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Il sistema scolastico:
autonomia sì, devolution no

Giuseppe Tognon

La modifica della Costituzione voluta dal governo Berlusconi ed approvata dalla maggioranza di centrodestra (la devolution imposta dalla Lega)[1]prevede che le Regioni abbiano competenze esclusive su sanità, istruzione e polizia locale[2], mentre con la riforma costituzionale del 2001 (riforma del Titolo V, legge cost. n.3 del 18 ottobre 2001) voluta dal centrosinistra ed approvata con il ricorso al referendum confermativo, le Regioni hanno soltanto competenza concorrente su sanità e istruzione e nulla per quanto riguarda le funzioni di polizia.
Alla riforma del Titolo V si era arrivati attraverso un percorso quinquennale che aveva preso il via con la legge delega del 15 marzo 1997, n. 59, che si proponeva di spingere il decentramento delle funzioni statali il più lontano possibile, e grazie alla legge cost. n. 1 del 22 novembre 1999 che rafforzava i poteri delle giunte regionali e in particolare il ruolo del loro Presidente. Le Regioni sono ormai dotate di una più forte autonomia statutaria e di una maggiore autonomia di governo. In materia di istruzione il modello che si è disegnato è quello di un sistema ancora unitario fondato su di un più evoluto principio di sussidiarietà che conserva comunque allo Stato centrale il compito di garantire i livelli delle prestazioni e dunque di perseguire una politica nazionale coerente.
A onor del vero, la riforma del Titolo V presentava già due enormi problemi: l’eccesso di dettaglio con cui il Parlamento nazionale interpretava i princìpi della legislazione concorrente e la difficoltà di applicare il vecchio sistema tradizionale dei controlli preventivi sulla legislazione regionale. Senza contare che la mancata soluzione del problema del bicameralismo perfetto rendeva quasi impossibile realizzare un assetto veramente federativo della Repubblica. Il limite costituzionale di fondo della riforma del Titolo V è stato quello di voler calare elementi di federalismo, per un verso non sufficienti e per l’altro incerti, in una Costituzione pensata per un sistema unitario molto forte e per ciò stesso passibile di forme evolute di decentramento, ma non di federalismo.
Non è tuttavia vero che la devolution del centrodestra risolva i problemi, anzi. Se fosse approvata, la nuova riforma della Costituzione taglierebbe gli ormeggi che ancora tengono aperto il confronto tra i diversi centri del potere per avventurarsi in uno spazio dove esploderebbero delle contraddizioni che potrebbero mettere in discussione l’intera Repubblica.
Il problema di dotare l’Italia di un assetto scolastico federale o comunque più articolato è tra i più delicati tra i molti che si sono affrontati nella recente e convulsa stagione di riforme istituzionali. Le difficoltà non sono soltanto di natura ordinamentale, ma affondano in una grave lacuna di iniziativa politica e culturale che ha condotto ormai da decenni la scuola italiana in una situazione di stallo. Il venir meno dei partiti di massa e la progressiva separazione tra essi e la classe docente, complice anche una miope gestione sindacale degli interessi degli insegnanti, ha condotto la politica scolastica a rincorrere effimeri progetti di modernizzazione senza riuscire ad elaborare una strategia condivisa e partecipata di rinascita educativa e professionale.
Per molti anni, almeno fino agli anni Settanta, i partiti politici avevano esercitato, in Parlamento e nel paese, una funzione di supplenza anche rispetto alla nostra Costituzione che in realtà non contiene un profilo chiaro di quello che avrebbe potuto essere o potrebbe diventare il governo della istruzione nazionale e che di fatto ha considerato come efficace il vecchio modello liberale di governo della scuola, centralistico e pervasivo, ereditato dalla riforma Casati del 1860, la prima riforma organica della scuola del Regno, e soltanto perfezionato dalla riforma Gentile del 1923. La nostra Costituzione si era mossa, ma non poteva allora essere altrimenti, nel solco di una lunga tradizione culturale che vedeva la scuola come agenzia di alfabetizzazione del paese, come sostegno alla mobilità sociale e al riscatto delle plebi e come strumento della formazione delle élites, in sostanza come un modello sociale completo. Non stupisce il fatto che, al termine della prima grande stagione di allargamento della base scolastica del paese, con l’avvento di una scuola di massa e con l’emergere di una crisi del modello di sviluppo fondato sulla relativa autonomia della scuola dal mercato del lavoro, la politica scolastica sia entrata in crisi e tutto il potere, se così si può dire, sia ritornato in capo al ministero e in sostanza si sia ridotto a semplice governo del personale. Il susseguirsi di progetti di riforma abortiti e in particolare l’incapacità di riformare la scuola secondaria superiore dimostrano con abbondanza di esempi sia un limite politico che un limite culturale del Paese.
Sarebbe molto lungo descrivere in questa sede l’evoluzione o, meglio, la mancata evoluzione, del modello di governo della scuola italiana: basta ricordare che il ministro della Pubblica istruzione è rimasto anche in epoca repubblicana l’unico e forse ultimo ministro “napoleonico” dello Stato e che, in termini relativi, assomma in sé molti più poteri del Presidente del Consiglio, perché è veramente il vertice di una piramide decisionale che abbraccia l’intero mondo della scuola. Il ministro dispone, il ministro decide, il ministro nomina: malgrado i numerosi passi avanti realizzati nel campo dell’autonomia scolastica, il ministro che siede nel palazzo di viale Trastevere conserva un potere di “altri tempi” che purtroppo non sempre i ministri sanno esercitare con discrezione ed intelligenza.
Un punto di svolta si è avuto intorno al 1990 quando si è fatta strada l’idea che l’autonomia scolastica dovesse essere la grande sfida per il futuro. Nella Conferenza nazionale della scuola di quell’anno si affermò concordemente che la scuola non doveva più essere considerata come l’ultimo degli uffici dello Stato, ma come il primo dei servizi al cittadino. Da quel momento gli interventi normativi sono stati numerosi, e, anche se disordinati e talvolta mal gestiti, ci hanno consegnato una scuola ormai abituata a dover “fare da sola”, alla ricerca piuttosto di sostegni a livello orizzontale, refrattaria ad ogni riprogettazione dirigistica e ad ogni strumentalizzazione. Restano ancora ostruiti i canali di progettazione condivisa tra docenti e genitori, tra dirigenti scolastici e responsabili locali, tra scuole e territorio: tutto potrebbe concorrere senza difficoltà a fare in modo che essi si aprano, eccetto che una regionalizzazione rigida del sistema che avrebbe la conseguenza di riaccendere la polemica politica e lo scontro ideologico all’interno del già fragile sistema scolastico. In molti casi il fatto che il “potere” sia “più lontano” è garanzia di libertà e di sollievo!
Su questa scuola, alle prese con tutti i limiti imposti dalla carenza o dal cattivo uso delle risorse finanziarie, da un endemico problema di precariato e da una evidente crisi della funzione magistrale, la devolution di Bossi entrerebbe “a gamba tesa” determinando un definitivo crollo dello spirito unitario scolastico che, nel bene e nel male, ha garantito all’Italia repubblicana la realizzazione di alcuni fondamentali obiettivi di democrazia e di concordia nazionale. La scuola italiana non tollererebbe di essere rinchiusa in ghetti regionali che anziché favorirne l’autonomia ne determinerebbero l’asfissia o l’ipertrofia, a seconda del contesto territoriale ed economico in cui ci si trova.
D’altra parte, tra la riforma costituzionale del governo della scuola proposta dalla destra e la politica scolastica perseguita dalla stessa parte politica vi è stata una plateale contraddizione. Mentre la devolution spezza ogni seria continuità legislativa e azzera la pretesa di universalità dell’intervento centrale da parte dello Stato, la riforma Moratti, discutibilissima per molti aspetti, è intervenuta ad assetto istituzionale costante senza nemmeno adoperarsi per realizzare quanto previsto dalla riforma del Titolo V in materia di decentramento. Ancora una volta si è separato il momento del “governo speciale”, di settore, da quello generale e non si è tenuto conto del problema sollevato in merito all’organizzazione generale della Repubblica. Un governo della scuola più intelligente e lungimirante avrebbe certamente contribuito a rendere più evidenti i limiti della proposta riforma costituzionale e forse avrebbe potuto renderla migliore.
L’obiettivo della riforma voluta da Bossi è stato spiegato dai proponenti come se fosse semplicemente la realizzazione di principi di buon senso e il compimento della trasformazione repubblicana da stato centralizzatore a stato federale. In materia di istruzione e formazione, la legislazione statale dovrà definire esclusivamente le norme generali quali: l'ordine degli studi, gli standard di insegnamento, le condizioni per il conseguimento e la parificazione dei titoli di studio. Le Regioni dovranno, invece, curare l'organizzazione scolastica, strutturare l'offerta dei programmi educativi, garantire la gestione degli istituti scolastici. Come si leggeva già nella relazione di accompagnamento al disegno di legge, si intendeva realizzare il massimo di libertà di insegnamento e, in ultima analisi, accelerare il processo di modernizzazione del paese di cui l'istruzione e la formazione sono pilastri fondamentali.
Nessuno può far finta di non accorgersi degli enormi problemi che invece l’attuazione della devolution comporterebbe. È d’obbligo, ad esempio, chiedersi se gli insegnanti continueranno a essere pagati dallo Stato o saranno in carico alle Regioni. Se, come si deve intendere, passassero davvero sotto la responsabilità diretta delle Regioni significherebbe trasferire ad esse le relative risorse finanziarie (nell'ordine di almeno 30 miliardi di euro!) innescando in questo modo un terremoto finanziario. Alla spesa attuale dovrebbe poi aggiungersi la spesa aggiuntiva derivante dalla più forte strutturazione dei governi regionali scolastici e le risorse per gli interventi perequativi tra le diverse aree del paese. Il nostro bilancio statale non tollererebbe assolutamente la ripetizione di quanto è avvenuto in materia di sanità. È vero che il problema era presente anche al momento di approvare la riforma del Titolo V, ma occorre precisare che mentre in quel caso si sarebbe dovuto procedere semplicemente alla dotazione di sufficienti risorse finalizzate alla realizzazione delle nuove funzioni amministrative in capo alle Regioni, nel caso della riforma che dovrà essere o meno confermata nel referendum del 25 giugno 2006, l’autonomia fiscale e finanziaria delle Regioni determinerebbe una cessione semplice e irreversibile delle funzioni amministrative garantite finora dallo Stato, con il conseguente rovesciamento dei ruoli.
Le cose non stanno dunque come si vorrebbe far credere. Anzi in materia scolastica nascono molte più difficoltà che nelle due altre materie, la sanità o la polizia locale. Si consideri che, mentre per queste ultime, nel corso del lungo e complesso iter di approvazione parlamentare, sono state introdotte alcune limitazioni o comunque si è cercato di definire meglio i rapporti tra Stato e autonomie locali, in materia di istruzione non si è ritenuto di approfondire il discorso.
In realtà il problema non è soltanto giuridico o amministrativo, ma ancora una volta politico. Non disponiamo infatti di un’idea chiara sul modello di istruzione e di formazione che dovrà reggere l’Italia nei prossimi decenni. Il limite culturale italiano sulla scuola – la mancanza di un’idea – è proprio in generale di tutta la classe dirigente ed è fondato sulla più generale difficoltà a comprendere la differenza che c’è tra la gestione e l’organizzazione di un sistema scolastico. Semplificando al massimo, si potrebbe dire che se la gestione può tollerare ed anzi approfittare di una profonda e complessa articolazione di strutture e di livelli decisionali, l’organizzazione non può che essere pensata in maniera unitaria perché trova, nel caso della Repubblica italiana, il suo riferimento negli artt. 33 e 34 della carta costituzionale. Una prova decisiva è ad esempio il vincolo costituzionale introdotto nella costituzione dal famoso “emendamento Corbino” che vieta in maniera rigida ogni finanziamento delle scuole non statali.
L’organizzazione unitaria della scuola italiana non è costruita a partire dalla Costituzione ma è la Costituzione perché ne è insieme premessa ed effetto. E non vi è nessuna seria riforma di stampo federalista che possa anche minimamente assumere i contorni di una riforma separatista. Sempre che si intenda per scuola non semplicemente il suo apparato “riproduttivo”, o una banale funzione sociale, ma la realizzazione di un diritto-dovere di cittadinanza, come è stato pensato dai padri costituenti e come è insito nella storia di tutto il costituzionalismo moderno, compreso quello dei più accesi federalisti. Si tratta di un diritto della persona che supera ogni vincolo territoriale o sociale d’origine, che si confronta direttamente con il fondamento stesso della Repubblica e che chiede dunque di essere tutelato su tutto il territorio nazionale e semmai anche oltre, come dovrebbe essere per tutti i diritti di libertà che affondano le loro radici in processi morali molto più ampi di quelli storici relativi alla formazione e al consolidamento di singoli stati o di sue parti.
Vi sono certamente molti modi di essere ministro o assessore regionale dell’istruzione, così come vi sono molti modi di governare le democrazia. Quello di governare la scuola è tra i più difficili, per la grandezza dei numeri e per la difficoltà dei rapporti. Ma non possono esserci molti modi di concepire il fondamento della democrazia scolastica perché essa non riguarda la burocrazia della scuola, ma la realizzazione di una condizione di uguaglianza e di solidarietà che non può essere contraddetta da alcun depotenziamento del progetto democratico originario. Il diritto all’istruzione, secondo il merito e anche se sprovvisti di mezzi, non tollera alterazioni, né funzionali né organizzative, ma richiede che proprio attraverso la gestione si proceda a colmare quelle differenze che sono il frutto di una disuguaglianza. Semmai il problema è che le democrazia moderne sono molto meno governabili di quanto non immaginino i cittadini che rimproverano ai governi colpe che non sono più nemmeno loro e invece appartengono alla struttura profonda delle nostre società.
In sostanza la domanda fondamentale da porsi, proprio a partire dalla scuola, è la seguente: c’è ancora spazio in Italia per una azione politica alta, che non sia costretta ad arrestarsi o a deviarsi in ogni momento o che resti sempre a mezza strada, producendo più danni che vantaggi? La soluzione, a mio avviso, non potrà mai venire dall’ingegneria costituzionale, ma dalla sperimentazione di una filosofia politica nuova che attraverso le riforme costituzionali non aspiri a piegare lo Stato all’economia o ad interessi di parte, ma al contrario sostenga un progressivo svincolarsi della vita scolastica da ogni modello giuridico per aprirsi ad una prospettiva di perenne integrazione di vecchi e nuovi bisogni di cittadinanza, materiali e spirituali, nei confronti della propria patria di origine ma anche nei confronti della possibile diversa patria di adozione, nell’Unione europea o nel mondo.
Visto che siamo alla vigilia del referendum del 25 giugno 2006 sulla devolution, è opportuno vedere perché il passaggio da una già problematica competenza concorrente ad una competenza esclusiva delle regioni in materia scolastica renda ancora più difficile la modernizzazione del nostro sistema scolastico. Prima di tutto non siamo ancora in grado di valutare se le competenze che sono già state attribuite alle Regioni (per esempio la fissazione del calendario scolastico) così come altre competenze che sono da sempre state esercitate dagli enti locali (le Province hanno la competenza degli edifici per la scuola media superiore) abbiano dato i frutti sperati o se avrebbero potuto essere gestite meglio. Manca cioè una ricerca seria sullo stato del governo della scuola in tutte le sue articolazioni.
Nell'attuale progetto di devolution il passaggio delle competenze può significare che le Regioni acquisiscano autonomia anche nella determinazione dei programmi, del numero minimo degli studenti, sul personale non docente, sulle infrastrutture materiali ed immateriali, sul reclutamento dei docenti e forse anche, ma non è chiaro, sulla loro carriera e sul loro trattamento economico e previdenziale.
Per alcuni di questi aspetti l’Italia vive già da tempo in una situazione di devolution a causa della differenza di risorse disponibili, del diverso uso che se ne è fatto e della diversa efficacia che quell’uso ha avuto in contesti sociali molto differenziati. Una devolution di fatto che ha ulteriormente segmentato la scuola italiana, senza aiutare le regioni più ricche ad accompagnare il proprio potenziale di sviluppo e senza aiutare le più povere o le meno efficienti a recuperare il proprio svantaggio. «Se la riforma di devolution supererà la prova del referendum, ci si potrà attendere – ha giustamente scritto Daniele Checchi – un’inversione di tendenza nel (faticoso) processo di convergenza degli standard scolastici. Il rischio è che le Regioni con minori disponibilità di risorse siano costrette ad aumentare le dimensioni delle classi e/o a sfoltire il numero degli insegnanti, peggiorando lo standard di fornitura del servizio scolastico. A fronte di titoli di studio formalmente identici (licenza della scuola media inferiore) corrisponderebbe quindi un livello di acquisizione di competenze molto disomogeneo. Le conseguenze potrebbero essere molto gravi nel medio-lungo periodo»[3].
Si può dimostrare, ad esempio, che anche nel caso italiano (così come già ampiamente documentato per gli Stati Uniti, Svezia e Gran Bretagna) una riduzione nel numero degli insegnanti, compresi quelli per il sostegno, produrrebbe una difficoltà aggiuntiva per molti giovani a continuare negli studi. E se il livello di istruzione dei genitori, o le loro possibilità economiche, non sono in grado di supplire alle deficienze della scuola e nella formazione dei loro figli, ci sarebbe il rischio di avviare anche il nostro paese in una spirale perversa che lo ricondurrebbe indietro di molti decenni. Scarse risorse pubbliche disponibili per l'istruzione (nella forma di pluriclassi, edifici inadeguati, classi con doppi e tripli turni, che sono realtà ancora diffusa in alcune aree) contribuiscono a ridurre la scolarità in un’intera generazione.
Inoltre applicare un modello concorrenziale tra le scuole di singole parti del paese o all’interno delle stesse città non ha alcun senso quando si vogliano applicare questi principi alla scuola dell'obbligo. Il dettato costituzionale di una istruzione obbligatoria “per almeno otto anni” vincola qualsiasi ente pubblico a fornire un servizio che segue i cittadini e non li sposta lontano dalla loro comunità. L’istruzione è un servizio universale ad altissimo valore territoriale che lascia pochissimi margini alla concorrenza. Ciò vale per bambini e i giovani, ma varrà sempre di più anche per gli anziani, i disoccupati o i male occupati. La prospettiva epocale di una formazione ricorrente, lungo l’intero arco della vita, riporta in primo piano proprio le funzioni predittive della programmazione scolastica che non possono essere di qualità se non sono almeno a livello di Stati o di macroaree. Senza la possibilità che la popolazione si muova in lungo e in largo nel paese (almeno per l’istruzione superiore o per quella tecnica e professionale) alla ricerca delle migliori scuole – cosa che un rigido meccanismo federale non potrebbe tollerare e tanto meno gestire –, si arriverebbe inoltre al paradosso che non si potrebbe rendere effettivo nessun sistema di sanzioni delle Regioni inefficienti nel fornire una buona istruzione ai propri cittadini.
Non si devono nemmeno trascurare i profili giuridici relativi alla formazione degli insegnanti e alla libertà di insegnamento. Se le Regioni potessero intervenire pesantemente sui programmi o sui metodi di insegnamento e di valutazione si creerebbero conflitti di non poco conto tra esse, senza che lo Stato possa intervenire in maniera decisiva per imporre curricula universitari unitari o per impedire che in loro assenza o in presenza di specializzazioni troppo spinte si blocchi di fatto la mobilità dei docenti a livello nazionale.
Se si toglie all’amministrazione centrale ogni potere preventivo o comunque se la si riduce a poco di più che ad una semplice funzione notarile rispetto a quanto possono dire la Costituzione o leggi quadro estremamente generali, lo Stato centrale si troverebbe ad essere ridotto a semplice sede di contenzioso o comunque a non poter collegare le funzioni di indirizzo generale con quelle di valutazione del sistema.
In conclusione si può affermare che, esaminata dalla prospettiva scolastica, la riforma costituzionale approvata dalla maggioranza di centrodestra mostra tutti i suoi limiti e che non aiuterebbe a risolvere nessuno dei problemi della scuola. Molto di ciò che essa presuppone di buono potrebbe essere raggiunto a costituzione vigente e semmai intervenendo a precisare meglio alcuni punti della riforma del Titolo V approvata nel 2001. Come è stato affermato con intelligenza da E. Bertonelli e G. Rodano, «la riforma di un servizio cruciale e delicato quale è quello della scuola […] non può non investire l’insieme delle relazioni della società civile. Una simile riforma non può dunque consentire scorciatoie giacobine e comporta invece uno sviluppo graduale e procedure mirate i cui diversi passaggi richiedono a loro volta di essere diffusamente condivisi o, se si vuole, largamente e pazientemente metabolizzati»[4].Alla devolution di Bossi e colleghi si può dire tranquillamente «no!, grazie», per dedicarsi invece ad un efficace sviluppo dei percorsi dell’autonomia.

tognon@lumsa.it
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