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Islam e democrazia: orientamenti generali

Massimo Campanini

Il termine democrazia non fa parte del dizionario dell’Islam; è entrato nell’uso comune solo in età contemporanea, e in arabo suona come una semplice traslitterazione di quello di origine greca: dimuqratiyya. In Islam del resto, laddove “democrazia” sembra letteralmente intendere il “governo o potere del popolo”, la fonte del potere è Dio. I termini più significativi che in arabo indicano questa prerogativa divina sono rabbaniyya e soprattutto hakimiyya. Nell’Islam, tuttavia, Dio non esercita il potere in maniera diretta, ma delega l’uomo ad essere suo vicario sulla Terra (Corano 2,30). Egli ha rivelato all’uomo la sua volontà per mezzo dei profeti, ed il sigillo della profezia, Muhammad, è stato a sua volta sostituito da vicari (i califfi), col compito di gestire la comunità secondo le intenzioni e le regole – morali, ma anche politiche e sociali – che Dio ha manifestato nella rivelazione. Peraltro, i fondamenti della Legge islamica, la sharia e la sunna del Profeta, sono scarsamente normativi dal punto di vista politico, sebbene prevedano qualche volta regole minuziose dal punto di vista del diritto civile e penale. Il Corano soprattutto si limita a sottolineare: 1) la necessità di promuovere la giustizia e il bene e di impedire l’ingiustizia e il male (Corano 3, 110 e 114); 2) la necessità da parte dei governanti di essere equi e da parte dei governati di ubbidire (Corano 4, 58-59); 3) l’obbligo da parte dei governanti di consultarsi con i rappresentanti della comunità (Corano 42, 38). Il libro sacro afferma che tutti i credenti sono fratelli senza distinzione di razza o di classe (per esempio 49, 10); ma questo presupposto di sostanziale “democrazia” è in certo modo limitato dal discrimine dell’appartenenza alla stessa fede. L’uguaglianza degli uomini non è di fronte a un principio astratto di legge, codificato in un sistema giuridico e in un corpus di norme che valgono per qualsiasi soggetto, quale si è elaborato in Europa con l’Illuminismo (si pensi solo a Montesquieu), ma di fronte alla concreta professione religiosa, che nell’Islam come nell’ebraismo ortodosso, è anche Legge. In tal senso, l’Islam ha sviluppato il concetto di “minoranze protette” (i credenti nelle altre religioni monoteiste che vivono in uno stato musulmano), così come l’ebraismo ha riservato il patto e l’alleanza con Dio al popolo eletto.
La prima comunità dei credenti era legata da un forte senso solidaristico. Una affermazione attribuita al Profeta Muhammad informa che il sale, l’acqua e i pascoli sono di tutti. Si trattava, certamente, di un precetto formulato a pro della società beduina, ma che col tempo ha assunto un valore più universale, indicando l’intenzione religiosa di salvaguardare il benessere comunitario dalle prevaricazioni individualistiche. Così gli stessi princìpi politici della giustizia, dell’obbedienza e della consultazione, citati poco sopra, miravano a creare una armonizzazione tra il sistema di governo e la comunità dei governati. Del resto, la dottrina politica classica (per lo meno quella sunnita) ha sottolineato come il consenso sia elemento essenziale per garantire l’elezione del capo dello stato e la legittimità del suo potere. “Consultazione” e “consenso” possono certamente considerarsi concetti accostabili alla democratica rappresentatività parlamentare, anche se possono pure dar luogo a difficoltà interpretative. Chi sono infatti i più degni di essere consultati? Chi li sceglie o nomina, e si incarica di giudicarne ed eventualmente censurarne il comportamento? Non si rischia che il consenso diventi nient’altro che l’opinione di un gruppo ristretto di personalità influenti senza che il popolo venga minimamente ascoltato, trasformando così una “democrazia” teorica nell’autocrazia di una classe dirigente svincolata da ogni controllo? Nonostante queste legittime perplessità, il grande teorico musulmano radicale Sayyid Qutb (1906-1966) ha ripetuto che «la consultazione è una delle basi del governo dell’Islam», pur essendo consapevole che «quanto al modo della consultazione, l’Islam non ne ha definito una forma precisa. La sua applicazione dipende dai bisogni e dalle circostanze». La consultazione potrebbe dunque corrispondere tanto a un sistema aristocratico, quanto a un sistema democratico parlamentare, sebbene in linea di massima richieda da parte dei “consultati” una sicura competenza nelle questioni del diritto e della Legge religiosa. In epoca contemporanea sono stati sostenitori di un carattere parlamentare della consultazione islamisti come Rashid Rida (1865-1935) e Hassan al Turabi (vivente), e, con tutte le differenze e le possibili puntualizzazioni del caso, come Ruhollah Khomeini (1902-1989).
Si tratta, come ognuno può avvedersi, di condizioni garantibili in una società perfettamente funzionante, in una società ideale e idealizzata come, appunto, era quella del Profeta Muhammad e dei suoi primi quattro califfi, i “ben guidati”. Dopo che il califfato si trasformò e alla fine si pervertì, e dopo che le ambizioni dei sovrani ebbero anteposto gli interessi particolari a quelli della comunità, nacque lo stato patrimoniale. È interessante notare che i termini che indicano usualmente il potere regale e lo stato patrimoniale (mulk e sultan) non sono privi di risvolti negativi. Ibn Khaldun (1332-1406), il grande filosofo della storia della politica, ha scritto che «il potere regale (mulk) traduce la superiorità e l’obbedienza della forza». Esso appare dunque come la negazione della società perfetta e armonica che dovrebbe garantire l’equilibrio tra governanti e governati.
Conviene puntualizzare che il califfato costituisce il simbolo dello stato islamico classico, nel quale la “democrazia” potrebbe risiedere nella singolare circoscrizione del potere arbitrario del sovrano da parte della consultazione e del consenso. Del resto, il califfo, così come qualsiasi altro governante musulmano, ha diritto di essere obbedito incondizionatamente fintantoché rispetta l’Islam e ne fa applicare le disposizioni. Ma il popolo ha il diritto di ribellarsi allorché i suoi capi politici mancano ai doveri religiosi che impongono la difesa della fede, ma anche l’implementazione della giustizia. Già Ibn Taimiyya (m. 1328) suggeriva questa possibilità; ma più recentemente, Sayyid Qutb ha affermato senza equivoci: «È chiaro che la modalità dell’obbedienza è stata prescritta dal Corano […]. Bisogna distinguere, in colui che governa, il fatto di applicare la legge religiosa dal fatto di detenere il potere della religione. Il governante non riceve il suo potere dal cielo […]: egli diventa capo solo grazie alla scelta e alla libertà assoluta dei musulmani […]. Ogni regime nel quale si applichi la legge islamica è un regime islamico, quale che sia la sua forma e denominazione […]. L’obbedienza dei sudditi è unicamente condizionata e limitata dalla realizzazione o meno della legge islamica da parte di colui che comanda».
Anche qui, come per quanto riguarda la consultazione, non è chiaro quale debba essere il tipo di regime che applica la legge islamica. Democrazia parlamentare, monarchia, autocrazia o aristocrazia: tutto sembra andar bene, purché sia rispettato l’Islam. Il non riconoscere a un sistema istituzionale il predominio sull’altro ha un profondo significato sociologico, che è stato ben evidenziato da Ali Shari‘ati, uno dei grandi teorici della rivoluzione iraniana, scomparso per altro nel 1977 prima del suo trionfo. Shari‘ati ha sostenuto che l’Islam afferma l’uguaglianza tra gli uomini e che la religione è essenzialmente “movimento”, una tendenza a modificare la realtà (si pensi a come Marx definiva il comunismo il «movimento che cambia lo stato di cose presente»). Perciò tutti i profeti delle religioni monoteistiche sono stati rivoluzionari che hanno lottato contro i poteri oppressivi. Dati questi presupposti è ovvia la conclusione di Shari‘ati per cui «l’Islam è la prima scuola di pensiero sociale che riconosce nelle masse il fattore basilare, fondamentale e cosciente che determina la storia e la società».
Sopravvissuto il califfato come finzione giuridica sotto gli ultimi Ottomani, la teoria e la pratica politica musulmane sopportarono una vera crisi d’identità dopo l’incontro-scontro con l’Europa e l’Occidente. L’Europa dispiegò e fece conoscere tra Ottocento e Novecento tutta la sua potenza militare e industriale, tutta la sua superiorità tecnologica, grazie alle quali poté sottomettere al giogo coloniale, diretto o indiretto, la grandissima parte dei territori musulmani. Molti musulmani sognarono l’occidentalizzazione come il mezzo per riformare sia l’Islam sia le sue strutture politiche e sociali, al prezzo, per i più estremisti, di rifiutare la religione. Così fu facile ritenere i concetti borghesi di libertà individuale, di diritti umani e di democrazia parlamentare come i riferimenti teorici di una esperienza liberale, vagheggiata da molti intellettuali modernisti, ma malamente realizzata solo in pochi paesi, come l’Egitto, la Siria o l’Iraq.
D’altro canto, il processo di occidentalizzazione provocò in altri musulmani una reazione uguale e contraria di rifiuto, spingendoli a rivendicare una islamizzazione della modernità, e in qualche caso l’islamizzazione radicale della società e dello stato. L’Islam puro, l’Islam delle origini, venne – e viene considerato tuttora da taluni – come un’alternativa reale ai modelli importati dall’Occidente, a quel western outlook che sembra oggi costituire l’unico modo di essere della società contemporanea (fine della storia?). Deve far riflettere il fatto che, a partire dalla sconfitta degli arabi e dei musulmani nella guerra dei Sei giorni contro Israele (giugno 1967), la drammatica insolubilità del problema palestinese, la politica aggressiva degli Stati Uniti in Medio Oriente e il supporto che l’Occidente ha spesso garantito ai regimi autoritari della regione, in dispregio a quei valori democratici che pur l’Occidente sbandiera, abbiano rinfocolato l’islamismo radicale. Le disfatte e i cedimenti di fronte agli Stati Uniti d’America, all’Occidente, e alla sua longa manus, l’Israele sionista, sono state vissute come un castigo di Dio, come la dimostrazione che l’occidentalizzazione è alternativa all’Islam, e che le sue categorie, tra le quali la democrazia, non sono né esportabili né idonee in un mondo che vuole essere profondamente e totalmente islamico.
Senza insistere troppo sui fatti storici, è del tutto evidente che il modello oggidì prevalente di democrazia, quello liberale-liberista (prevalente, ma non certo l’unico), sia scarsamente o per niente implementato nei paesi musulmani. Le monarchie a legittimazione religiosa, come quella saudita, marocchina o giordana, sono spesso fortemente conservatrici oppure detengono un’autorità e un potere che ha ancora forti caratteristiche carismatiche e sacrali. Il parlamentarismo tunisino è puramente di facciata. L’Algeria è passata da un regime centralizzato di tipo semisovietico alla guerra civile strisciante che sembra assopita solo da pochi anni. In Egitto, dove lo stato di emergenza vige dal 1981 dopo l’assassinio di Sadat, il presidente Mubarak ha più volte affermato che l’opposizione ha il diritto di criticare il governo, ma non di impedire il decisionismo dell’esecutivo. In Siria continua l’egemonia della famiglia Assad, in stretto collegamento a un baathismo non più panarabo, ma legato a interessi politici di clan. In Iran la rivoluzione del 1979 ha instaurato un repubblicanesimo religioso in cui, pur in presenza di un parlamento che funziona, le decisioni ultime sono riservate alla guida suprema religiosa e al consiglio degli ayatollah.
La mancata transizione dei paesi islamici a forme di democrazia di tipo occidentale non è tuttavia dovuta a motivi religiosi, ma a motivi storici e politici. In primo luogo, come si è detto, la stragrande maggioranza dei paesi islamici rimase per decenni sotto il dominio imperialistico europeo e dunque non poté sviluppare una propria via autonoma alle conquiste democratiche. Lo stato post-coloniale, sorto dai processi di liberazione e di indipendenza, conservò tare istituzionali ed economiche (la povertà, il prevalere di classi dirigenti corrotte, la mancanza di un’autentica dialettica partitica ecc.) che resero necessaria l’instaurazione di regimi autoritari per governare la transizione verso il progresso e la modernizzazione senza accrescere le sperequazioni sociali. Non è un caso che i movimenti di liberazione e gli stessi governi che hanno gestito la transizione all’indipendenza, e poi l’indipendenza, abbiano avuto un carattere fondamentalmente militare. Militare fu la rivoluzione degli Ufficiali Liberi in Egitto del 1952; militari i realizzatori dei colpi di stato in Iraq nel 1958 e 1968 e in Siria nel 1963 e 1969-1970; militare Mu‘ammar Gheddafi che nel 1969 abbatté la medioevale monarchia di re Idris in Libia; militare il successore di Ben Bella alla guida della rivoluzione algerina, Hwar Boumedienne, che perseguì l’arabizzazione e l’islamizzazione del paese insieme alla trasformazione socialista; per non parlare delle repubbliche della Turchia e dell’Iran, a partire da Mustafà Kemal e da Reza Shah. È evidente che il carattere militarista delle società mediorientali e islamiche non abbia favorito l’attecchire di una democrazia liberale. D’altro canto le classi dirigenti della maggior parte dei paesi musulmani, sia nel periodo cosiddetto liberale fino agli anni Cinquanta, sia in seguito, quando le società si sono lentamente de-militarizzate e i governi civili hanno spesso soppiantato quelli in divisa, hanno trasformato lo stato in una personale riserva di privilegi. La patrimonializzazione del potere e il controllo esclusivo delle risorse, la cui redistribuzione è diseguale, costituiscono un secondo elemento di ostacolo alla democratizzazione.
Nessuno degli elementi fin qui ricordati, peraltro, è caratteristico dell’Islam in quanto tale. Abbiamo visto come la dottrina politica islamica patrocini la giustizia e il controllo dal basso del potere sovrano. Vero è, d'altronde, che nell’Islam esiste una contraddizione fondamentale tra lo stato, la società civile e la nazione, elementi la cui armonizzazione costituisce probabilmente una caratteristica della democrazia nel senso occidentale del termine. Lo stato non necessariamente si identifica con la nazione e, d’altra parte, la società civile non sempre opera a supporto dello stato né viceversa. Lo stato non s’identifica con la nazione poiché il concetto di nazione, come quello di democrazia, è d’importazione occidentale e di relativamente recente diffusione nei paesi islamici: il califfato era per sua natura sopranazionale; e solamente la sua crisi, politica e teorica, ha aperto di fatto la strada alla creazione di “nazioni”. D’altro canto, la società civile raramente opera a supporto dello stato poiché è lo stato spesso a dominarla, condizionandone lo sviluppo e la pluralità, per esempio attraverso il controllo dei mass-media e attraverso il restringimento degli spazi di partecipazione politica.
La grande sfida del futuro è la formulazione del concetto e dei contenuti di una “democrazia” islamica. È irrealistico pensare di trasportare, talis et qualis, la prassi politica democratica occidentale in territori che hanno una storia diversa e un orizzonte teorico diverso. La necessità della formulazione e della implementazione di una democrazia islamica è imposta sia per salvaguardare la tradizione culturale di paesi e società che, dallo scontro con l’Occidente, hanno subito laceranti processi di alienazione; sia perché la concezione e la prassi occidentale di democrazia sono andati incontro a fallimenti che rischiano di pregiudicarne il significato e la funzionalità di fronte all’opinione pubblica islamica. Ciò non significa che la democrazia islamica debba fare a meno di procedure come le libere elezioni o di istituzioni come i parlamenti. Il prestigioso intellettuale islamista tunisino Rashid Ghannushi (vivente), tra gli altri, ha sempre sostenuto la coerenza della rappresentatività parlamentare con l’Islam. Tuttavia alcuni nodi debbono essere sciolti. Da molte parti si è detto che una autentica democrazia non consiste solo nelle procedure. Il nodo più difficile consiste probabilmente nei cosiddetti “diritti umani”. Molti intellettuali islamici anche progressisti come Hassan Hanafi (n. 1935), hanno evidenziato come l’universalità dei diritti umani sia, per così dire, un “pregiudizio” dell’Occidente che ritiene la propria visione dei diritti come universalmente valida (una sorta, dunque, di colonialismo culturale). Al di là del fatto se ciò sia vero, non vi è dubbio che la concezione dei diritti umani in Islam e in Occidente abbia elementi di diversità. Anche l’Islam riconosce il diritto alla libertà, alla proprietà, al dissenso, eccetera. Ma da un lato questi diritti derivano dalla sanzione di Dio, la cui provvidenza li prevede e garantisce, e non da un presunto carattere originario dell’essere umano; dall’altro lato, la dimensione comunitaria rimane in Islam prevalente rispetto a quella individuale. Non è affatto scontato od ovvio che l’idea di diritto umano naturale e l’idea di diritto umano garantito da Dio siano inevitabilmente in contraddizione. In ogni caso, molti intellettuali musulmani, tra cui il sudanese Abdullahi al-Na‘im o il libanese Ahmad Moussalli, stanno lavorando a un profondo ripensamento della legge religiosa nella direzione di una rilettura islamica delle libertà civili, dei diritti umani e del pluralismo politico e religioso.


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