocialismo per la democrazia: la realizzazione del suo programma pone le precondizioni per lo svolgimento corretto del gioco democratico, per la concorrenza equa tra tendenze politiche differenti, e quindi per la normale dialettica tra maggioranze e minoranze e tra governo e opposizione, su cui si fonda l'esercizio legittimo del potere»;
«Il secondo […] è il liberalsocialismo nella democrazia: il suo programma dovrebbe essere quello di un partito o di un movimento che vuole assumere un proprio peculiare ruolo, in competizione con altri, nell'arena politica democratica»[4].
Nella Costituzione dell'Italia repubblicana il liberalsocialismo minimo – quello che si può definire come la somma e la coniugazione dei diritti di libertà e dei diritti sociali – ha vinto. Una vittoria parziale e non definitiva, sottolinea ancora Bovero, e mai quanto oggi sotto attacco da parte di un capitalismo selvaggio, come di seguito apparirà più chiaro. Come liberalsocialismo massimo, ossia come programma di un partito o movimento politico che avanza proposte più avanzate soprattutto sul versante dell'eguaglianza, ha invece perso. Ma per intendere meglio le ragioni di quest'ennesimo apparente paradosso ripercorriamo per cenni parte della vicenda storica del liberalsocialismo italiano.
2. Per comprendere l'origine e il significato del liberalsocialismo italiano – nato, lasciando da parte quel precursore solitario che fu Francesco Saverio Merlino, tra intellettuali e filosofi apertamente antifascisti quali Piero Gobetti, Carlo Rosselli, Guido Calogero, Aldo Capitini e Piero Calamandrei[5] – è forse utile ripartire dalla discussione tra Benedetto Croce e Luigi Einaudi sulla natura del liberalismo, che porta alla distinzione tutta italiana tra quest'ultimo e il liberismo.
Soffermiamoci su due brevi scritti di Croce, intitolati rispettivamente Il presupposto filosofico della concezione liberale e Liberismo e liberalismo, entrambi compresi in Aspetti morali della vita politica (1927-28). Il liberalismo, afferma Croce, non va fatto coincidere con il liberismo, per quanto quest'ultimo condivida il medesimo presupposto filosofico della "concordia discorde". Le difficoltà sorgono, per Croce, quando al liberismo, che si ispira al principio della libera concorrenza del mercato ed è dunque un principio strettamente economico, si vuole conferire "il valore di legge sociale", perché in tal caso si stravolge il fine liberale dell'elevazione morale dell'uomo riducendolo a una forma di gretto utilitarismo, ovvero alla competizione per beni esclusivamente materiali, o ancora più chiaramente, all'accumulazione individuale della ricchezza e dei piaceri che con essa si possono soddisfare.
Il liberalismo è una prospettiva sul mondo, il liberismo è solo una visione dell'economia che va subordinata alla più ampia visione etico-sociale del liberalismo. La religione della libertà non può insomma ridursi alla religione del mercato. In questo senso, all'interno di una visione liberale del mondo etico-politico si possono prendere anche provvedimenti contrari al liberismo economico. Ad esempio, tutta la legislazione a tutela del lavoro operaio era certamente contraria ai principi del liberismo, ma era – sostiene Croce – propriamente liberale, in quanto favoriva l'elevazione morale dell'individuo e della società. Croce si spinse ad affermare che se si dimostrasse che il capitalismo danneggia la produzione sociale della ricchezza, sarebbe liberale abolire la proprietà privata! Questo non significa che il liberalismo crociano cercasse di trovare un punto di saldatura con il socialismo – perché le due dottrine erano del tutto inconciliabili a proposito del valore di fondo: per il primo, la libertà, per il secondo, l'eguaglianza: poteva però considerare seriamente le critiche socialiste alla disumanità dei rapporti sociali generati dalla prospettiva liberista e utilitarista, vale a dire da un capitalismo che assumesse "il valore di legge sociale" fondamentale, e ritenere che tra i modi di realizzare l'etica o religione del liberalismo vi fosse anche quello di porre limiti al liberismo economico.
A sostegno del liberismo interviene ripetutamente Luigi Einaudi. Egli riconosce il carattere subalterno dell'economia nei confronti dell'etica, si proclama innanzitutto liberale e condivide le aperture crociane verso le istanze socialiste, respingendo però l'idea che tra gli economisti seri vi siano mai stati liberisti secondo la definizione data da Croce. Gli economisti "liberisti" sanno benissimo che altre forze insieme all'economia concorrono a definire le scelte pubbliche e che il puro laissez faire è una chimera: pertanto non pretendono di elevarlo a legge fondamentale della società. Tuttavia, proprio assumendo un atteggiamento pragmatico e non ideologico si scopre quasi sempre, secondo Einaudi, che la risposta liberista è non solo quella alla fine più razionale ed efficiente, ma anche quella che storicamente corrisponde meglio e realizza il liberalismo così come lo stesso Croce lo intende.
Tuttavia lo stesso Einaudi riconosce l'esistenza di un tipo di liberismo che definiva religioso, quello di chi ha fanaticamente sposato l'abolizione di ogni vincolo all'iniziativa economica come fede assoluta. Così intesa, la libera iniziativa economica può giungere a considerare un ostacolo da rimuovere le altre libertà, ovvero i diritti della persona, politici e sociali. Con accenti diversi e mediante un linguaggio ben più acceso, anche il giovanissimo Piero Gobetti, pur convinto assertore di una "rivoluzione liberale" che inneggiava al conflitto delle idee come fattore di progresso e ammetteva solo l'aristocrazia del merito contro ogni forma di parassitismo e statalismo, sostiene che ad incarnare il più genuino spirito liberale non fosse la borghesia proprietaria ed imprenditrice, ma la classe operaia che intransigentemente conduceva una concreta lotta per la libertà.
3. In tempi di capitalismo selvaggio, rileggere questo dialogo produce una sorta di straniamento prospettico, di "sogno o son desto?": Croce ed Einaudi, entrambi liberali conservatori e critici severi del socialismo, sembrano concordare su ciò che Bovero ha definito «liberalsocialismo minimo»! Ma è anche probabile che il liberalsocialismo di Rosselli e Calogero fosse, come programma politico, più esigente. E in effetti l'operazione teorica e politica fu quella di introdurre non tanto elementi di socialismo nel liberalismo quanto elementi di liberalismo nel socialismo. Per ragioni di spazio mi concentro sulla versione più lineare di tale operazione, quella che incontriamo nel libro di Carlo Rosselli Socialismo liberale (1930).
La riflessione che porta il socialista Rosselli a definire la sua posizione come "socialismo liberale" muove da una dura critica all'ortodossia marxista. Tale critica si articola in tre punti: a) la riduzione di tutta la vita individuale e collettiva al momento economico, ai bisogni materiali, unica vera "struttura" delle relazioni e dell'agire sociali, di cui tutte le altre manifestazioni umane (diritto, politica, arte, letteratura ecc.) sarebbero "sovrastruttura", cioè forme che riflettono e si spiegano solo attraverso l'analisi dei rapporti economici tra classi sociali, costituisce una forma di realismo abnorme che paradossalmente impedisce di analizzare il mutamento sociale concreto, ovvero i livelli e le interazioni assai più numerosi e complicati che costituiscono la rete in continua trasformazione dei legami e dei conflitti propri delle società moderne; b) se, come afferma deterministicamente il marxismo, i grandi mutamenti strutturali, cioè il passaggio da un sistema di produzione economico ad un altro, dipendono dal realizzarsi storicamente necessario di condizioni che prescindono dalle volontà e dalle azioni dei singoli uomini, allora questi ultimi risultano soggetti passivi, completamente privati della loro personalità e responsabilità morale e civile, ivi compresa quella di agire avendo come fine quella rivoluzione che dovrebbe farne uomini davvero liberi; c) pertanto il marxismo cade in un autoinganno ideologico che gli impedisce di riconoscere la sua natura sovrastrutturale e si considera contraddittoriamente la sola imperitura ed immodificabile forma di socialismo "scientifico", in quanto pretende di aver compreso una volta per tutte le leggi necessarie dell'economia e della società e di poterne prevedere i futuri sviluppi, primo tra tutti la disintegrazione del sistema di produzione capitalistico a causa delle sue interne contraddizioni.
Secondo Rosselli l'ortodossia marxista, bollando il liberalismo come borghese e alimentando la falsa speranza della rivoluzione come inevitabile, diventa suo malgrado il nemico interno dei proletari, della parte più debole della società, e di conseguenza una sorta di alleato della borghesia al potere: «il marxismo non è più ai giorni nostri una forza benefica […] oggi la sua influenza si è fatta deviatrice e diseducatrice. Deviatrice, perché aggancia le fantasie e i cervelli ad una realtà di fatto superata; diseducatrice, perché fa appello ad una concezione volgare della vita, a moventi d'ordine inferiore – tipici di masse cui sia ancora preclusa ogni luce spirituale – in antitesi assoluta a quelli che una società socialista presuppone. Evocato il demone utilitario, non riesce a scacciarlo: più se ne vale e più schiavo si fa. Il demone corrompe i proletari, annulla gli sforzi liberatori, imborghesisce – nel senso peggiore della parola – il movimento imprigionandolo progressivamente nelle posizioni avversarie»[6].
Ridurre la complessità dei mutamenti storici e sociali al materialismo dialettico, alla lotta tra le classi, impedisce inoltre di comprendere le origini profonde del fascismo e di opporvisi con la necessaria intransigenza. Spiegare la dittatura fascista come reazione borghese alla lotta proletaria è cogliere solo la superficie del fenomeno, che ha invece radici e alimento nel carattere nazionale degli italiani, nella loro psicologia collettiva: «gli italiani sono pigri moralmente, c'è in loro un fondo di scetticismo e di machiavellismo di basso rango che li induce a contaminare, irridendoli, tutti i valori […]. L'intervento del deus ex machina, del duce, del domatore – si chiami esso papa, re, Mussolini – risponde sovente a una loro necessità psicologica»[7]. In questo senso il fascismo è, come già aveva scritto Gobetti, l'autobiografia della nazione, cioè manifestazione acuta di una malattia cronica che va combattuta prima ancora che sul piano politico su quello pedagogico e morale, educando le nuove generazioni al confronto aperto e leale delle idee anziché al conformismo e al servilismo.
4. Alla prospettiva deterministica della pseudo-scienza marxista della società Rosselli oppone il socialismo inteso come «lo sviluppo logico, fino alle sue estreme conseguenze del principio di libertà»[8]: vale a dire, il socialismo è quella forma di liberalismo che si prende fino in fondo sul serio, assumendo su di sé anche l'onere teorico e politico della riflessione sulle condizioni materiali che di fatto impediscono alla stragrande maggioranza degli individui di godere di quelle libertà che la dottrina liberale in astratto attribuisce a tutti gli individui in quanto tali. Così inteso, il socialismo liberale si configura – afferma Rosselli – come «una sorta di patto di civiltà che gli uomini di tutte le fedi stringono tra loro per salvare nella lotta gli attributi della loro umanità. Per quanto non sia suscettibile di definizione rigida, si può dire che si concreti nel principio della sovranità popolare, nel sistema rappresentativo, nel rispetto dei diritti delle minoranze, nel solenne riconoscimento di taluni diritti fondamentali della persona definitivamente acquisiti alla coscienza moderna (libertà di pensiero, di riunione, di stampa, di organizzazione, di voto ecc.), nel rinnegamento esplicito del ricorso alla violenza»[9].
Partendo non tanto dalla critica al marxismo ma dall'ibridazione tra posizioni idealistiche e etica cristiana questi temi vennero ripresi da Guido Calogero nel Manifesto del liberalsocialismo (1940), che inizia dichiarando come alla base del liberalsocialismo vi sia l'idea della «sostanziale unità e identità della ragione ideale», che fonda e giustifica tanto il socialismo nella sua esigenza di giustizia quanto il liberalismo nella sua esigenza di libertà. Tale ragione ideale – superiore e astorico criterio di misura della civiltà – consiste nel riconoscere «le altrui persone di fronte alla propria», assegnando loro «un diritto pari al diritto proprio» ed indica pertanto all'umanità come plausibile e praticabile la via della compenetrazione tra giustizia e libertà.
In qualsiasi sua forma – minima o massima, di ascendenza marxista o idealista – il liberalsocialismo appare oggi un pensiero inattuale e, al tempo stesso, tremendamente attuale. L'architettura delle democrazie costituzionali che il liberalsocialismo ha contribuito a disegnare sta assorbendo nelle sue pratiche, sotto la spinta poderosa delle molteplici "globalizzazioni", il virus letale della confusione dei poteri sociali, e, nei casi peggiori, di un bonapartismo grottesco, della fede cieca nell'uomo della provvidenza – un virus che si esprime nella corruzione della sfera pubblica, nell'affarismo criminale e nelle più viete pulsioni razziste e xenofobe. Insomma, l'esatto rovescio di quel patto di civiltà vagheggiato da Rosselli. Ma proprio per questo il liberalsocialismo potrebbe essere il bagaglio teorico più efficace per praticare un'opposizione radicale capace innanzitutto di riconoscere e mettere a nudo la nostra progressiva fuoriuscita da quella che Bobbio aveva chiamato «l'età dei diritti».
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