Il secolo XX è stato considerato l’epoca della faticosa affermazione su vasta scala della democrazia. Questo processo è stato, per molti versi, parallelo al riconoscimento progressivo dell’inviolabilità dei diritti fondamentali della persona umana e alla loro costituzionalizzazione.
Per millenni si è considerato il démos incapace di autogoverno e di scelte politiche adeguate a perseguire giustizia e bene. Il dibattito sull’autorità politica e sul buon governo, fin da Aristotele, si è mosso sulle alternative pratiche e concettuali tra l’affidamento del potere ad uno, a molti, ad alcuni. La storia rende evidente il prevalere di soluzioni per lo più autoritarie, di tipo monarchico o oligarchico. I principi della democrazia, pur avendo una prima manifestazione in età classica, sono prevalentemente un’acquisizione della modernità. Il concetto stesso di eguaglianza, fondamentale per la fondazione dell’idea democratica, è in senso politico-giuridico una travagliata conquista della modernità.
Robert Dahl, con la lucidità che sempre ha contraddistinto la sua riflessione, pone come domanda centrale di ogni riflessione sulla democrazia l’interrogativo del perché dovremmo preferire questo sistema di governo ad alternative di altra natura. Il politologo elenca alcuni “vantaggi” che la rendono migliore rispetto a ogni altro modello di organizzazione del potere politico: la democrazia, infatti, ostacola la tirannia e l’assolutismo, tende alla pace e alla prosperità, garantisce (o quantomeno si sforza di garantire) i diritti fondamentali – sociali, civili, politici –, aiuta nello sviluppo delle libertà individuali e nella realizzazione del proprio progetto di vita, promuove il progresso umano, aiuta nella formazione alla libertà di coscienza e alla responsabilità morale, si impegna nella sostanziale realizzazione dell’uguaglianza e della partecipazione politica[2].
La democrazia come vocazione umana
Queste condivisibili motivazioni hanno – come è stato ben messo in evidenza dalle riflessioni sulla politica operate dal Personalismo – un fondamento insuperabile nel guadagno teorico e nel riconoscimento storico della dignità della persona umana e della sua “vocazione antropologica”. La democrazia, se vuol realmente essere un sistema di convivenza giusto, necessita di questo riconoscimento e di una fondazione sulla naturale apertura sociale e politica del soggetto. Solo attraverso questo arricchimento sostantivo si può fruttuosamente coniugare la dimensione formal-procedurale (le cosiddette regole del gioco, per usare una felice espressione di Bobbio) e la dimensione sostanziale (i presupposti antropologici, etici e sociali che fanno di un gruppo di individui un popolo e una comunità politica). Su questa linea, nella Lettera aperta sulla democrazia, Mounier sottolineava come «noi non propendiamo verso la democrazia per motivi puramente e unicamente politici o storici, ma per motivi d’ordine spirituale e umano. [...] I principi politici della democrazia moderna, sovranità del popolo, uguaglianza, libertà individuale, per noi non sono degli assoluti. Passano al vaglio della nostra concezione dell’uomo, della persona e della comunità che la sviluppa e la completa»[3]. Il pensatore francese antepone una precisa concezione dell’umano e della sua dignità ai principi tipici del liberalismo democratico, anzi cerca di rileggere e fondare questi principi su una definita immagine di uomo, e della socialità che ne porta a compimento la sua vocazione più autentica.
In un libretto famosissimo, ritengo per motivi simili, Maritain ha voluto legare – riprendendo Bergson – l’idea democratica alla dimensione evangelica o, per meglio dire, alla capacità che il messaggio cristiano ha di dischiudere e di rendere intellegibili alcuni caratteri dell’umano e di sostenere, attraverso le virtù, una socialità non distruttiva, cooperativa e tendente al bene comune. Così scrive il grande pensatore francese nel pieno della furia dei totalitarismi europei: «Grazie all’ispirazione evangelica, spesso misconosciuta ma pure attiva, la coscienza profana ha compreso la dignità della persona umana, e ha compreso che la persona umana, pur facendo parte dello Stato trascende lo Stato per il mistero inviolabile della sua libertà spirituale e per la sua aspirazione a beni assoluti»[4]. E, per questo, può coerentemente affermare che «la democrazia è quel regime in cui il popolo è pervenuto alla sua maggiore età sociale e politica, e ne esercita il diritto di dirigersi da se stesso, od anche che essa è il governo del popolo da parte del popolo e per il popolo”»[5], riprendendo così la famosissima espressione di Abramo Lincoln. L’anima autentica della democrazia è questa tensione umana alla solidale socialità, alla scoperta del bisogno dell’altro per la realizzazione autentica di sé.
Contrariamente a quanto sostenuto da grandi maestri della teoria politica moderna (Machiavelli e Hobbes, in particolare), per il credente Maritain, nonostante nella natura umana vi siano pulsioni egoistiche e contrarie ad un armonioso convivere, e che la democrazia si ponga come autentico «paradosso e sfida per la natura»[6], nell’ideale di una politica democratica si tenta operosamente di «correggere la natura, uno sforzo connesso allo sviluppo della ragione e della giustizia e che deve compiersi nella storia sotto l’influsso del fermento cristiano: uno sforzo perché la natura e l’ordine che è loro temporale siano elevati al piano che è loro proprio, al piano dove progredisce la civiltà, per azione di tale fermento. [..]»[7]. Questo rimane, secondo il francese, il fondo stesso di ogni teoria della democrazia: ragione e giustizia «confidano nelle risorse e nella vocazione della natura umana»[8]. Tale idealità, fondata sulla speranza di una umanità che riscopra la sua vera propensione, si compirà solo se vi sarà coscienza della forza della verità e dell’amore, se si riconoscerà la grandezza dell’animo umano, se si porrà lo spirito e la libertà alla sommità della gerarchia valoriale, se si scoprirà che felicità e sacrificio di sé sono intimamente connessi[9]. Una filosofia politica democratica o umanistica si riconosce, dunque, dalla connessione inscindibile tra il valore indisponibile della dignità della persona, i diritti fondamentali, l’uguaglianza sostanziale, il primato della giustizia e della legge in un ottica di solidale fratellanza universale della famiglia umana. Questa filosofia vive nel «convincimento che il compito per eccellenza della politica è il rendere migliore e più fraterna la vita comune, e di far sì che l’architettura di leggi, d’istituzioni e di usanze di questa vita comune diventi una casa per tanti fratelli»[10].
Del resto, al di là della polemica tra formalismo e sostanzialismo, lo stesso Bobbio, pur ispirandosi in buona misura all’insegnamento kelseniano, non riuscì mai a non riconoscere l’esistenza di un legame strettissimo tra regole procedurali e valori. Non solo nel cosiddetto minimo etico dell’accettazione e del rispetto delle regole del gioco democratico (che stabiliscono evidentemente chi e come è autorizzato all’esercizio del potere politico), ma anche nella presupposizione di un paniere di valori condivisi essenziali per la fondazione di una comunità democratica e di una filosofia sociale umanistica: tolleranza, non violenza, fratellanza nel comune destino umano, fiducia nel libero dibattito delle idee per il miglioramento delle condizioni sociali e umane[11]. Ma tutto ciò rimarrebbe precario se non fondato sulla dignità umana e sul costitutivo bisogno della persona di compimento relazionale.
Su un altro versante, ponendo al centro questo riconoscimento etico-antropologico, anche il pensiero sociale della chiesa cattolica dopo aver riconosciuto la bontà del sistema democratico in modo solenne nei documenti del Vaticano II, ne ha riconfermato la validità nell’enciclica sociale di Giovanni Paolo II Centesium annus e, ancor oggi, afferma che «un’autentica democrazia non è solo il risultato di un rispetto formale di regole, ma è il frutto della convinta accettazione dei valori che ispirano le procedure democratiche: la dignità della persona, il rispetto dei diritti dell’uomo, l’assunzione del “bene comune” come fine e criterio regolativo della vita politica. Se non vi è un consenso generale su tali valori, si smarrisce il significato della democrazia e si compromette la sua stabilità»[12].
Le radici della solidarietà tra diversi
Il tema dei valori è dunque centrale per lo spirito democratico. Uguaglianza e giustizia come principi ispiratori del costituzionalismo contemporaneo non potrebbero reggersi se non promossi all’interno di un quadro sostantivo ed eticamente pregno. Per questo ritengo ampiamente condivisibili affermazioni di questa natura: una concezione solida della democrazia non può darsi senza sostenere che essa «sia di per sé, in quanto tale, un bene comune. [...] Bene comune, dunque, nel senso più ampio e totalizzante: bene, presente o futuro, di tutti gli uomini, di tutto il mondo»[13]. Tale convinzione è certamente legata al rifiuto di concezioni meramente procedurali della democrazia.
Quest’ultima, come già detto, non è solo regola per la gestione dei processi istituzionali e politici. Non può assolutamente venir ridotta a procedure formali che organizzano i livelli dello Stato e le modalità della partecipazione: senza un riferimento assiologico è evidente che le procedure sarebbero vuote e ingiustificabili, se non addirittura percepite come opprimenti e inutili. Le procedure devono sempre calibrarsi su una visione della socialità, dell’uomo e del rapporto tra giusto e bene. «Per non ridurre la democrazia – scrive Habermas – a una determinata somma di regole di gioco e la partecipazione politica alla utilizzazione di queste regole, occorre vedere in quest’ultima non solo un effetto ma anche una causa, non solo un fattore destinato a garantire (sommato ad altri fattori) l’equilibrio, ma anche una precisa funzione nel difficile e incerto processo dell’autoemancipazione dell’umanità»[14]. Proprio questo telos dell’auto-emancipazione umana ci aiuta a leggere con chiavi laiche l’affermarsi contemporaneo dell’idea che la democrazia sia irrinunciabile per il pieno riconoscimento della libertà e dignità dell’uomo, e per lo stesso sviluppo dei popoli.
Certo non possiamo accogliere nessuna idea di “esportazione” della democrazia. Essa rimane vincolata al destino di un popolo e alla capacità di una nazione di orientare la storia verso valori di convivenza fondati sui diritti fondamentali e sull’uguaglianza degli individui. Ovvero la capacità di far crescere, lungo le crepe della storia e il suo travagliato movimento, idee di rispetto e riconoscimento dell’altro, fino al punto di porle a fondamento dello Stato. Non vi è a mio avviso possibilità alcuna di misconoscere totalmente il legame connettivo che lega il concetto di democrazia alla persona e al “mite potere” che il logos esprime nel chiarificare la vocazione del soggetto a una convivenza pacificata e umanizzante. La storia, purtroppo, ci ha messo più volte di fronte a mostruosità inaudite e insopportabili, dove la radice stessa dell’umano convivere è stata calpestata e resa negletta. Però le società vivono della tensione etica al compimento e per questo speriamo possano assumere un volto sempre più perfetto. Qui si gioca, a mio parere, la grande chance dell’Occidente: non l’inattuale idea di “esportazione” (forzosa o, addirittura, belligerante) di un ethos o di un modello di socialità, ma il concorso cooperativo affinché popoli e culture diverse trovino vie praticabili per costruire società e Stati davvero a misura dell’umana dignità.
Proprio per queste convinzioni, non è difficile affermare che la stessa coesione interna dei sistemi democratici, oltre che influenzata dall’esterno dai processi politici reali, ha come suo fattore interno, ancora una volta, la capacità di una comunità politica di rispondere al bisogno di socialità insito nella natura umana. La dimensione aggregativa risponde, infatti, al tema del compimento umano: l’uomo non è in grado di raggiungere da singolo la pienezza dell’essere, ma ha bisogno di una società che lo accompagni nella crescita della sua personalità, ponendo le condizioni affinché esso raggiunga speditamente la propria autenticità e realizzazione. In tal senso è davvero opportuno tornare al richiamo aristotelico alla naturale politicità e ragionevolezza umana: l’essere umano ha bisogno dell’altro per poter germogliare in ciò che ha di più proprio e costitutivo, solo così la socialità non sarà accentuata al negativo, ma si innalza a dono che ci costituisce nella nostra identità attraverso la sua funzione etica e pedagogica. Il bisogno di alterità, che il pensiero contemporaneo ha tanto messo in evidenza, sarebbe vana cosa se non letto secondo la cifra di questa condizione intersoggettiva, che fa dell’uomo un essere concretamente capace di vivere il sentiero dell’autenticità come dono e compito. Se l’essere-con-altri è un dato antropologico invalicabile, allo stesso tempo, guardando alla dimensione del legame umano, questa condizione può sì trasformarsi in negatività e interruzione del circuito del riconoscimento dell’altro (e persino di violenta esclusione / sopraffazione / guerra), ma rimane nel suo carattere essenziale condizione di possibilità del compimento personale. La storia tende, drammaticamente, a questa pienezza di relazioni pacificate. La ferità che l’umano porta con sé trova un riscatto nell’accoglienza dell’altro e nell’essere accolti dall’altro. Questa è la base attraverso cui smentire il pessimismo “impolitico” del moderno, che vede nella socialità il luogo per lo scontro di egoistici istinti di dominio e conservazione. Ed è anche la via per riprendere un discorso accorato contro ogni tentativo pauroso di rendere le nostre società chiuse allo straniero e al migrante, paludando tutto ciò con richiami, nel migliore dei casi, a improbabili difese identitarie e a urgenti misure di sicurezza pubblica.
Il tema del riconoscimento dell’altro, e della sua costitutiva differenza, è questione che si impone nel programma di ogni teoria della convivenza e di ogni riflessione sui processi di democratizzazione del nostro mondo. Riconoscere l’altro per riconoscersi bisognosi dell’altro: è un virtuoso circolo da cui possiamo trarre indicazioni opportune per guidare la nostra riflessione sulla solidarietà tra estranei che sostiene ogni patto comunitario[15].
Per una socialità cooperante
La dimensione costitutiva dell’essere-con-altri o dello stare-insieme-ad-altri, come si è cercato di argomentare, è la condizione di possibilità o il vincolo trascendentale che ci permette la fondazione su base razionale della democrazia. Certamente, come Maritain ha messo in evidenza, la dimensione dello stare insieme ad altri non è di per sé capace di indirizzare questa coesistenza verso valori condivisi e l’interesse generale. Infatti, la grande sfida della democrazia risiede, da un lato, nell’affidare alle responsabilità dei cittadini le scelte per la gestione politica del loro con-vivere e, dall’altro, nel creare le condizioni affinché questa convivenza, non solo trovi gli strumenti per porre un limite alla conflittualità insita in ogni umano consorzio, ma si esprima in modo cooperativo e tendente al bene comune[16]. Tale limitazione degli egoismi individuali, che produrrebbero disgregazione e lacerazione nei legami e nelle stesse dinamiche relazionali, è funzionale o sinergica con la creazione di valore sociale.
Cooperare è necessario per le società di oggi. Ci sono però forme diverse di cooperazione. Ne distinguiamo schematicamente almeno tre: una sinergia di azioni datasi per superare una necessità negativa o una difficoltà (questo però, a ben pensarci, non qualifica veramente e nel profondo l’insieme delle azioni umane; anzi molte specie animali riescono in questo intento cooperativo, quantunque inconsapevolmente, meglio dell’uomo stesso); vi è invece una cooperazione egoistica (e/o illegale), cioè un’intesa di alcuni o molti a provvedere al proprio vantaggio a scapito della giustizia e del bene di tutti; vi è, infine, una capacità unica di mettere insieme le proprie “risorse”, realizzando quel valore aggiunto che porta al bene comune specifico dell’uomo e della sua vocazione al compimento: si tratta di tutte quelle forme di connessione cooperativa, di relazione operosa, che cresce attraverso la logica del dono, la condivisione, lo spirito di solidarietà, e che porta al superamento di ogni individualismo per rispondere a quel bisogno di pienezza e giustizia che l’uomo sente come vincolanti per la propria realizzazione.
Seguendo questa linea, vengono in aiuto, sul piano fondativo, alcune considerazioni svolte da Luigi Alici. Respingendo l’idea che la società sia «la risultante “esterna” di una molteplicità di individui, che hanno unicamente in se stessi la ragion d’essere ultima della propria identità»[17], egli mette in evidenza uno snodo storico-teoretico di fondamentale interesse sia, in generale, per la teoria politica, sia per l’economia del nostro discorso: porre al centro della socialità la natura relazionale dell’uomo, il quale è costitutivamente in grado di «“trovarsi” in relazione, ma anche di essere esso stesso origine di legami relazionali. [...] A questo punto la questione riguarda la possibilità di correlare la rete delle relazioni “passive”, che gli individui “trovano” come un orizzonte dato, entro il quale si distribuiscono tutte le loro esperienze comunicative, con l’intero volume delle relazioni “attive”, poste in essere dalle loro potenzialità pratiche e poietiche»[18].
Da qui, riprendendo un’intuizione del filosofo del diritto John Finnis, il quale riferendosi ai fondamenti del diritto naturale ci parla di «forme fondamentali della fioritura umana come beni da perseguire e da realizzare»[19], è possibile in questa sede far riferimento ad una fioritura personale e sociale che trova nella tensione cooperativa la sua condizione di possibilità e nella categoria di bene comune la sua istanza regolativa. Proprio nell’operosità per l’interesse generale troviamo uno dei tratti caratterizzanti l’ethos della democrazia moderna. Se ogni forma di Stato ha un suo particolare ethos, e se «la forma-Stato è l’oggettivazione di determinate rappresentazioni della convivenza umana, fondate su riflessioni della ragione e su decisioni della libertà dell’uomo»[20], non possiamo non riconoscere alla democrazia (almeno sul piano dei modelli politici) una superiore capacità di dar risposta, da un lato, al bisogno dell’altro che innerva la dinamica della relazione umana e, dall’altro, all’esigenza di uguaglianza tra gli individui. Questo si invera, altresì, nel fatto stesso di voler fondare (contro ogni machiavellismo) il principio di autorità politica e l’organizzazione dell’ordinamento statale in modo ascendente (dall’individuale al generale), e la volontà politica sulla base di decisioni collettive (attraverso i dispositivi della rappresentanza). Uguaglianza sociale, libertà/autonomia del soggetto, interesse generale sono gli elementi focali della democrazia moderna. Per questo esiste una connessione non negoziabile tra lo spirito democratico, il riconoscimento dell’identità personale e il logos che ci permette di articolare in modo adeguato l’idea di uno spazio pubblico plurale e polifonico. È alle istanze della ragione e della ragionevolezza che dobbiamo guardare se vogliamo sperare nella tenuta dei sistemi democratici. La discussione pubblica, infatti, chiede un surplus di dialogicità e di competenza che solo una visione discorsiva dei processi decisionali può garantire[21].
Le questioni aperte e la ragione pubblica
In via conclusiva, proviamo ad accennare ad alcuni nodi che oggi sembrano sfidare la solidità delle democrazie avanzate. Le questioni a cui facciamo riferimento attraversano tutte il tema della laicità dello sfera pubblica, e hanno al loro centro quella che ormai da qualche anno abbiamo imparato a definire come questione antropologica. Anzi si potrebbe affermare che la chiave antropologica trova nella categoria di laicità una saldatura teorico-pratica con le questioni sociali, i modelli di convivenza e l’eticità sostanziale che li sostiene.
Recentemente Habermas ha rilanciato nel dibattito attorno alla convivenza democratica l’idea di post-secolarità. Indicando con essa il tempo in cui gli schemi weberiani di secolarizzazione e disincanto sembrano cedere il passo a nuovi orizzonti, segnati non solo dalla fine delle grandi narrazioni (e dalle conseguenze della cosiddetta postmodernità[22]), ma da un nuovo sentire e da nuovi fenomeni: si prende atto, seguendo l’interpretazione del sociologo tedesco K. Eder, che in presenza di nuove urgenze etiche (bio-etiche / politiche, ecologiche, culturali) le religioni si ripropongono quali soggetti attivi all’interno della sfera pubblica e possono concorrere all’indagine sul senso del convivere[23]. Questo stato di cose non solo ha fatto cadere ogni prognosi neo-illuminista sulla disfatta del religioso, ma pone i termini per nuove interpretazioni dell’idea di laicità. Il modello moderno della separazione tra ambiti (privato / pubblico), da un lato, e sfere di influenza (coscienza / politica), dall’altro, non è più in grado di reggere l’urto dei problemi posti dal progredire della tecno-scienza e dalle nuove frontiere della multietnicità. Per questo pare sotto gli occhi di tutti l’urgenza di riconsiderare i modelli di laicità delle Istituzioni e, per conseguenza, di promuovere un serio dibattito pubblico sul concetto di convivenza e di benessere sociale[24].
Ma, per dirla ancora una volta con Maritain, le ragioni e le possibilità concrete del dialogo hanno come premessa che i partecipanti al discorso abbiano a cuore, «magari per ragioni completamente diverse, la verità e l’intelligenza, la dignità umana, la libertà, l’amore fraterno, e il valore assoluto del bene morale»[25]; i soggetti cioè basino il loro argomentare pubblico sui valori che stanno a fondamento di ogni cultura costituzionale. Questa disposizione si porrà come condizione di una ragione pubblica (Rawls) davvero aperta all’altro e non pregiudizialmente sorda alle sue convinzioni. Polifonicità e inclusività sono tratti che una sfera pubblica all’altezza delle provocazioni dell’oggi dovrebbe cercare di raggiungere. In democrazia non possono essere ritenuti validi spazi di intolleranza, di «extraterritorialità discorsiva»[26], né di appello dogmatico a verità non argomentabili. Bisogna promuovere un’idea di democrazia che ha nella laica «ricerca cooperativa della verità»[27] un’ineliminabile forza contro le guerre identitarie.
Proprio per questo non ritengo valida l’affermazione che la democrazia sia per sua essenza relativistica e scettica[28]. Mi pare più opportuno dire che la dimensione etico-politica, in quanto dimensione pratica, è sempre legata alla storicità delle nostre letture della realtà e all’ipoteticità in senso migliorativo delle soluzioni proposte. Ma non per questo non è possibile un’inclusiva ricerca del vero, come tensione verso la scoperta – mai compiuta definitivamente – di ciò che è legato alla condizione del con-vivere e alla ricerca del suo senso. Le diverse idee di vita e libertà individuale non sono, in questa prospettiva, incompatibili con l’appello regolativo alla ricerca instancabile del vero per l’uomo. L’individuo democratico è sì contro il dogmatismo, ma è anche in significativa alternativa allo scetticismo del nichilista[29]. Potremmo sostenere, con Popper, che l’atteggiamento democratico è proprio di chi accetta una concezione problematica del vero: frutto della fatica finita, esposta all’errore e alla fallibilità, dello spirito umano. Per questo uno spazio pubblico semanticamente robusto dovrebbe nutrirsi del dialogo e dell’argomentazione razionale come luogo concreto di avanzamento verso una socialità includente. La ricerca, nella prassi dialogica, di un senso condiviso segna i tratti di questo accomunante esercizio del logos. Ciò si sostanzia nel riconoscimento delle visioni dell’altro, impegnandosi a discuterne fino in fondo le ragioni, nella consapevolezza della non-definitività e dell’apertura alla revisione delle nostre conclusioni. È sempre auspicabile adoperarsi per uno spazio pubblico realmente pluralistico, ma non per questo eticamente agnostico o che si limiti a rilevare i legittimi diritti di autonomia dei singoli.
Questi mi sembrano alcuni punti attraverso i quali la filosofia sociale possa pazientemente contribuire all’ideazione di un concetto di laicità adeguato allo spirito dei tempi. Una laicità libera da ogni tentazione laicista e, allo stesso tempo, capace di definirsi come “spazio” della radicale ricerca delle buone ragioni. Ciò trova nella “naturale” socievolezza e razionalità dell’uomo un elemento certamente vitale.
Anche per questo, in via conclusiva, mi piace riprendere la fiducia che Enzo Bianchi ripone nella via alta della spiritualità dell’uomo, come fonte insopprimibile per una socialità non autodistruttiva e un con-vivere umanizzante. Spiritualità non «in stretto senso religioso, ma come vita interiore profonda, come fedeltà-impegno nelle vicende umane, come ricerca di un vero servizio agli altri, attenta alla dimensione estetica e alla creazione di bellezza nei rapporti umani. Spiritualità, soprattutto, come antidoto al nichilismo che è lo scivolo verso la barbarie: nichilismo che credenti e non credenti dovrebbero temere maggiormente nella sua forza di negazione di ogni progetto, di ogni principio etico, di ogni ideologia»[30]