1. La svolta democratica nel dopoguerra di alta solidarietà sociale per il Mezzogiorno d'Italia
Ugo La Malfa fu uno dei protagonisti politici più incisivi e determinanti dell'Italia del Novecento, un personaggio straordinario ed «esponente molto importante di una cultura laica e di una tradizione che un tempo si definivano "mazziniane"»[1]. La Malfa non fu mai rappresentante di una grossa forza politica. Proveniva dal Partito d'Azione e nel 1946 aderì al Partito Repubblicano (PRI), di cui divenne segretario nel 1965. Nonostante la sua posizione politica fosse minoritaria, ciò non gli impedì di raggiungere vasti consensi, di interloquire, da pari a pari, con i leader delle maggiori forze politiche, né di non contare su alcune delle decisioni politiche più importanti come in effetti contò. La sua grande opera di statista tecnocrate, rivolta alla riforma della società e all'efficienza dello Stato per costruire un futuro nuovo e migliore, ha indubbiamente influito nella storia della Repubblica italiana fino alla fine degli stessi anni Novanta.
Il suo discorso politico – tessuto di rigoroso realismo e di vigore della visione politica alimentata da una profonda conoscenza della storia –, i suoi scritti e le sue battaglie politiche – votate all'ideale crescita della giovane democrazia politica verso l'attuazione di progetti risolutivi, come l'unificazione delle "due Italie", lo sviluppo del Mezzogiorno e l'integrazione in Europa – si sono posti come punto di forza, una "forza morale", rigeneratrice e attiva contro l'arretratezza strutturale e sociale, e "l'inerzialità" del sistema politico che, in quella stagione storica, era debole alle problematiche emergenti nel Paese.
Per La Malfa "democrazia" significava non soltanto un regime di libertà politica, ma anche un certo tipo di governo di un Paese e della società, con responsabilità di adottare e far valere, soprattutto nelle aree territoriali più svantaggiate e depresse, i principi di "giustizia sociale" riguardanti l'equità e il rispetto dei diritti umani, la solidarietà e la coesione economica e sociale. Ciò rappresentava una visione della società italiana nutrita di un complesso valoriale molto ricco che La Malfa attingeva dall'eredità di Mazzini e di Giovanni Amendola, l'ultimo dei grandi uomini di Stato dell'Ottocento italiano. Amendola, nel giugno del 1925, in occasione del Congresso costitutivo dell'Unione nazionale democratica, una organizzazione politica sostenuta dal quotidiano il "Mondo", aveva indicato nel giovane La Malfa l'erede della nuova formazione politica italiana. Quel filo, poi, fu ripreso dallo statista e articolato con riflessioni moderne sulla crisi della democrazia e sul riformismo democratico[2].
La sua origine meridionale, condizionata dal dramma della sofferenza, della povertà e del degrado, incise nella formazione dei suoi valori ideali, tanto che, in fase più matura, la sua azione politica sarà improntata all'esercizio di una vera e propria questione morale e civile della vita pubblica italiana. Senza dubbio il problema del superamento della condizione di arretratezza del Mezzogiorno egli lo sentì come se fosse una questione personale.
La formazione culturale e scientifica di La Malfa – che poi maturerà nella scelta per gli studi giuridici all'Università Ca' Foscari di Venezia – fu paragonabile a quella degli intellettuali del Mezzogiorno che lasciavano la loro terra per andare a studiare o a lavorare in altre parti del Paese, recando nel proprio animo il riscatto morale di quella condizione di povertà. Nasceva qui la sua battaglia per il "Mezzogiorno nell'Occidente", che egli stesso, in seguito, indicherà come la prospettiva per la risoluzione della "questione meridionale". Il suo carattere, temprato di fermezza e caparbietà, di tenacia e di valore intellettuale, gli permetterà di far parte, idealmente, di quei "cento uomini d'acciaio" che Guido Dorso aveva auspicato per l'avvio della "rivoluzione" meridionale. E su questo tema è significativo ricordare una splendida pagina dell'ineguagliabile libro Il Risorgimento in Sicilia scritto nel 1950 dal grande storico Rosario Romeo che aveva lasciato da giovane la Sicilia.
«Ormai, la distanza che separa i siciliani di più matura coscienza culturale dalle proprie memorie regionali è assai maggiore che non per i lombardi o toscani o napoletani ecc., i quali nei grandi fatti e valori della storia nazionale ritrovano, approfonditi e potenziati i fatti e valori medesimi delle loro particolari tradizioni. Ed è questa, in fondo, l'origine dell'anelito dei migliori dei giovani siciliani verso il Nord, dove essi ricercano non solo, come si ritiene dai più, maggiori possibilità economiche, ma anche un ambiente e un ritmo di vita che meglio rispecchi la loro nuova coscienza e realtà interiore, che è italiana e non più siciliana: anche se questo anelito ha una sua parte di responsabilità in quella "patologia di dissanguamento" della vita regionale che è stata acutamente analizzata dall'Omodeo».
Palermo, dunque, per ritornare alle origini dell'illustre statista, fu la città dove Ugo La Malfa nacque, il 16 maggio del 1903, da una famiglia di modeste condizioni. E Palermo, la città-giardino, dove egli visse negli anni della sua difficile giovinezza, era una città densa di contraddizioni: analfabetismo, mala vita organizzata, ma anche grande centro di intelligenza e di cultura, come la Biblioteca Filosofica di Gentile (1910), ricca di idee forti, con una piccola borghesia cosmopolita e intraprendente, debole nelle istituzioni, oscillante tra l'aspirazione verso il modernismo occidentale – come dimostravano le elevatezze architettoniche del grande Ernesto Basile, di Giovanni Rutelli e di Michele Utveggio – e la sofferenza dei suoi quartieri più poveri, distaccata, tuttavia, dai processi nazionali di sviluppo economico.
Leonardo Sciascia ricordava come «Palermo [fosse] allora una piccola capitale del liberty: già prima che questo nuovo stile si affermasse in Europa gli architetti e gli artigiani palermitani ne avevano qualche presentimento […] dalle imperanti linee neoclassiche»[3].
Secondo La Malfa, la base del sottosviluppo meridionale risiedeva nella mancanza di moderni sistemi idrici ed elettrici che avrebbero risolto il problema dell'agricoltura e costituito «la forza motrice per l'industrializzazione»[4] nel Meridione. La carenza di acqua connotava il Meridione oltre che strutturalmente, anche di «immagine», perché innestava, come affermò Giustino Fortunato, «un senso di indicibile turbamento»[5] e di isolamento. La Malfa più volte ricordò come la Sicilia fosse "un'isola deserta" dalla quale egli stesso aveva preferito fuggire. Purtroppo, i grandi progetti di modernizzazione idroelettrica – voluti dall'ingegnere Emirico Vismara, dell'ambiente milanese, legato alla tecnocrazia idroelettrica di Nitti e dal piemontese Umberto Zanotti Bianco, fervido mazziniano e grande meridionalista – furono bloccati dal fascismo e dai settori dominanti della società siciliana.
Così, la Sicilia ed il Mezzogiorno – che vantava un passato glorioso, quale era stata la grande tradizione illuministica del Regno di Napoli della civiltà dell'Occidente – costituirono la trama essenziale dell'impegno civile di Ugo La Malfa. Egli comprese bene la realtà di quei problemi meridionali: «Gli amici mi hanno fatto vedere i quartieri popolari di Foggia: vicoli quasi senza luce, case senza fognature e bambini per le strade, denutriti e scalzi. […] Andate a Palermo: nei quartieri, come del resto a Napoli, colpiti dai bombardamenti, vi è un'enorme massa di povera gente»[6].
Tutto ciò divenne, per La Malfa, un inquadramento metodologico per la sua azione riformatrice laica, a tutela degli interessi sociali e civili, poiché il potere politico, con la corresponsabilità della classe imprenditoriale e dei sindacati, dimostrava la sua debolezza operativa.
In una lettera a Indro Montanelli del 7 ottobre 1978, La Malfa scriveva: «Sono nato in Sicilia, cioè in una delle terre depresse di quel Mezzogiorno del quale quasi ogni giorno questa democrazia continua a parlare senza pressoché nulla concludere. E di quella depressione ho vissuto da giovane tutti i drammatici aspetti, i sacrifici, le sofferenze, gli sforzi di sopravvivenza che essa comporta. Una condizione che, dal punto di vista intellettuale e morale, prima che materiale, mi avrebbe potuto portare a prendere una posizione politica estrema. Invece scelsi di lottare per la democrazia». In queste parole si trova racchiusa tutta l'onestà intellettuale di un uomo, improntata al rispetto della propria coscienza, che reagì con estrema intelligenza e con grande fermezza di carattere all'esperienza di mortificazione che quel sottosviluppo aveva inflitto a tanti meridionali come lui, convinto che l'unica possibilità di riscatto per l'Italia fosse quella di guardare al modello delle grandi democrazie occidentali, al sogno di una "democrazia repubblicana matura" e di un'Italia integrata democraticamente in un sistema europeo come "nuova realtà sovranazionale", dove il Meridione avrebbe riscattato la sua cronica depressione. Leo Valiani aveva ricordato come La Malfa non fosse mai venuto meno alla convinzione che l'avvenire politico degli Stati sarebbe stato quello delle democrazie nelle società industrializzate e post moderne.
Così, il meridionalismo di Ugo La Malfa assumeva un confronto di alto respiro etico rispetto al meridionalismo tradizionale, puramente protestatorio e rivendicativo delle trascuratezze strutturali e dei torti subiti dal Sud-Italia a causa del Governo Sabaudo. La Malfa, invece, si appellava al "senso di giustizia", alla parità dei diritti democratici, propri dell'era repubblicana. «Oggi noi chiamiamo il Mezzogiorno terra depressa: è una parola nuova, parola moderna […] Per me "aree depresse" non è soltanto un termine tecnico. Vi è un contenuto di sofferenze, di aspirazioni di giustizia, di comprensione della sofferenza umana, che deve colmare quell'espressione»[7].
Nella storia politica italiana della seconda metà del Novecento, un convincimento valoriale della giovane democrazia fu quello di ritenere che tutti i cittadini avessero il diritto di perseguire individualmente il proprio benessere, la propria felicità. Il principio di "giustizia sociale" si avvalse di due possibili interpretazioni di base: una liberale, secondo cui lo Stato doveva garantire l'unicità dei punti di partenza, affidando al merito e all'impegno individuale la responsabilità di stabilire i punti di arrivo; e l'altra comunista, secondo cui lo Stato doveva garantire l'unicità dei punti di arrivo, perché non tutti i cittadini sarebbero stati dotati di pari opportunità, pur avendo pari diritti.
La concezione socialdemocratica si pose come punto di equilibrio tra i due estremi, dal momento che, partendo dalla impossibilità pratica di garantire l'unicità dei punti di partenza, si assegnava allo Stato il compito di correggere i punti di arrivo con il principio di "giustizia sociale". La Malfa integrò la concezione socialdemocratica con quella liberale, formando una cultura di governo liberaldemocratica. Egli ritenne fondamentale determinare sia la necessità dell'intervento statale per correggere le disparità dei punti di arrivo – disparità consistenti nell'avere dei cittadini di uno stesso Paese destinati a patire in via permanente sorti comparativamente peggiori – sia considerare il carattere economico della libera concorrenza di mercato aperto in Europa, dove lo Stato avrebbe avuto un ruolo dirigista finalizzato al progresso civile e allo sviluppo economico del Paese, per garantire una frontiera minima di benessere per tutti: la dotazione dell'istruzione pubblica, la ricerca scientifica, l'occupazione lavorativa, lo sviluppo ambientale, la tutela della salute e della vecchiaia "protetta", un razionale controllo dei consumi individuali, il welfare "responsabile" di La Malfa. Così lo statista e l'intero gruppo politico dirigente stabilirono, con la firma del Trattato di Roma, nel 1958, l'atto costitutivo del Mercato Comune Europeo.
2. La "liberalizzazione degli scambi" commerciali con l'estero e la Nota Aggiuntiva
Ugo La Malfa, in qualità di Ministro del Commercio con l'estero, con il VII Governo De Gasperi, nell'agosto del 1951, recò un contributo decisivo alla ricostruzione e modernizzazione dell'Italia, attuando la "liberalizzazione degli scambi" commerciali e l'apertura delle frontiere del nostro commercio con l'estero, nel quadro prospettico di una più vasta collocazione globale.
La Malfa, tuttavia, si interrogava se la nuova Europa dovesse divenire finalmente quel luogo politico, economico e culturale in cui dissolvere i contrasti nazionalistici nell'ottica del bene comune di pace e di prosperità tra i popoli, sussistendone la cooperazione civile ed economica, oppure se dovesse essere una difesa avanzata nel contesto della "guerra fredda" tra USA e URSS dopo il secondo conflitto mondiale. Si trattò, in ogni caso, di una delle riforme più brillanti, più lungimiranti di La Malfa, di significativo prestigio politico, grazie a cui furono messe in moto importanti operazioni di investimento su scala nazionale ed europea. E ciò fu dovuto soprattutto al tessuto di conoscenze che La Malfa aveva acquisito nell'Ufficio Studi della Banca Commerciale di Raffaele Mattioli a Milano, negli anni Trenta. Quel luogo, la Comit, fu per lui un "osservatorio" che gli permise di valutare concretamente i problemi dell'economia italiana e gli orizzonti dell'alta finanza internazionale.
L'iniziativa politica si pose all'avanguardia del processo di internazionalizzazione nell'Europa occidentale, cambiò il destino dell'Italia e la orientò verso la rinascita. Così, vennero aboliti i contingentamenti all'import-export e ridotti del 10% tutti i dazi doganali, furono ridotte le barriere quantitative nei confronti dei Paesi dell'OECE (Organizzazione europea Cooperazione economica, 1948-1960), costituita di sedici Stati europei, con l'adesione degli Stati Uniti e del Canada, e con l'obiettivo di coordinare gli aiuti economici in Italia previsti nel piano Marshall.
La liberalizzazione favorì il "boom economico" in Italia, e rese possibile la grande esplosione produttiva degli anni Cinquanta, per la straordinaria crescita delle esportazioni. Si passò dalla indigenza economica ad un diffuso consumismo. La Malfa spiegò i motivi alla base di tale importante sfida politica: «Fui mosso – egli disse – da due convincimenti: la visione meridionalista, ossia l'idea di stimolare con la concorrenza il sistema economico, favorendo il Mezzogiorno, e una certa intuizione della capacità nazionale di andare sui mercati, della possibilità di dare finalmente respiro, sprigionare energie compresse. Considerando l'autarchia fascista come qualcosa che aveva compresso la società, mi pare, si doveva passare poi a liberalizzare»[8].
La Malfa dovette, però, confrontarsi con l'ostilità del mondo politico, economico, sindacale e cattolico, persino di Confindustria, guidata dai liberisti Angelo Costa e Beniamino Quintieri, che si oppose per tutelare gli interessi di alcune lobby industriali conservatrici, motivate dalla preoccupazione di non reggere del tutto la concorrenza estera, dopo un lungo periodo di protezionismo. Soltanto un numero limitato di personaggi molto influenti lo appoggiò, come Einaudi, De Gasperi, Vanoni, Menichella, Mattioli, Valletta, Del Vecchio.
La liberalizzazione ridusse il potere monopolistico delle imprese "protette" e ridusse il potere discrezionale dei burocrati nella concessione delle licenze, a favore di un'azione più improntata al servizio degli interessi generali del Paese. Ma gli esiti che si registrarono nel Mezzogiorno circa le aspettative contemplate da La Malfa non furono quelli sperati: la lentezza a lungo termine dei meccanismi di mercato non riuscì a dare risposte immediate ad alcuni dei problemi fondamentali, quali la distribuzione omogenea della ricchezza sia in ambito territoriale che sociale. In quegli anni, infatti, molte città del Sud registravano immense sacche di povertà per il gap infrastrutturale e per la disoccupazione e c'era poi un'urbanizzazione con un assetto logistico ed ambientale carente, dovuto all'assenza dei sistemi idrici ed elettrici, per non considerare, poi, la questione meridionale.
La Malfa colse con lucidità tutti gli aspetti più indesiderabili dello sviluppo economico in atto, e comprese gli effetti della disomogeneità demografica tra l'eccessiva concentrazione al Nord e lo svuotamento al Sud, poiché l'Italia era un «Paese ad economia dualistica»[9]. E, consapevole che il mercato avrebbe dato risposte nei tempi lunghi, approfondì la sua analisi economica ritenendo importante l'intervento dello Stato nell'ambito sociale con una programmazione di bilancio della spesa pubblica. In uno dei suoi accesi discorsi tenuto a Napoli nel 1948, lo statista dichiarò: «Nella grande economia moderna è lo Stato che orienta il risparmio; lo Stato, la società nazionale, la orientino per salvare le zone del Mezzogiorno da una depressione continua che porterebbe all'annullamento della sua vita politica e sociale»[10]. La Malfa, sulla scia delle teorie di Keynes, grande economista inglese, dell'evoluzione della politica di Roosevelt e del laburismo inglese, ritenne che, per potenziare lo sviluppo nel Paese, si dovessero effettuare i grandi lavori pubblici nelle aree depresse del Meridione.
I suoi obiettivi, quindi, furono indirizzati ad innalzare la "qualità della vita" con interventi, come la "Cassa per il Mezzogiorno"(1950), la liberalizzazione degli scambi commerciali, la riforma agraria per distruggere il latifondo parassitario e improduttivo. La crescita dell'economia italiana, intanto, aveva facilitato il finanziamento di programmi di spesa per le regioni del Sud, rivelandosi efficace, anche se il divario tra le due aree rimaneva costante. L'intervento pubblico della "Cassa" contribuì a dotare le aree meridionali delle infrastrutture fisiche necessarie per avviare una politica di nuovi insediamenti produttivi (secondo la linea più vicina alla convinzione liberale dell'unicità dei punti di partenza). Ma questo intervento ebbe una durata di circa 15-20 anni, cioè fino agli anni '70; garantì una distribuzione assistenziale delle risorse ma, col progredire degli scambi internazionali, non migliorò, con innovazioni e "tecniche d'avanguardia", le capacità del Mezzogiorno per competere con le altre economie del Nord-Italia e d'Europa.
Pertanto, la prima necessità di intervento dello Stato doveva essere quella di colmare i divari di reddito sul piano aziendale (tra salari e profitti), generati da una copiosa legislazione assistenziale per specifiche categorie di cittadini e di imprese; la seconda doveva riguardare il sostegno all'occupazione. Ma tutto ciò determinerà un carico di spesa sociale sempre più gravosa sui bilanci pubblici, al punto da creare, dal 1973 in poi, un abnorme debito pubblico nazionale.
La Malfa divenne fortemente polemico contro quel consumismo incontrollato che toglieva risorse pubbliche preziose per lo sviluppo, e riteneva che bisognava accrescere le dotazioni infrastrutturali in campo economico e sociale, come la coesione sociale, la qualità della pubblica amministrazione e della burocrazia, per riavviare lo sviluppo nelle aree arretrate.
Ugo La Malfa, convinto di dover definire un'azione politico-economica di ispirazione democratica, fondata sulla giustizia sociale, sulla programmazione economica e sul rigore dell'attività di Governo, il 22 maggio 1962, in qualità di Ministro del Bilancio e della Programmazione Economica, nel IV Governo Fanfani, presentò alla Camera dei Deputati la famosa Nota Aggiuntiva, responsabilizzando il Governo sulla stabilità del processo di sviluppo economico mediante una programmazione di bilancio della spesa pubblica.
La Malfa aveva compreso che il progresso economico ed il traguardo dei più alti livelli di reddito e di consumi, costituivano una vasta gamma di nuovi bisogni, prerogativa del "libero vivere civile". In quegli anni la coscienza democratica si era rinsaldata e così pure quella sindacale. Ma l'insoddisfazione dei cittadini era diventata più marcata, poiché la distribuzione del reddito non era equa sia sul piano aziendale che su quello territoriale, per il divario tra Nord e Sud.
Si trattava, quindi, di operare secondo gli strumenti e gli obiettivi del regime di programmazione: dell'offerta con una politica di investimenti e della domanda con una politica dei redditi. Egli ritenne che il Governo dovesse soprattutto proteggere le fasce dei disoccupati e dei giovani, migliorando le loro condizioni di vita e di dignità.
Nello stesso anno 1962, La Malfa contribuì con il Governo a nazionalizzare l'industria elettrica con l'"Azienda Elettrica Nazionale". Ma l'ultimo decisivo contributo, prima della sua fine, avvenuta a Roma il 26 marzo 1979, riguardò l'adesione dell'Italia al Sistema Monetario Europeo.
In tutto l'arco della sua vita, l'impegno di La Malfa fu quello di assicurare la crescita sociale e la stabilità finanziaria dello Stato, di elevare il popolo italiano all'emancipazione civile e morale, per equipararsi ai Paesi più sviluppati dell'Occidente. L'approccio scientifico ai problemi nazionali e internazionali, le sfide con temi modernizzanti, dipingono un quadro del personaggio e dell'Italia di quel tempo. Egli operò secondo un pensiero laico e riformista, ispirato a progetti grandiosi, con l'intento di far diventare l'Italia parte sempre più integrata del mondo europeo e globale.