A che serve la filosofia politica? Molte risposte sono possibili. Per esempio, che sta ad essa rendere esplicite, e criticabili, le filosofie implicite nelle scienze politiche. Oppure che essa assolve a una funzione di pulizia concettuale e di igiene mentale: utile in qualunque campo, ma particolarmente opportuna nel campo politico. Oppure ancora che sta ad essa, e solo ad essa, sollevare la questione di fondo: che ne è della verità nella sfera politica? Ma c’è un altro paio di funzioni che pure bisogna considerare: funzioni che le scienze politiche – giustamente ancorate, come tutte le scienze, alla descrizione del reale – non possono svolgere. Segnatamente: (1) la critica sociale e (2) la prospezione del possibile. Con esse la filosofia politica va ben al di là della dimensione stricto sensu «normativa», per assumere compiti più vasti: di esortazione e di monito. Nessuna delle due è appannaggio esclusivo della filosofia: basta pensare alla potenza critica della letteratura. Swift o Dickens furono critici sociali senza esser filosofi, né più di tanto filosofiche sono le distopie di Huxley o di Orwell. Certo, di queste due funzioni – critica sociale e prospezione del possibile – la filosofia si appropria alla sua maniera: grosso modo sul finire del Settecento. Ma proprio l’esercizio di tali funzioni, d’altronde, costituisce quel quid plus che fa del filosofo politico un «intellettuale» nel senso compiutamente moderno di tale espressione: capace di rivolgersi a cerchie extra-filosofiche ed extra-accademiche, così come i letterati si rivolgono al più vasto pubblico di coloro che leggono (non solo di quelli che scrivono).
Se la critica sociale punta l’indice sul presente, la prospezione del possibile guarda piuttosto al futuro. Di questo in particolare voglio occuparmi qui.
L’intellettuale moderno, specialista del futuro
Una qualche forma d’interesse per il futuro affiora già nel pensiero politico della prima modernità: ma ciò non basta ancora a fare del filosofo politico – sia egli un consulente del Principe, oppure un umanista disarmato che scrive per altri filosofi come lui – un intellettuale ante litteram, cioè uno studioso capace di far proprie le preoccupazioni diffuse, le domande di tutti, e di dialogare a proposito di esse con la (nascente) opinione pubblica. Affinché ciò avvenga occorre aspettare il Settecento, quando affiora una nuova forma d’interesse per il futuro: una peculiare progettualità, principalmente sorretta da una nuova fede nella pluralità dei «mondi possibili».
In un vecchio libro (Caruso 1989, pp. 29-36) ho cercato di spiegare con ampiezza questa trasformazione: della filosofia, ma anche della mentalità, alle soglie del mondo contemporaneo. Mi limito qui a riprendere due osservazioni: rispettivamente, (1) sulla concezione del futuro e (2) sulla categoria del possibile, per poi svolgere su questa base nuove considerazioni.
La nuova forma d’interesse per il futuro comporta, nel mondo pre-contemporaneo, una divaricazione del futuro in due sotto-tempi: un futuro tout court e un «futuro anteriore», che ne precisa le condizioni ed è perciò egualmente degno di esplorazione. Tale divaricazione, che affiora già nel pensiero di alcuni autori settecenteschi (emblematica in tal senso è la dottrina del progresso di Condorcet), istituisce un’articolazione logica, ancor prima che cronologica. Essa infatti non è tanto commisurabile alle distanze dal presente (il futuro anteriore, o tempo delle pre-condizioni, non è necessariamente prossimo, così come il futuro semplice, o tempo degli scopi, non è necessariamente remoto): si tratta, piuttosto, di un’articolazione logico-formale del tipo se/allora. Ed è con questa nuova grammatica del discorso politico che taluni autori pre-contemporanei (non ancora tutti) riscrivono i propri progetti, accompagnando alla descrizione delle mete da raggiungersi una qualche descrizione delle regioni – esse pure tutte da traversare – che s’inframmettono di qui a là.
Così riconcepito, il futuro non è più inchiodato ai valori del presente, ma neppure veleggia privo di zavorre nei cieli del desiderio; non è più, dunque, una ri-edizione del reale, premuta dall’urgenza dei bisogni, né un tuffo nell’immaginario, che segua la curva di desideri impossibili, ma una prospezione nel regno del possibile. Tale prospezione va di pari passo con le crescenti esigenze di calcolo e predizione che caratterizzano la politica moderna; ma va pur detto che non si tratta più solo di un calcolo numerico – a cavallo fra economia e politica, politica e demografia (Caruso, Collina, De Boni 1988) – ma anche, e sempre più, di un calcolo logico; segnatamente di tipo logico-modale e topologico.
È chiaro che sto prestando al pensiero pre-contemporaneo una terminologia ed una consapevolezza epistemologica che appartengono invece al pensiero contemporaneo. Un embrione di logica modale, per quanto riguarda almeno le modalità aletiche, sta già in Aristotele e nell’aristotelismo della Scolastica; ma bisogna aspettare la seconda metà del Novecento perché nascano la logica deontica (G.H. von Wright) e la «semantica dei mondi possibili» (Saul A. Kripke). A Kripke in particolare dobbiamo la nozione di «mondi possibili fra loro accessibili». Tuttavia, la nozione di «mondi possibili» – al plurale! – compare già nella Teodicea (2005). E poco importa che Leibniz la proponga per dedurre, dalla perfezione del Creatore, la famosa definizione del Creato come «il migliore dei mondi possibili»: di lì a poco, la stessa nozione sarà impiegata per qualificare non il mondo com’è, bensì quello che vogliamo (nel futuro, al di là del presente). Nel che vedo l’ennesima dimostrazione di come la stragrande maggioranza delle categorie filosofico-politiche siano, a ben guardare, di matrice teologica.
All’interno di questo discorso, la Ragione umana (non più quella divina), e per essa l’«intellettuale», si trovano di fronte a una pluralità di futuri possibili. Altrettanti mondi fra cui l’intellettuale, modernamente inteso come figura della comunicazione politica e consulente della pubblica opinione, è chiamato a esprimere una motivata preferenza. Motivata come? Non tanto in funzione della maggiore/minore desiderabilità soggettiva da parte sua, né soltanto in funzione della maggiore/minore rispondenza di quel «mondo» ai bisogni oggettivi dei destinatari, bensì anche in funzione della maggiore/minore concepibilità, praticabilità, probabilità e costo comparativo dei «percorsi» pratico-politici che dall’hic et nunc conducono verso ogni «possibile».
«Che cosa mi è lecito sperare?»
L’interesse della filosofia settecentesca per la sfera del «possibile» comincia con Leibniz (2005), ma trova la sua massima espressione in Kant (1991), laddove questi mette a fuoco le tre questioni fondamentali della filosofia:
1. Che cosa posso sapere? (Was kann ich wissen?)
2. Che cosa devo fare? (Was soll ich tun?)v3. Che cosa mi è lecito sperare? (Was darf ich hoffen?)».
Da notare che tutte e tre le domande kantiane contengono un verbo servile:
1. können = potere (nel senso di «essere in grado»);
2. sollen = dovere;
3. dürfen = potere (nel senso di «essere autorizzato»).
La funzione del verbo servile non è quella di esprimere il tipo d’azione in ordine al contenuto (come fanno i verbi normali: «sapere», «fare», «sperare»), bensì quella di esprimere la modalità dell’azione (nella fattispecie: possibile/impossibile, moralmente necessaria/innecessaria, lecita/illecita). Ora, questa non è solo grammatica, ma anche logica (e Kant, teorico delle categorie, lo sa meglio di chiunque altro). In altri termini: qualsivoglia risposta alle tre domande kantiane sarà costituita da giudizi modali, ovvero giudizi che si valgono di un particolare tipo di categorie dette appunto «modali». Nella fattispecie, si tratterà di giudicare quali cose sia possibile/impossibile conoscere (giudizio problematico); quali imperativi siano «ipotetici», cioè subordinati alle contingenze del volere, e quali invece «categorici», ovvero ineludibili e assolutamente necessari (giudizio apodittico); infine, se certe speranze da noi coltivate siano consistenti o inconsistenti (giudizio assertivo).
Anche qui, come in Leibniz, la cornice è teologica, ma già predisposta per l’uso secolare. Infatti: quando Kant s’interroga su quanto pare lecito sperare, ciò che sopra tutto ha in mente è la plausibilità di un qualche premio per chi abbia fedelmente adempiuto al proprio dovere: se non in questa vita, almeno nell’altra. Tuttavia, al di là delle risposte di ordine religioso, ciò che emerge dalle sue pagine è l’immagine di un mondo altro, dove ognuno riceve quello che gli spetta. Suum cuique tribuere: la più classica definizione di giustizia. Hanno senso queste speranze? E quale? Per meglio dire: quali sono le condizioni di pensabilità di una giustizia siffatta? Questa – secondo Sidney Axinn (1994, 2000) – la riformulazione della dottrina kantiana della speranza in senso laico.
Orbene, se scendiamo dal cielo sulla terra, dal destino dell’individuo a cospetto dell’Eterno al futuro collettivo che si realizza nel tempo storico, proprio queste sono le domande da cui scaturisce la filosofia politica moderna. Quasi tutti sperano nell’avvento di un mondo più giusto e/o più felice, per sé o per i propri figli. Ma: che vuol dire, e quanto è plausibile, esigere un mondo «più giusto» e/o «più felice»? Quest’ordine di questioni ci disloca dal piano empirico di ciò che è reale (giurisdizione del sapere scientifico) al piano meta-empirico di ciò che pare auspicabile e possibile (giurisdizione della filosofia). Al di là del reale così com’è – però, mai dimentica di esso – la filosofia politica dà spazio al dover-essere, ma anche al poter-esser. E ciò all’interno di una riflessione critica e (come vorrà Husserl) per quanto possibile «rigorosa».
Rigore logico, ma anche morale, perché i «destinatari» del mondo che l’intellettuale progetta non possono più essere paternalisticamente esclusi dal calcolo. L’intellettuale contemporaneo, diversamente dal filosofo puro, non si mette più «dal punto di vista di Dio», bensì da quello dei destinatari medesimi: sorta di committenti ideali, nel nome dei quali egli scrive e che soli possono «autorizzare» le sue speranze. In altri termini: il «futuro interiore» (le preferenze soggettive dell’autore) deve fare i conti col «futuro anteriore», cioè con un percorso inevitabilmente collettivo. Vale a dire con un progetto formulato secondo codici condivisi, che lo rendano comprensibile e valutabile.
La politicizzazione della speranza
Insomma: la filosofia politica e gli intellettuali da essa ispirati si fanno sostegno critico delle inquietudini diffuse. E da queste ricevono una sorta di delega: interpretare il desiderio e tradurlo in domanda. Questa nuova assunzione di responsabilità viene preceduta e accompagnata da quel processo tipicamente moderno che potremmo chiamare di secolarizzazione e politicizzazione delle speranze collettive.
I due filosofi che, nel cuore del medioevo e agli inizi dell’età moderna, più e meglio di tutti si sono preoccupati di approfondire il tema della speranza – S. Tommaso d’Aquino e Baruch Spinoza – sono concordi nel distinguere, all’interno di questo sentimento, una componente psicologica e una componente morale. Con qualche differenza, tuttavia. Per Tommaso la speranza, in sé né buona né cattiva, assumeva valenze morali a fianco della fede, come virtù teologale. Agli occhi di Spinoza, invece, la speranza e la paura (ma la prima soprattutto) divengono passibili di valutazioni politiche.
Speranza e paura sono cattive quando sono irragionevoli (cioè mal fondate), perché diminuiscono la libertà e disperdono le forze tanto individuali che collettive, sospingendo individui singoli e popoli interi ad assumere atteggiamenti passivi di fuga dal mondo e/o di rinuncia alle proprie naturali aspirazioni. Ben lo sanno i governi e le chiese, che da sempre istillano speranze illusorie e paure immaginarie (tipicamente: il paradiso e l’inferno) per meglio soggiogare. Tuttavia, aggiunge Spinoza (Ethica, parte IV), speranza e paura sono anche positive, perfino – anzi, sopra tutto – sul piano politico. E non solo dal punto di vista del principe (il quale, diceva già Machiavelli, governa meglio se temuto piuttosto che amato), ma anche quando governati e governanti coincidano nell’autogoverno di una libera repubblica. Infatti, speranza e paura sono passioni socializzanti: la concordia, di cui la repubblica non può fare a meno, nasce proprio dalla condivisione di paure e speranze. Peraltro, dice ancora Spinoza, la speranza è di norma meglio della paura; non solo in quanto «passione lieta», più piacevole da esperire, ma per gli effetti che produce sia negli individui che nel popolo. Infatti, nel singolo individuo la speranza favorisce il dispiegarsi della «potenza» (laddove la paura lo frena); analogamente, «un popolo libero [libera multitudo] è guidato più dalla speranza che dalla paura, mentre per un popolo soggiogato prevale la paura sulla speranza» (Tractatus Politicus, 1675-76, cap. V, § 6).
Qualcosa del genere stava già nel Principe di Machiavelli: nella cosiddetta dialettica virtù/fortuna, che caratterizza l’azione umana, e del Principe in particolare. La «fortuna» costituisce il limite della «virtù»: di fronte a una «estraordinaria malignità di fortuna» non c’è virtù che tenga. Ma questo limite non è possibile sapere prima dove sia, talché – per trarre da se stesso tutto ciò di cui è capace (direbbe Spinoza: per dispiegare tutta la sua «potenza») – al principe conviene credere nel proprio successo (direbbe Spinoza: coltivare grandi speranze) e, seppure con intelligenza, osare molto, anziché contentarsi di poco. Machiavelli e Spinoza predicano in fondo la stessa psicologia, solo che l’uno, uomo del Rinascimento, descrive le passioni di un individuo eccezionale in cerca di gloria (il Principe), mentre il secondo, più moderno, descrive le passioni di una moltitudine nella quale tutti sono già individui. Va pur detto che Spinoza mostra di stimare molto Machiavelli e – nel bel mezzo di un’epoca che si compiace di dipingere il Cancelliere fiorentino come una specie di diavolo – lo chiama (nel Tractatus Politicus, cap. V) acutissimus, sapiens e prudentissimus.
Filosofie politiche della speranza
Spinoza e Kant non sono – è ovvio – «intellettuali» nel senso moderno. Ma col fare della speranza l’oggetto specifico di una riflessione filosofica aprono la strada a quei pensatori del mondo contemporaneo che proprio questa idea hanno messo al centro della loro meditazione: come tema chiave della filosofia politica e come «principio» dell’agire politico. In primis, due tedeschi: Ernst Bloch ed Erich Fromm. A cui mi piace aggiungere un italiano, Ernesto Balducci.
Secondo Bloch (2005), la speranza come tensione utopica nasce già nel singolo. Con riguardo al mondo interiore, la speranza riguarda quel tipo di persona che vorremmo essere e che ancora non siamo (homo absconditus); con riguardo all’esterno è quel paese indefinito, quella patria dell’identità sperata, cui confusamente sentiamo di appartenere e dove già vorremmo essere. Dalla convergenza delle speranze interne ed esterne, individuali e collettive, può nascere un progetto politico di lungo respiro che sfida le contingenze storiche.
Secondo Fromm (2002), la speranza è virtù politica per eccellenza: nessun movimento può farne a meno e meno che mai un movimento che si batta per un socialismo umanistico. Peraltro, Fromm (che prima di essere un filosofo politico è uno psicoanalista) aggiunge una cauta precisazione: la militanza politica ispirata dalla speranza diviene produttiva solo quando «produttivo» sia anche l’orientamento di personalità, cioè quando tale sentire sia espressione di un carattere maturo. Ciò vale per i militanti, ma più che mai per il leader. Nella cui personalità fede e speranza non vanno mai disgiunte da una terza virtù che, nella sfera pubblica, non è tanto la carità quanto il coraggio. Attenzione, però: non dobbiamo confondere lo pseudo-coraggio dei falsi profeti con quello autentico del leader maturo. Come distinguerli? L’uno ha le caratteristiche «necrofile» di chi corteggia la morte, l’altro invece promana dall’orientamento interiore di chi davvero sa amare il prossimo suo come se stesso (orientamento che Fromm descrive come «biofilia»: cfr. Caruso 1994, §§ 22-23).
Nell’opera di Balducci – teologo, ma decisamente contiguo alla filosofia politica e fra i primi in Italia a confrontarsi con le problematiche della globalizzazione – la speranza è certo anche una virtù teologale, ma nondimeno una qualificazione morale dell’impegno umano in generale: a favore di un mondo risanato dalle piaghe principali che lo affliggono. Questo impegno collettivo, che vede i cristiani a fianco di tutte le persone di buona volontà, esige una metánoia di massa: una «conversione» che appare a Balducci (2005) necessaria e dunque possibile. Non solo dal punto di vista logico (sulle orme di Kant), ma anche dal punto di vista psicologico (sulle orme di Jung): solo che sappiamo risvegliare il Puer interno che tutti posseggono, ma che molti relegano nell’Ombra. Non stupisce quindi che il teologo fiorentino guardasse con interesse al pensiero di Bloch. In particolare al concetto di homo absconditus, che ispira quello balducciano di «uomo inedito» (Caruso 1992).
Troppo? Forse. Ben spesso, nel corso del secolo scorso, la distinzione utopico/utopistico è andata perduta. Con effetti nefasti. Dunque, ammonisce Paolo Rossi (2008): speranze sì, ma ragionevoli. Grandi, ma non grandiose. Capaci di rispondere alle sfide del «reale» senza con ciò perdere il «principio di realtà». La sola felicità che ci è lecito sperare, disse Freud, è «una comune felicità» (Caruso 2006). Sulle sue orme Luigi Zoja, uno psicologo-analista attento al sociale, ha dedicato un libro alle «utopie minimaliste»: quelle che trovano personificazione emblematica nelle vite appassionate di un David Thoreau o di un Olof Palme.
La speranza non è un lusso
Quello che da tutti questi autori emerge chiaro è – giova ripetere – la natura duplice della speranza. La quale può e deve essere pensata tanto sul piano etico, come «virtù politica» per antonomasia, quanto sul piano psicologico, come «passione» che accende e tiene vivo l’impegno politico. Ciò vale – ed è ovvio – per l’impegno rivolto verso trasformazioni radicali (che senza speranza non sono neppure concepibili); ma vale anche – e non meno – per sorreggere l’impegno di tutti coloro che si oppongono al male (mi riferisco ai regimi politici che degradano l’uomo) e di tutti coloro che vogliano difendere quanto di bene si dà, laddove si dà, nella sfera politica (a cominciare dalla libertà e dai diritti umani). In effetti, tutti coloro che, da filosofi, si sono occupati del ruolo delle passioni nella sfera politica – da Spinoza a Tocqueville – hanno dovuto riconoscere nella speranza una speciale virtù; e tutti coloro che intendono ancor oggi riaffermare e difendere i valori di una «modernità umanistica» (Zanfarino 1992), devono fare i conti con la dimensione psicologica della politica (che solo marcia, in definitiva, sulle gambe di uomini e donne in carne e ossa).
A dire il vero, l’interesse per la paura ha finora prevalso tra i filosofi su quello per la speranza: da Hobbes in poi, «paura e politica» costituisce un tema classico della filosofia politica e, per illustrarlo, fiumi d’inchiostri sono stati versati. Su «speranza e politica» si è scritto di meno. Eppure, questo tema non è meno importante di quello, oggi più che mai: sia in teoria, per chi voglia semplicemente comprendere la politica (dal punto di vista antropologico, dal punto di vista storico) sia in pratica, per chi voglia identificare problemi e additare soluzioni.
Dal punto di vista antropologico: se l’uomo è per natura un animale politico – e non solo sociale, come per esempio le formiche – è anche perché, rispetto alle forme di socialità che ne mettono in ordine la vita, coltiva passioni. Fra queste la speranza che, ben più della paura, concerne l’umano in quanto tale (Costa 2008, p. 212).
Dal punto di vista storico: senza l’idea (cristiana) di speranza non si capisce l’erompere della Modernità. La speranza non è solo il fondamento psicomorale delle utopie rivoluzionarie, ma anche quello dell’idea di progresso. Se l’idea laica di Progresso, caratteristica del moderno, nasce come secolarizzazione dell’idea cristiana di Provvidenza, la fede nel Progresso va intesa essa pure – con le parole di S. Paolo – come «fondamento di cose sperate» e, dunque, nel quadro di una secolarizzazione della Speranza. Tale fede, se muore nel cuore dei singoli (come pare che succeda nella psicologia del mondo contemporaneo), muore pure nell’ambito politico. E pensare che nel cuore del Novecento, a fronte dell’orrore, Simone Weil poteva ancora rispondere con la speranza – una virtù che riteneva fondata su una peculiare forma di conoscenza: «la conoscenza che il male che si porta in sé è finito» (citato in Pulcini 2013).
Dal punto di vista pratico, infine: la speranza non è un lusso bensì una necessità. Le democrazie non vivono senza fede nel futuro e già Alexis de Tocqueville metteva in guardia contro il rischio che l’apatia sociale degenerasse nella perdita di speranza. Non c’è bisogno, d’altronde, di credere in chissà quale redenzione: sulle orme di Tocqueville e di Weil, Elena Pulcini (2006, p. 462) esorta a «coltivare quella speranza o desiderio del meglio che oggi sembra aver decisamente ceduto il passo alla vuota ideologia del qui ed ora».
Declino della speranza. Come riattivarla?
Che cosa è cambiato? Remo Bodei (1991) nota quanto diversa sia la psicologia del soggetto contemporaneo da quella del soggetto classico della prima modernità. Allora prevaleva nel soggetto (se non altro come Ideale dell’Io) una coscienza orgogliosa di sé, protesa al governo razionale delle passioni. Oggi, per contro, prevale una forma-soggetto caratterizzata dal crescere dell’incertezza, dove l’Io si sente in balia di forze, sia interne sia esterne, che non comprende e che non controlla: con ben pochi motivi, dunque, per essere orgoglioso di sé e molti motivi, invece, per sentirsi inadeguato. Col crescere dell’incertezza, dovrebbero crescere quelle che Spinoza chiamava passioni d’attesa (speranza e paura), ma, se il sentimento d’inadeguatezza uccide le speranze, non restano che le paure di un soggetto sfiduciato, vittima del proprio stesso pessimismo. Insomma: il pessimismo come self-fulfilling prophecy.
Per Miguel Abensour (2012), una filosofia politica che voglia dirsi «critica» non può esimersi dal confronto con l’«espressione immaginativa di un mondo nuovo» (così Marx definisce l’utopia). E questo vale più che mai per chi voglia fino in fondo pensare la democrazia: una prospettiva teorica le cui radici – come dimenticarlo? – affondano nel terreno dell’utopia.
Con ciò non si vuol dire che la democrazia sia illusoria, irraggiunta o irraggiungibile. Nessuno meglio di chi viva in un regime antidemocratico sa che la differenza è tutt’altro che illusoria! Si vuol dire invece che essa, la democrazia, è per sua natura – in quanto communitas – perennemente «incompiuta» (Esposito 2006; Recalcati 2013, pp. 62-65); che gli inevitabili conflitti – politici ma, prima ancora, ideali –sulle maniere di perfezionarla non sono qualcosa di accessorio, ma la sostanza stessa di una democrazia che si rispetti.
Ora, è proprio questa tensione utopica che viene meno, ed è proprio questa sostanza ideale che pare prossima allo sfaldamento. Non è per caso che le nostre società siano nel contempo definite post-democratiche e post-ideologiche. Dopo il crollo del muro di Berlino, abbiamo voluto vedere nella «fine dell’ideologia», da tempo preconizzata e finalmente realizzata, la soluzione di ogni problema; ma pare chiaro, ormai, che non si tratta affatto di una soluzione, bensì di un altro problema. Infatti: come possono le democrazie sopravvivere senza motivazioni profonde, senza speranze di lunga lena, nell’epoca delle «passioni tristi» (Benasayg - Schmit 2004)?
Ideologia e utopia – Mannheim lo spiegava già nel 1929 – sono due facce della stessa medaglia. Non si parla che di crepuscolo dell’ideologia, magari con soddisfazione; ma forse ciò di cui dovremmo occuparci e preoccuparci è piuttosto la fine dell’utopia. E con essa della speranza.
Allora: come ritrovare la speranza?
Scrive Gustavo Zagrebelsky (2012): le nostre speranze, la fede nel futuro, la fiducia operosa hanno bisogno di simboli. L’impegno politico, la fiducia, la speranza reggono solo se sorrette da una «simbolica politica», cioè da immagini capaci di trasmettere idee-forza. Le quali, invece, sembrano oggi mancare, specialmente in Italia. Al declino della vecchia simbolica non fa riscontro l’emergere di una nuova. A ciò, tuttavia, bisogna reagire con vigore, perché la «desertificazione simbolico-politica» non è meno dannosa per l’ambiente morale di quanto la desertificazione climatica sia per l’ambiente fisico.
La filosofia politica e gli intellettuali non possono certo, da soli, risolvere questo problema; ma contribuiscono, questo sì, a identificarlo e a indicare una possibile direzione di uscita. In particolare: compete alla filosofia introdurre nella riflessione politica una temporalità più complessa della semplice cronologia: una temporalità distesa e plurale, che obbliga la coscienza a fare i conti col presente come storia in atto e, dunque, con la peculiare qualità di taluni momenti cui le scienze empiriche – attente alle leggi generali del processo sociale – non possono riconoscere altrettanta ricchezza di senso. Penso alla irripetibilità della «occasione» (kairós), nozione che il cristianesimo mutua dalla grecità, come pure alla singolarità dell’Evento (Ereignis) nella filosofia di Heidegger.
E compete, d’altronde, agli intellettuali degni di questo nome un duplice compito. Primo, trovare nuove forme simboliche, cioè: immagini e parole che rendano questa temporalità complessa, quest’articolazione del reale col possibile, diffusamente «pensabile». Non solo per alcuni studiosi, ma potenzialmente per tutti. Però anche, preliminarmente, «fare spazio» ad esse nella mentalità di gruppo. Perché nessun messaggio troverà ascolto se non ci saremo – prima – liberati dalle forme simboliche della politica novecentesca che, prive ormai di contenuto, ancora ingombrano la nostra mente. Le ideologie del Novecento saranno pure morte, ma delle loro categorie siamo ancora prigionieri: da una certa maniera di concepire la Nazione, lo Stato, il Popolo, la Classe, non riusciamo proprio a distaccarci. E questo c’impedisce di pensare. In pratica: compete agli intellettuali – specialmente in Italia! – un compito in qualche modo psicoanalitico. Si tratta infatti di assistere l’opinione pubblica nel più difficile dei compiti che un gruppo sia chiamato ad affrontare: l’elaborazione del lutto. Solo allora capiremo che la globalizzazione non è tanto una maledizione quanto un Evento (Caruso 2007). E che nel ripensare la democrazia come intensificazione ed estensione della «cittadinanza» sta l’Occasione che questo tempo ci offre. Prima che sia troppo tardi.
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