Nella lunga e per certi versi non ancora compiuta transizione attraversata dalla democrazia italiana dopo il crollo della cosiddetta “prima Repubblica”, poche “parole d’ordine” hanno ottenuto un consenso tanto ampio e articolato come la tesi secondo cui occorreva rivolgersi alla società civile quale luogo cui attingere le energie necessarie a uscire da una persistente crisi della politica.
Di fronte a una democrazia che appariva e per molti versi appare tuttora inadeguata a rispondere in maniera efficace ai problemi del proprio tempo, dimostrandosi al contempo poco credibile dal punto di vista della coerenza con le ragioni ideali su cui si fonda la sua legittimazione, la società civile è stata ed è considerata, infatti, un deposito di risorse morali, intellettuali e tecniche capaci, se messe in condizione di esprimere il proprio potenziale, di rigenerare il tessuto civile, culturale e politico del Paese.
Che la società civile rappresenti lo spazio fondamentale di maturazione e realizzazione di soggettività essenziali allo sviluppo della collettività, peraltro, è un dato acquisito dalla riflessione sociologica, economica e politologica da moltissimo tempo. Basti pensare, in questo senso, all’importanza della riflessione di Alexis de Tocqueville. Non sarà perciò necessario soffermarci, in questa sede, a ricordare le ragioni per le quali il darsi di una società civile vitale e organizzata costituisce un fatto essenziale anche per la dimensione politica, rispetto alla quale la prima è chiamata a svolgere una funzione al tempo stesso di fermento e di controllo, di interlocuzione e di stimolo, dando vita ad un circolo virtuoso capace di sottrarre la politica stessa al rischio sempre incombente dell’autoreferenzialità e della sclerotizzazione[1]. Allo stesso modo, non sembra necessario ribadire che, evidentemente, l’apprezzamento del contributo delle componenti più dinamiche della società civile non implica necessariamente una contrapposizione di esse alla politica.
Tuttavia, nel dibattito politico e culturale che ha coinvolto l’opinione pubblica italiana negli ultimi quindici anni, il confine sempre sottile tra valorizzazione (o idealizzazione) della società civile e delegittimazione della politica è stato, di fatto, varcato molte volte: sia, per così dire, da destra – essenzialmente in chiave liberista, secondo un modo di vedere per il quale politica significa imposizione di «lacci e lacciuoli» alle potenzialità dell’iniziativa economica e sociale – sia da sinistra, con l’abuso di un linguaggio intriso di demagogia antipolitica imperniato sulla retorica dell’estraneità al “potere”, l’acritica celebrazione di personalità della cultura, della magistratura, del “sociale” in chiave “antipartitocratica”, o, ancora, il ricorso a semplicistiche prospettive di radicale rifondazione del politico.
Non si tratta, naturalmente, di un fenomeno nuovo. L’uso di contrapporre la realtà sociale, sana e produttiva, alla politica, inefficiente e corrotta, era ad esempio largamente diffuso (e non solo nell’ambito delle correnti politiche nostalgiche o di quelle esplicitamente antipolitiche) già negli anni dell’immediato dopoguerra: in una fase storica, dunque, in cui la lotta politica era caratterizzata sì da grandi contrasti, ma anche da un’indiscutibile tensione morale e da un’ineguagliata apertura di credito da parte dell’opinione pubblica nei confronti della democrazia. E la stessa tendenza a opporre “cittadini” e “palazzo” era stata largamente diffusa anche nel secolo precedente, fin dagli albori dello Stato unitario, per non risalire ancora più indietro[2].
Non si tratta, dunque, di un fenomeno recente. Ma soprattutto, il distacco tra cittadini e politica non rappresenta nemmeno una “esclusiva” della cultura civica italiana. Fin dalla pubblicazione a metà degli anni Settanta del Rapporto sulla Crisi della Democrazia[3], infatti, gli studi in merito hanno ampiamente registrato il fatto che disaffezione e risentimento nutriti da parte dei cittadini, degli esponenti del mondo culturale, imprenditoriale e sociale nei confronti della politica, rappresentano un dato che accomuna tutte le democrazie contemporanee, tanto che i politologi parlano oggi comunemente di Disaffected Democracies[4]. Il distaccato disincanto con cui i cittadini dei paesi democratici guardano alla “politica politicante”, peraltro, non rappresenta di per sé un fattore negativo, né si traduce necessariamente in apatico disinteresse per la cosa comune. Diversi studiosi, al contrario, vi colgono il segnale di una raggiunta maturità da parte dei cittadini, maggiormente consapevoli delle “promesse non mantenute” della democrazia e quindi più critici nei confronti del sistema politico. Persino il crescente astensionismo è stato interpretato, in questa chiave, come espressione di una capacità di giudizio critico più raffinata e indipendente da parte degli elettori. Infine, c’è chi, con valide argomentazioni, ha invitato a cogliere nelle varie forme di opposizione e di «controdemocrazia» messe in campo dalla società civile nei confronti delle modalità di funzionamento della politica non un rifiuto che deriva dal disinteresse per il bene comune, dalla superficialità semplificatrice o dalla mancanza di senso dello Stato, ma l’espressione di un effettivo disagio per il degrado della politica, il tentativo di concorrere a realizzare l’aspirazione a una politica diversa. Una critica radicale ma consapevolmente motivata, dunque, che, lungi dall’essere espressione di un apatico qualunquismo, svolge invece un’indispensabile funzione di controllo e rigenerazione del tessuto vitale della politica[5].
La società civile, tuttavia, non produce solo anticorpi utili (indispensabili) a prevenire o contenere le inevitabili degenerazioni della politica e nutrire la vita pubblica attraverso il proprio patrimonio valoriale e di competenze. Essa produce anche una serie di tossine, che entrano in circolazione concorrendo a cagionare o accelerare il deterioramento delle forme e dei processi della politica. Un fenomeno che, secondo molti osservatori, sembra particolarmente visibile nella vita pubblica italiana degli ultimi anni.
Si tratta, sotto un primo profilo, del problema – anch’esso non del tutto nuovo, ma particolarmente avvertito nell’attuale contesto culturale – rappresentato da un evidente logoramento dei tradizionali riferimenti valoriali volti a determinare costumi civici virtuosi, e dalla loro progressiva sostituzione con modelli di comportamento, sia pubblico sia privato, improntati all’indifferentismo etico e alla esasperazione dell’importanza di indici di successo per loro natura estranei, se non antitetici, alla dimensione dell’interesse comune. Sotto un secondo profilo, poi, la politica non può che risentire dell’usura della forza connettiva del tessuto sociale, il cui sfilacciamento ha portato attenti osservatori a parlare addirittura di una «società civile in decomposizione»[6].
Al fondo anche di queste problematiche, peraltro, sembra possibile individuare una caratteristica pregnante e quasi atavica della società civile italiana, che attraverso processi di lungo periodo ha assunto una strutturazione fortemente corporativa. Una caratteristica, questa, che incide profondamente sulla vita del Paese, le cui possibilità di crescita non solo economica, ma anche culturale e civile, sul piano della giustizia sociale e della legalità diffusa, sono imbrigliate da una rete di legami formali e informali tra piccoli e grandi gruppi di potere, dall’azione di organizzazioni più o meno trasparenti, da connivenze e solidarietà professionali, di parentela, di appartenenza politica, culturale, sociale.
L’Italia sembra essere, insomma, un Paese di tante “caste”, di cui quella politica non costituirebbe che un’espressione rappresentativa e peculiare: una chiave di volta che sorregge il meccanismo corporativo, consentendone il funzionamento ma venendone però, al tempo stesso, fortemente condizionata. Infatti, come ha scritto recentemente Gustavo Zagrebelsky, «se la società si spegne, cioè si ripiega su se stessa e sulle sue divisioni corporative, essa diviene incapace di idee generali, propriamente politiche, e il suo orizzonte si riduce allo status quo da preservare, o alle tante posizioni particolari ch’essa contiene – privilegi grandi e piccoli, interessi corporativi, rendite di posizione – da tutelare»[7]. Una logica, quest’ultima, a cui finiscono molto spesso per rispondere anche molte esperienze di mobilitazione che, pur assumendo le forme dell’impegno a favore dell’interesse pubblico, rischiano facilmente di ricadere nella cosiddetta «sindrome nimby» (not in my backyard), per la quale sorgono comitati di quartiere, di madri, di cittadini, quando vedono minacciati i propri diritti, i propri interessi o i propri privilegi (non sempre facili da distinguere tra loro), di fronte al progetto della costruzione di una strada, di un campo nomadi, di una comunità di accoglienza, di una classe multietnica. Esperienze da non demonizzare e rispetto alle quali, in ogni caso, non sarebbe legittimo esprimere un giudizio generalizzato, ma che certamente possono essere poste in relazione alla diffusione di un basso tasso di senso del bene comune, inteso come l’interesse condivisibile la cui natura non coincide ma eccede rispetto alla somma degli interessi particolari.
Ancor più alla radice, tuttavia, sembra possibile pensare che il rapporto tra società civile e politica sviluppatosi in Italia negli ultimi anni si sia caratterizzato, soprattutto, per un processo di osmosi tra i due livelli che ha fatto emergere idee, istanze e classi dirigenti espressione di una cultura per molti aspetti, anche se non esclusivamente, antipolitica. Sembrerebbe, cioè, che nell’attuale fase si sia in una certa misura realizzato, nel nostro Paese, un processo di «colonizzazione della politica da parte dell’antipolitica», come lo ha chiamato (senza però alcun riferimento al caso italiano) un attento studioso di questi fenomeni[8].
Molti dei protagonisti e delle forze politiche della cosiddetta “seconda Repubblica”, infatti, sembrano aver fatto proprie argomentazioni e modalità espressive tipiche dell’antipolitica: fenomeno per sua natura magmatico, i cui caratteri si disperdono in una nebulosa di atteggiamenti utilitaristi, iconoclasti, antistituzionali e radicali, e che pertanto assume forme diversificate, spaziando da un cinico disincanto ad un moralismo volto in via esclusiva alla considerazione del “dover essere” della politica.
In effetti, può essere antipolitico tanto il vituperio lanciato contro “il palazzo” quanto la raffinata elaborazione teorica sulla futilità della politica in un mondo dominato dalle leggi del mercato globale; tanto l’apatico disinteresse legato all’idea che «la politica è una questione personale di quelli di Roma» (per usare l’espressione che Carlo Levi mette in bocca ai suoi contadini lucani[9]), quanto la critica distruttiva in cui il riferimento esclusivo al piano ideale della politica impedisce un’interazione efficace con gli inevitabili aspetti di complessità e vischiosità dei processi politici. E ancora, il sistematico ricorso agli strumenti della demagogia per ribadire che “i politici sono tutti uguali” (arrivisti, bugiardi, incompetenti, corrotti), e che la società civile è oppressa dai tentacoli dei partiti e delle istituzioni: che la politica, in sostanza, rappresenta un ingombrante orpello da rimpiazzare con la tecnica dei competenti (scienziati, economisti, imprenditori, militari, e così via) o la guida di un leader super partes, estraneo alla cerchia dei “politicanti”.
Un modo di porsi che, naturalmente, può rappresentare anche semplicemente una strategia politica, utilizzabile alla stregua di qualsiasi altra strategia con lo scopo – più o meno dichiarato – di passare attraverso la delegittimazione radicale di una determinata politica per “detronizzarla” e sostituirla. L’antipolitica può costituire, in questo senso, uno strumento retorico – o meglio, una «folla» di «discorsi», «retoriche» e «pratiche eterodosse»[10] – utilizzata da parte di movimenti e partiti protesi a rompere il quadro politico esistente e da leader intenzionati a legittimare se stessi come outsider rispetto al sistema (anche una volta entrati a far parte di esso)[11]. Quello che interessa qui sottolineare, tuttavia, è che il successo politico dell’antipolitica in questi anni ha dato voce a un modo di sentire largamente diffuso nella società civile italiana, propensa in molte sue componenti a considerare la politica come un corpo estraneo, che tende illegittimamente a sovraordinarsi sia alla sfera individuale sia a quella sociale, rispetto ai cui interessi risulta nociva, o, quantomeno, inutile: un corpo artificiale, contrapposto, a seconda delle diverse sottolineature, alla comunità locale, alla «mano invisibile» del mercato, alla trama civica solidale, oppure semplicemente all’individuo.
Anche in questo caso, ovviamente, non si tratta di un fenomeno nuovo, ma al contrario di un modo di pensare profondamente radicato nella cultura politica occidentale[12]. In questo senso, la convinzione circa l’inutile dannosità della politica trova certamente un terreno fertile in un contesto di depauperazione delle risorse etiche della società, ma non rappresenta semplicemente l’esito estemporaneo di una fase critica, quanto piuttosto un aspetto tipico della cultura politica occidentale. Non a caso, il modo di pensare secondo cui la politica rappresenta in buona sostanza null’altro che una sovrastruttura che condiziona o impedisce la libertà dei soggetti ad essa sottoposti, un vincolo non giustificato che ostacola le libere dinamiche della società, risuonava anche nella celebre formula utilizzata nel discorso di assunzione della presidenza da Ronald Reagan, per chiarire il proprio pensiero in merito: «il Governo non è la soluzione ai nostri problemi. Il Governo è il problema»[13]. Un’espressione che, se interpretava in maniera efficace la diffusa diffidenza nutrita dai cittadini americani nei confronti di “Washington” – con la capitale assunta a emblema del politicantismo e della protervia di una classe politica irrispettosa dell’autonomia della società e delle amministrazioni territoriali – si spingeva però ben al di là del timore verso ogni forma di concentrazione e degenerazione del potere politico, tradizionalmente presente nel pensiero politico americano, per dare spazio ad una vera e propria «filosofia del sospetto» nei confronti della politica, secondo i canoni di una mentalità impastata di antipolitica[14]. Una prospettiva ben diversa, peraltro, da quella cui ha dato voce Barack Obama nel proprio discorso di insediamento, quando ha spiegato ai suoi concittadini che la domanda da porsi «non è se il nostro governo sia troppo grande o troppo piccolo, ma se funziona», e ha continuato ricordando loro che ciò che il tempo presente richiede è di dare vita a «una nuova era di responsabilità».
In questo senso, allora, per tornare al “caso italiano”, non si tratterebbe tanto di tentare di far fronte al corto circuito antipolitico che è sembrato di cogliere negli attuali rapporti tra società civile e politica riesumando il fantasma di una «Italia legale» estranea e più consapevole rispetto all’«Italia reale». Né, tanto meno, di scivolare da un’acritica celebrazione della società civile nella retorica inversa, rinverdendo le sconsolate e aristocratiche considerazioni con cui Giacomo Leopardi giudicava «la società che avvi in Italia» come «tutta di danno ai costumi e al carattere morale, senza vantaggio alcuno»[15]. Si tratterebbe, piuttosto, di acquisire maggiore consapevolezza del rapporto di necessaria compenetrazione esistente tra società civile e politica, e quindi della responsabilità reciproca che intercorre tra le due sfere.