La modifica della
Costituzione voluta dal governo Berlusconi ed approvata dalla maggioranza di
centrodestra (la
devolution imposta dalla Lega)
prevede che le Regioni abbiano competenze
esclusive su sanità,
istruzione e polizia locale
,
mentre con la riforma costituzionale del 2001 (
riforma del Titolo V,
legge cost. n.3 del 18 ottobre 2001) voluta dal centrosinistra ed approvata con
il ricorso al referendum confermativo, le Regioni hanno soltanto competenza
concorrente
su sanità e istruzione e nulla per quanto riguarda le funzioni di polizia.
Alla
riforma del Titolo V si
era arrivati attraverso un percorso quinquennale che aveva preso il via con la
legge delega del 15 marzo 1997, n. 59, che si proponeva di spingere il
decentramento delle funzioni statali il più lontano possibile, e grazie alla
legge cost. n. 1 del 22 novembre 1999 che rafforzava i poteri delle giunte
regionali e in particolare il ruolo del loro Presidente. Le Regioni sono ormai
dotate di una più forte autonomia statutaria e di una maggiore autonomia di
governo. In materia di istruzione il modello che si è disegnato è quello di un
sistema ancora unitario fondato su di un più evoluto principio di sussidiarietà
che conserva comunque allo Stato centrale il compito di garantire i livelli
delle prestazioni e dunque di perseguire una politica nazionale coerente.
A onor del vero, la
riforma del
Titolo V presentava già due enormi problemi: l’eccesso di dettaglio con cui
il Parlamento nazionale interpretava i princìpi della legislazione concorrente
e la difficoltà di applicare il vecchio sistema tradizionale dei controlli
preventivi sulla legislazione regionale. Senza contare che la mancata soluzione
del problema del bicameralismo perfetto rendeva quasi impossibile realizzare un
assetto veramente federativo della Repubblica. Il limite costituzionale di
fondo della
riforma del Titolo V è stato quello di voler calare elementi
di federalismo, per un verso non sufficienti e per l’altro incerti, in una
Costituzione pensata per un sistema unitario molto forte e per ciò stesso
passibile di forme evolute di decentramento, ma non di federalismo.
Non è tuttavia vero che la
devolution
del centrodestra risolva i problemi, anzi. Se fosse approvata, la nuova riforma
della Costituzione taglierebbe gli ormeggi che ancora tengono aperto il
confronto tra i diversi centri del potere per avventurarsi in uno spazio dove
esploderebbero delle contraddizioni che potrebbero mettere in discussione
l’intera Repubblica.
Il problema di dotare l’Italia di un
assetto scolastico federale o comunque più articolato è tra i più delicati tra
i molti che si sono affrontati nella recente e convulsa stagione di riforme
istituzionali. Le difficoltà non sono soltanto di natura ordinamentale, ma
affondano in una grave lacuna di iniziativa politica e culturale che ha
condotto ormai da decenni la scuola italiana in una situazione di stallo. Il
venir meno dei partiti di massa e la progressiva separazione tra essi e la
classe docente, complice anche una miope gestione sindacale degli interessi degli
insegnanti, ha condotto la politica scolastica a rincorrere effimeri progetti
di modernizzazione senza riuscire ad elaborare una strategia condivisa e
partecipata di rinascita educativa e professionale.
Per molti anni, almeno fino agli
anni Settanta, i partiti politici avevano esercitato, in Parlamento e nel
paese, una funzione di supplenza anche rispetto alla nostra Costituzione che in
realtà non contiene un profilo chiaro di quello che avrebbe potuto essere o
potrebbe diventare il governo della istruzione nazionale e che di fatto ha
considerato come efficace il vecchio modello liberale di governo della scuola,
centralistico e pervasivo, ereditato dalla riforma Casati del 1860, la prima
riforma organica della scuola del Regno, e soltanto perfezionato dalla riforma
Gentile del 1923. La nostra Costituzione si era mossa, ma non poteva allora
essere altrimenti, nel solco di una lunga tradizione culturale che vedeva la
scuola come agenzia di alfabetizzazione del paese, come sostegno alla mobilità
sociale e al riscatto delle plebi e come strumento della formazione delle
élites,
in sostanza come un modello sociale completo. Non stupisce il fatto che, al
termine della prima grande stagione di allargamento della base scolastica del
paese, con l’avvento di una scuola di massa e con l’emergere di una crisi del
modello di sviluppo fondato sulla relativa autonomia della scuola dal mercato
del lavoro, la politica scolastica sia entrata in crisi e tutto il potere, se
così si può dire, sia ritornato in capo al ministero e in sostanza si sia
ridotto a semplice governo del personale. Il susseguirsi di progetti di riforma
abortiti e in particolare l’incapacità di riformare la scuola secondaria
superiore dimostrano con abbondanza di esempi sia un limite politico che un
limite culturale del Paese.
Sarebbe molto lungo descrivere in
questa sede l’evoluzione o, meglio, la mancata evoluzione, del modello di
governo della scuola italiana: basta ricordare che il ministro della Pubblica
istruzione è rimasto anche in epoca repubblicana l’unico e forse ultimo
ministro “napoleonico” dello Stato e che, in termini relativi, assomma in sé
molti più poteri del Presidente del Consiglio, perché è veramente il vertice di
una piramide decisionale che abbraccia l’intero mondo della scuola. Il ministro
dispone, il ministro decide, il ministro nomina: malgrado i numerosi passi
avanti realizzati nel campo dell’autonomia scolastica, il ministro che siede
nel palazzo di viale Trastevere conserva un potere di “altri tempi” che
purtroppo non sempre i ministri sanno esercitare con discrezione ed
intelligenza.
Un punto di svolta si è avuto
intorno al 1990 quando si è fatta strada l’idea che l’autonomia scolastica
dovesse essere la grande sfida per il futuro. Nella Conferenza nazionale della
scuola di quell’anno si affermò concordemente che la scuola non doveva più
essere considerata come l’ultimo degli uffici dello Stato, ma come il primo dei
servizi al cittadino. Da quel momento gli interventi normativi sono stati
numerosi, e, anche se disordinati e talvolta mal gestiti, ci hanno consegnato
una scuola ormai abituata a dover “fare da sola”, alla ricerca piuttosto di
sostegni a livello orizzontale, refrattaria ad ogni riprogettazione dirigistica
e ad ogni strumentalizzazione. Restano ancora ostruiti i canali di
progettazione condivisa tra docenti e genitori, tra dirigenti scolastici e
responsabili locali, tra scuole e territorio: tutto potrebbe concorrere senza
difficoltà a fare in modo che essi si aprano, eccetto che una regionalizzazione
rigida del sistema che avrebbe la conseguenza di riaccendere la polemica
politica e lo scontro ideologico all’interno del già fragile sistema
scolastico. In molti casi il fatto che il “potere” sia “più lontano” è garanzia
di libertà e di sollievo!
Su questa scuola, alle prese con
tutti i limiti imposti dalla carenza o dal cattivo uso delle risorse
finanziarie, da un endemico problema di precariato e da una evidente crisi
della funzione magistrale, la
devolution di Bossi entrerebbe “a gamba
tesa” determinando un definitivo crollo dello spirito unitario scolastico che,
nel bene e nel male, ha garantito all’Italia repubblicana la realizzazione di
alcuni fondamentali obiettivi di democrazia e di concordia nazionale. La scuola
italiana non tollererebbe di essere rinchiusa in ghetti regionali che anziché
favorirne l’autonomia ne determinerebbero l’asfissia o l’ipertrofia, a seconda
del contesto territoriale ed economico in cui ci si trova.
D’altra parte, tra la riforma
costituzionale del governo della scuola proposta dalla destra e la politica
scolastica perseguita dalla stessa parte politica vi è stata una plateale
contraddizione. Mentre la
devolution spezza ogni seria continuità
legislativa e azzera la pretesa di universalità dell’intervento centrale da
parte dello Stato, la riforma Moratti, discutibilissima per molti aspetti, è
intervenuta ad assetto istituzionale costante senza nemmeno adoperarsi per
realizzare quanto previsto dalla
riforma del Titolo V in materia di
decentramento. Ancora una volta si è separato il momento del “governo
speciale”, di settore, da quello generale e non si è tenuto conto del problema
sollevato in merito all’organizzazione generale della Repubblica. Un governo
della scuola più intelligente e lungimirante avrebbe certamente contribuito a
rendere più evidenti i limiti della proposta riforma costituzionale e forse
avrebbe potuto renderla migliore.
L’obiettivo della riforma voluta da
Bossi è stato spiegato dai proponenti come se fosse semplicemente la
realizzazione di principi di buon senso e il compimento della trasformazione
repubblicana da stato centralizzatore a stato federale. In materia di
istruzione e formazione, la legislazione statale dovrà definire esclusivamente
le norme generali quali: l'ordine degli studi, gli
standard di
insegnamento, le condizioni per il conseguimento e la parificazione dei titoli
di studio. Le Regioni dovranno, invece, curare l'organizzazione scolastica,
strutturare l'offerta dei programmi educativi, garantire la gestione degli
istituti scolastici. Come si leggeva già nella relazione di accompagnamento al
disegno di legge, si intendeva realizzare il massimo di libertà di insegnamento
e, in ultima analisi, accelerare il processo di modernizzazione del paese di
cui l'istruzione e la formazione sono pilastri fondamentali.
Nessuno può far finta di non
accorgersi degli enormi problemi che invece l’attuazione della
devolution
comporterebbe. È d’obbligo, ad esempio, chiedersi se gli insegnanti
continueranno a essere pagati dallo Stato o saranno in carico alle Regioni. Se,
come si deve intendere, passassero davvero sotto la responsabilità diretta
delle Regioni significherebbe trasferire ad esse le relative risorse
finanziarie (nell'ordine di almeno 30 miliardi di euro!) innescando in questo
modo un terremoto finanziario. Alla spesa attuale dovrebbe poi aggiungersi la
spesa aggiuntiva derivante dalla più forte strutturazione dei governi regionali
scolastici e le risorse per gli interventi perequativi tra le diverse aree del
paese. Il nostro bilancio statale non tollererebbe assolutamente la ripetizione
di quanto è avvenuto in materia di sanità. È vero che il problema era presente
anche al momento di approvare la
riforma del Titolo V, ma occorre
precisare che mentre in quel caso si sarebbe dovuto procedere semplicemente
alla dotazione di sufficienti risorse finalizzate alla realizzazione delle
nuove funzioni amministrative in capo alle Regioni, nel caso della riforma che
dovrà essere o meno confermata nel referendum del 25 giugno 2006, l’autonomia
fiscale e finanziaria delle Regioni determinerebbe una cessione semplice e
irreversibile delle funzioni amministrative garantite finora dallo Stato, con
il conseguente rovesciamento dei ruoli.
Le cose non stanno dunque come si
vorrebbe far credere. Anzi in materia scolastica nascono molte più difficoltà
che nelle due altre materie, la sanità o la polizia locale. Si consideri che,
mentre per queste ultime, nel corso del lungo e complesso iter di approvazione
parlamentare, sono state introdotte alcune limitazioni o comunque si è cercato
di definire meglio i rapporti tra Stato e autonomie locali, in materia di
istruzione non si è ritenuto di approfondire il discorso.
In realtà il problema non è soltanto
giuridico o amministrativo, ma ancora una volta politico. Non disponiamo
infatti di un’idea chiara sul modello di istruzione e di formazione che dovrà
reggere l’Italia nei prossimi decenni. Il limite culturale italiano sulla
scuola – la mancanza di un’idea – è proprio in generale di tutta la classe
dirigente ed è fondato sulla più generale difficoltà a comprendere la
differenza che c’è tra la gestione e l’organizzazione di un sistema scolastico.
Semplificando al massimo, si potrebbe dire che se la gestione può tollerare ed
anzi approfittare di una profonda e complessa articolazione di strutture e di livelli
decisionali, l’organizzazione non può che essere pensata in maniera unitaria
perché trova, nel caso della Repubblica italiana, il suo riferimento negli
artt. 33 e 34 della carta costituzionale. Una prova decisiva è ad esempio il
vincolo costituzionale introdotto nella costituzione dal famoso “emendamento
Corbino” che vieta in maniera rigida ogni finanziamento delle scuole non
statali.
L’organizzazione unitaria della
scuola italiana non è costruita
a partire dalla Costituzione ma
è la Costituzione perché ne è insieme premessa ed effetto. E non vi è nessuna seria riforma di
stampo federalista che possa anche minimamente assumere i contorni di una
riforma separatista. Sempre che si intenda per scuola non semplicemente il suo
apparato “riproduttivo”, o una banale funzione sociale, ma la realizzazione di
un diritto-dovere di cittadinanza, come è stato pensato dai padri costituenti e
come è insito nella storia di tutto il costituzionalismo moderno, compreso
quello dei più accesi federalisti. Si tratta di un diritto della persona che
supera ogni vincolo territoriale o sociale d’origine, che si confronta
direttamente con il fondamento stesso della Repubblica e che chiede dunque di
essere tutelato su tutto il territorio nazionale e semmai anche oltre, come dovrebbe
essere per tutti i diritti di libertà che affondano le loro radici in processi
morali molto più ampi di quelli storici relativi alla formazione e al
consolidamento di singoli stati o di sue parti.
Vi sono certamente molti modi di
essere ministro o assessore regionale dell’istruzione, così come vi sono molti
modi di governare le democrazia. Quello di governare la scuola è tra i più
difficili, per la grandezza dei numeri e per la difficoltà dei rapporti. Ma non
possono esserci molti modi di concepire il fondamento della democrazia
scolastica perché essa non riguarda la burocrazia della scuola, ma la
realizzazione di una condizione di uguaglianza e di solidarietà che non può
essere contraddetta da alcun depotenziamento del progetto democratico originario.
Il diritto all’istruzione, secondo il merito e anche se sprovvisti di mezzi,
non tollera alterazioni, né funzionali né organizzative, ma richiede che
proprio attraverso la gestione si proceda a colmare quelle differenze che sono
il frutto di una disuguaglianza. Semmai il problema è che le democrazia moderne
sono molto meno governabili di quanto non immaginino i cittadini che
rimproverano ai governi colpe che non sono più nemmeno loro e invece
appartengono alla struttura profonda delle nostre società.
In sostanza la domanda fondamentale
da porsi, proprio a partire dalla scuola, è la seguente: c’è ancora spazio in
Italia per una azione politica alta, che non sia costretta ad arrestarsi o a
deviarsi in ogni momento o che resti sempre a mezza strada, producendo più
danni che vantaggi? La soluzione, a mio avviso, non potrà mai venire
dall’ingegneria costituzionale, ma dalla sperimentazione di una filosofia
politica nuova che attraverso le riforme costituzionali non aspiri a piegare lo
Stato all’economia o ad interessi di parte, ma al contrario sostenga un
progressivo svincolarsi della vita scolastica da ogni modello giuridico per
aprirsi ad una prospettiva di perenne integrazione di vecchi e nuovi bisogni di
cittadinanza, materiali e spirituali, nei confronti della propria
patria di
origine ma anche nei confronti della possibile diversa
patria di
adozione, nell’Unione europea o nel mondo.
Visto che siamo alla vigilia del
referendum del 25 giugno 2006 sulla
devolution, è opportuno vedere
perché il passaggio da una già problematica competenza concorrente ad una
competenza esclusiva delle regioni in materia
scolastica renda ancora più difficile la modernizzazione del nostro sistema
scolastico. Prima di tutto non siamo ancora in grado di
valutare se le competenze che sono già state attribuite alle Regioni (per
esempio la fissazione del calendario scolastico) così come altre competenze
che sono da sempre state esercitate dagli enti locali (le Province hanno la
competenza degli edifici per la scuola media superiore) abbiano dato i frutti
sperati o se avrebbero potuto essere gestite meglio. Manca cioè una ricerca
seria sullo stato del governo della scuola in tutte le sue articolazioni.
Nell'attuale progetto di
devolution
il passaggio delle competenze può significare che le Regioni acquisiscano
autonomia anche nella determinazione dei programmi, del numero minimo degli
studenti, sul personale non docente, sulle infrastrutture materiali ed
immateriali, sul reclutamento dei docenti e forse anche, ma non è chiaro, sulla
loro carriera e sul loro trattamento economico e previdenziale.
Per alcuni di questi aspetti
l’Italia
vive già da tempo in una situazione di
devolution a
causa della differenza di risorse disponibili, del diverso uso che se ne è
fatto e della diversa efficacia che quell’uso ha avuto in contesti sociali
molto differenziati. Una
devolution di fatto che ha ulteriormente
segmentato la scuola italiana, senza aiutare le regioni più ricche ad
accompagnare il proprio potenziale di sviluppo e senza aiutare le più povere o
le meno efficienti a recuperare il proprio svantaggio. «Se la riforma di
devolution
supererà la prova del referendum, ci si potrà attendere – ha giustamente
scritto Daniele Checchi – un’inversione di tendenza nel (faticoso) processo di
convergenza degli standard scolastici. Il rischio è che le Regioni con minori
disponibilità di risorse siano costrette ad aumentare le dimensioni delle
classi e/o a sfoltire il numero degli insegnanti, peggiorando lo standard di
fornitura del servizio scolastico. A fronte di titoli di studio formalmente
identici (licenza della scuola media inferiore) corrisponderebbe quindi un
livello di acquisizione di competenze molto disomogeneo. Le conseguenze
potrebbero essere molto gravi nel medio-lungo periodo»
.
Si può dimostrare, ad esempio, che
anche nel caso italiano (così come già ampiamente documentato per gli Stati
Uniti, Svezia e Gran Bretagna) una riduzione nel numero degli insegnanti,
compresi quelli per il sostegno, produrrebbe una difficoltà aggiuntiva per
molti giovani a continuare negli studi. E se il livello di istruzione dei
genitori, o le loro possibilità economiche, non sono in grado di supplire alle
deficienze della scuola e nella formazione dei loro figli, ci sarebbe il
rischio di avviare anche il nostro paese in una spirale perversa che lo
ricondurrebbe indietro di molti decenni. Scarse risorse pubbliche disponibili
per l'istruzione (nella forma di pluriclassi, edifici inadeguati, classi con
doppi e tripli turni, che sono realtà ancora diffusa in alcune aree) contribuiscono
a ridurre la scolarità in un’intera generazione.
Inoltre applicare un modello
concorrenziale tra le scuole di singole parti del paese o all’interno delle
stesse città non ha alcun senso quando si vogliano applicare questi principi
alla scuola dell'obbligo. Il dettato costituzionale di una istruzione
obbligatoria “per almeno otto anni” vincola qualsiasi ente pubblico a fornire
un servizio che segue i cittadini e non li sposta lontano dalla loro comunità.
L’istruzione è un servizio universale ad altissimo valore territoriale che
lascia pochissimi margini alla concorrenza. Ciò vale per bambini e i giovani,
ma varrà sempre di più anche per gli anziani, i disoccupati o i male occupati.
La prospettiva epocale di una formazione ricorrente, lungo l’intero arco della
vita, riporta in primo piano proprio le funzioni predittive della
programmazione scolastica che non possono essere di qualità se non sono almeno
a livello di Stati o di macroaree. Senza la possibilità che la popolazione si
muova in lungo e in largo nel paese (almeno per l’istruzione superiore o per
quella tecnica e professionale) alla ricerca delle migliori scuole – cosa che
un rigido meccanismo federale non potrebbe tollerare e tanto meno gestire –, si
arriverebbe inoltre al paradosso che non si potrebbe rendere effettivo nessun
sistema di sanzioni delle Regioni inefficienti nel fornire una buona istruzione
ai propri cittadini.
Non si devono nemmeno trascurare i
profili giuridici relativi alla formazione degli insegnanti e alla libertà di
insegnamento. Se le Regioni potessero intervenire pesantemente sui programmi o
sui metodi di insegnamento e di valutazione si creerebbero conflitti di non
poco conto tra esse, senza che lo Stato possa intervenire in maniera decisiva
per imporre curricula universitari unitari o per impedire che in loro assenza o
in presenza di specializzazioni troppo spinte si blocchi di fatto la mobilità
dei docenti a livello nazionale.
Se si toglie all’amministrazione
centrale ogni potere preventivo o comunque se la si riduce a poco di più che ad
una semplice funzione notarile rispetto a quanto possono dire la Costituzione o leggi quadro estremamente generali, lo Stato centrale si troverebbe ad essere
ridotto a semplice sede di contenzioso o comunque a non poter collegare le
funzioni di indirizzo generale con quelle di valutazione del sistema.
In conclusione si può affermare che,
esaminata dalla prospettiva scolastica, la riforma costituzionale approvata
dalla maggioranza di centrodestra mostra tutti i suoi limiti e che non aiuterebbe
a risolvere nessuno dei problemi della scuola. Molto di ciò che essa presuppone
di buono potrebbe essere raggiunto a costituzione vigente e semmai intervenendo
a precisare meglio alcuni punti della
riforma del Titolo V approvata nel
2001. Come è stato affermato con intelligenza da E. Bertonelli e G. Rodano, «la
riforma di un servizio cruciale e delicato quale è quello della scuola […] non
può non investire l’insieme delle relazioni della società civile. Una simile
riforma non può dunque consentire scorciatoie giacobine e comporta invece uno
sviluppo graduale e procedure mirate i cui diversi passaggi richiedono a loro
volta di essere diffusamente condivisi o, se si vuole, largamente e
pazientemente metabolizzati»
.Alla
devolution di Bossi e colleghi si può dire tranquillamente «no!,
grazie», per dedicarsi invece ad un efficace sviluppo dei percorsi
dell’autonomia.
tognon@lumsa.it