Di fondamentale importanza fu l’esperienza del «ventennio nero» per l’itinerario intellettuale di Benedetto Croce. Soltanto in seguito al suo passaggio da convinto simpatizzante del movimento mussoliniano (considerato l’unico ingrato rimedio allo stato di anarchia permanente che soffocava il nostro Paese), a inflessibile oppositore del regime, la sua riflessione politica, che aveva a lungo oscillato tra la lezione di Marx, una tiepida e fuggevole simpatia per l’ideologia socialista, il pensiero anti-sistema di Georges Sorel, il legato dei teorici tedeschi dello «Stato potenza», come Heinrich von Treitschke, la piena accettazione della versione autoritaria del liberalismo ottocentesco mutuata dall’eredità della Destra storica, ebbe, soprattutto nel decennio 1928-1938, la sua svolta decisiva.
Unicamente dopo quella data, il pensiero politico di Croce iniziò a chiarirsi, nei suoi tratti distintivi, per dare luogo a un «nuovo liberalismo». Sarebbe stato quello un liberalismo diverso da quello del «mondo di ieri», per dirla con Stefan Zweig, ma proprio per questo in grado di fronteggiare la sfida dei totalitarismi del Novecento (quello fascista e quello comunista), diversi nelle loro premesse ideologiche ma egualmente avversi al vivere civile delle società occidentali, alle loro istituzioni politiche e alla loro tavola di valori morali. Croce, infatti, comprese perfettamente, e con indubbia tempestività, che se tutti i liberali, tutti i democratici e molti conservatori, durante la dittatura del fascio littorio e della svastica, furono antifascisti, non tutti gli antifascisti, in quello stessa congiuntura storica, furono liberali o democratici.
Croce non fu davvero «uno schietto fascista senza camicia nera», come gli rinfacciò Giovanni Gentile. Eppure, quella definizione di Gentile, pur pronunciata nel pieno della polemica, che oppose i due filosofi nel maggio del 1925, conteneva un elemento di verità. Quella definizione, infatti, evidenziava il disastroso «equivoco» che indusse Croce e i liberali a vedere nel capo del fascismo l’uomo che, dopo aver sconfitto la minaccia della rivoluzione bolscevica, si sarebbe ritirato nell’ombra, come un «nuovo Cincinnato» (il paragone fu avanzato da un altro liberale, Gaetano Mosca), pago di aver ripristinato «il normale funzionamento del sistema rappresentativo così come era accaduto a Roma nei migliori tempi della Repubblica, quando qualche volta, per la salvezza della patria, si ricorreva, per brevi periodi, alla dittatura provvisoria».
Questa disposizione di Croce nella fase della scalata al potere di Mussolini fu, infatti, anche di altri intellettuali, fedeli o vicini all’ideologia liberale, se si pensa ad economisti come Antonio De Viti de Marco, Umberto Ricci, Alberto De Stefani, che fu nominato ministro delle Finanze da Mussolini, il 31 ottobre 1922, i quali tutti puntarono a una liberalizzazione dell’economia italiana, suscitando il favore di Luigi Einaudi. Lo stesso Einaudi che avrebbe visto nel fascismo il potente maglio capace di abbattere il conglobato improduttivo degli antichi e dei novissimi interessi costituiti, non senza risparmiare parole di lode rivolte ai «giovani ardenti, in camicia nera, che chiamarono gli italiani alla riscossa contro il bolscevismo», i quali avevano riportato la vittoria nella contesa ingaggiatasi «tra lo spirito di libertà e lo spirito di sopraffazione».
Certo, non mancarono, sin dagli esordi dell’avventura mussoliniana, anche in area liberale, le voci ostili e premonitrici riguardo all’avvento della dittatura - come quelle di Giustino Fortunato, Giuseppe Antonio Borgese, Guido Dorso, Ugo Zanotti Bianco e di altri happy few - ma la frase di Gentile, riferita a Croce, restituisce bene quella che in casa liberale era una convinzione largamente condivisa. Non bisogna dimenticare, infatti, le dichiarazioni, a questo riguardo, formulate dal primo Segretario generale del Partito Liberale, Quintino Piras, nel 1924. A proposito del programma varato nel 1922 al primo Congresso di Bologna del Partito Liberale, in cui al primo punto vi era la «restaurazione in Italia dell’autorità dello Stato», Piras si espresse, poi, in questi termini:
Perché negarlo? Eravamo forse più fascisti dei pochi fascisti di allora - se per fascismo si intendeva l’unione degli animi che volevano forte e rispettata nel mondo una Italia i cui figli fossero fratelli e non nemici, un’Italia in cui il tranquillo lavoro fosse la fonte di ogni benessere economico e sociale.
Per cogliere compiutamente le fattezze del «Croce oppositore», per usare il titolo di un articolo di Gobetti, bisognerà, comunque, arrivare gli inizi del 1925. Ma per avere veramente chiara la fisionomia del definitivo maturarsi del liberalismo, del direttore de «La Critica», che ora lanciava il suo guanto di sfida al fascismo, forte di un’amara consapevolezza sui rischi della politica della forza, pur senza deporre le armi del suo antico Politischer Realismus, occorrerà aspettare il compimento di un più lungo e tortuoso percorso. Percorso che andrà dalla Storia d’Italia dal 1871 al 1915 del 1928 alla Storia d’Europa nel secolo decimonono del 1932, per arrivare alla meta finale con La storia come pensiero e come azione del 1938.
Tappa intermedia ma fondamentale di questo complesso itinerario sarà, comunque, il 1931, data di pubblicazione di Etica e politica. In quel volume, infatti, dove pure era ricompreso il saggio del 1922, nel quale Croce aveva riaffermato che «gli Stati somigliano alle cosiddette forze della natura che l’individuo etico dirige e attualizza ma non crea», trovava posto anche un ben diverso contributo. Si trattava dell’articolo, Storia economico-politica e storia etico politica, apparso su «La Critica» del 1924, dove Croce insisteva sul carattere effimero e provvisorio dell’organismo statale in quanto ente sottoposto al continuo processo di trasformazione provocato dalla dinamica storica e dal progresso morale dell’umanità.
E a quella nota sarebbero seguiti altri interventi di analogo tenore, con i quali il filosofo, prendeva, con nettezza, le distanze dall’Historismus di Friedrich Meinecke e da Ernst Troeltsch. Due studiosi che, rifiutando la possibilità di tradurre «l’astrazione dello Stato nella realtà di un determinato avvenimento o momento storico», in modo da individuarvi l’agire della coscienza morale «nella concretezza delle sue singole volizioni e azioni» avevano, forse, attualizzato ma non superato la lezione di Treitschke. Era quella una lezione che, Croce, invece, sembrava, ormai, voler archiviare (seppur, come avrebbe osservato, poi, Carlo Antoni, dopo un lungo cammino sofferto, contrastato e forse mai del tutto compiuto), subordinando le pur vincolanti ragioni dell’«egoismo politico» e della «cruda realtà della politica come conflitto e come violenza» alla libertà della coscienza individuale, già nel saggio del 1925 paradigmaticamente intitolato Libertà e dovere.
Certo Croce, in questo momento, era ancora lontano dal sostenere, come avrebbe fatto, dagli inizi degli Anni Trenta, che le teorie dello «Stato Potenza» partorite dalla cultura tedesca, e la ripresa ipernazionalistica, nella Germania nazista, della dottrina hegeliana dello Stato etico avevano giocato una grande parte «nell’invelenire i conflitti dei popoli, contribuendo alla distruzione e allo sconvolgimento della civiltà mondiale». Sicuramente, la posizione del filosofo non era ancora, alla metà degli anni Venti, radicalmente mutata da quella espressa nel 1911, quando aveva riconosciuto che un’indebita estensione del «culto della libertà» che comprendesse in esso anche la difesa delle aspirazioni del democraticismo, trovando un forte ostacolo alla possibilità di essere correttamente definita «in termini razionali» e rischiando di essere mistificata come servo encomio «all’utilitarismo borghese e socialistico», aveva la sua ragion d’essere soprattutto, e forse unicamente, in un istintivo moto ideale e in un afflato di carattere religioso, entrambi afferenti alla sfera della metapolitica e non della politica propriamente detta.
Eppure la densa nota, Libertà e dovere, segnava un deciso momento di passaggio verso una concezione piena e compiuta della libertà, considerata come principio generale ed eterno della vita morale e civile, che poteva riformularsi in termini di concrete proposte istituzionali, economiche, sociali, politiche dove liberalismo e democrazia, anche nella sua variante laburista, dovevano, almeno temporaneamente avvicinarsi, pur senza confondersi, e addirittura allearsi contro il comune avversario, per tutelare la loro sopravvivenza. Quell’intervento di forte impatto preludeva direttamente, al contributo del 1927, La concezione liberale come concezione della vita, i cui temi avrebbero poi avuto glorioso epilogo, tre anni dopo, nella relazione, Antistoricismo, presentata al settimo Congresso Internazionale di Filosofia di Oxford il 3 settembre 1930. Un intervento la cui lettura folgorò letteralmente Thomas Mann, nei punti dove Croce avanzava, per la prima volta, il tema della «religione della libertà» e del «senso storico come civiltà e cultura» da considerarsi come i soli antidoti al culto «della forza per la forza». Non bisogna dimenticare, infatti, che, se il magistero di Croce fu, fino al 1943, il polo più forte e più autorevole, se non addirittura il solo, se si escludono i deboli conati della resistenza cattolica e comunista, attorno al quale si raccolse l’emigrazione antifascista interna, nel nostro Paese, quel magistero influenzò fortemente, nella loro lotta alle dittature, anche grandi intellettuali europei come Karl Vossler, Leo Spitzer, Albert Einstein, il diplomatico e pubblicista croato, Bogdan Radica e a molti altri “chierici”, oppugnatori dell’ondata totalitaria che si stava estendendo nel Vecchio continente.
Per quanto riguarda l’attività politica del direttore de «La Critica» dal secondo Governo Badoglio alla nascita della Repubblica (da lui fortemente ma invano contrasta). e poi alle elezioni politiche del 1948, occorre dire che fu grave il suo fallo d’illudersi, almeno in qualche momento di quel tormentato periodo, di poter attuare una restaurazione dello status quo ante il 1919, nel quale il Partito liberale sarebbe tornato a essere forza centrale e decisiva nella vita politica italiana, come sostenne nell’intervista concessa a Cecil Sprigge, il 6 marzo 1944, ipotizzando un azzardato «accordo tra i liberali d’Italia e le masse». E ciò, certamente avvenne per l’incapacità di rendersi conto che quella forza politica e il suo patrimonio di uomini e d’idee era stato sconfitto definitivamente dalla forza degli eventi, già, quando, nel cosiddetto «biennio rosso», la sua struttura notabiliare fu impari a confrontarsi con quella dei «partiti-milizia» (socialista, popolare e fascista) che, per citare Giovani Amendola, «potentemente organizzati e reclutatori di moltitudini rappresentavano, nel campo parlamentare e nelle piazze, i metodi strategici della Grande Guerra».
Del tutto inconcludente ai fini di questa narrazione, è, in ogni caso, elencare, con pignoleria burocratica, gli altri presunti “errori politici” del filosofo, su cui a lungo la «sinistra storiografica» si è compiaciuta di esercitarsi. Ozioso sarebbe, infatti, stendere questo bilancio, senza considerare come, per sua stessa ammissione, Croce non si considerasse, «un uomo pratico», un professionista della «politica politicante», concentrato sui giochi di potere dell’attualità immediata. Egli si sentì sempre, invece, un’intellettuale prestato alla vita pubblica, «costretto a fatiche così contrarie al mio temperamento, alla mia capacità e a tutta la mia vita che è stata sempre vita di studioso». E di quella consapevolezza fornì testimonianza anche nell’incontro con Enrico De Nicola e Vittorio Emanuele Orlando, recatisi a visitarlo per comunicargli il loro rifiuto a entrare nel governo Bonomi, replicando al primo «che a me non importa dei sentimenti non amorosi che possono agitarsi nel petto di Togliatti o di altri ma di sedermi a una sedia dove posso parlare e giovare alla mia patria e così dovremo fare tutti e tre».
Mai Croce rinnegò la sua missione di «chierico», deontologicamente consacrato, anche nell’agire politico, all’inattualità e all’impoliticità, nel senso che diedero a questi termini Nietzsche e Thomas Mann. Come il romanziere tedesco scrisse, nell’introduzione alle Considerazioni di un impolitico, il dotto, che s’impegnava, a termine, nei negotia della vita attiva, doveva allontanare da sé «l’eccitabilità epidermica e la nervosità percettiva» che potevano derivargli da una continua esposizione al sole della politica, per rifugiarsi nelle ombre del crepuscolo, da dove la civetta del vecchio Hegel spiccava il volo per guardare più lontano di quanto potrebbe fare dalla visuale che la luce del giorno poteva offrirgli. Ed è solo da questa prospettiva che possiamo valutare non il «passivo» ma l’«attivo» dei presunti sbagli politici del filosofo.
Fu forse un errore aver individuato il principale ostacolo al ripristino della normalizzazione della vita politica nel Partito Comunista che per molti decenni sarebbe restato ambiguamente sospeso tra fumose e mai mantenute promesse di apertura democratica, formale ossequio alla prassi parlamentare, che si accompagnavano alla supina fedeltà a una Potenza straniera e all’attiva preparazione a un colpo di mano insurrezionale, che rischiò di verificarsi effettivamente dopo l’attentato a Togliatti del luglio 1948? Lo fu, l’aver compreso immediatamente che quella forza politica avrebbe cercato sistematicamente, e con successo, di dissanguare, a suo vantaggio, le altre formazioni di sinistra (Partito Socialista e Partito d’Azione), bloccando ogni possibile evoluzione che avrebbe potuto portare alla nascita, anche in Italia, di un partito laburista di taglio europeo?
Credo sia veramente difficile affermarlo. Anche perché, in quell’ostilità verso il movimento comunista, veramente poco contò l’egoistica difesa dei privilegi economici dei beati possidentes. Fu proprio il filosofo, il 30 novembre 1947, a insistere, con decisione, presso Luigi Einaudi, allora vicepresidente del Consiglio, per l’immediata discussione, senza rinvio, da parte della Costituente, del decreto «concernente l'istituzione di un’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio», sostenendo che «sarebbe stata una sciagura se la questione non fosse stata decisa». Croce, infatti, seppe sempre distinguere nettamente tra i valori del «liberalismo» e quelli del «liberismo», ritenendo che i secondi dovessero essere sempre subordinati ai primi, da cui anche concettualmente derivavano, come testimoniava il serrato dialogo che lo portò a confrontarsi con Einaudi dalla stagione fascista al secondo dopoguerra. Compito dell’azione liberale era, infatti, «perseguire i fini della giustizia sociale lottando contro ogni forma di privilegio, di monopolio, di parassitismo economico» non escluso quello proveniente dal «trasferimento del titolo giuridico della proprietà degli strumenti di produzione», con il quale si sarebbero create «oligarchie o egemonie economiche rappresentate da uomini politici o funzionari statali».
Culpa levis può essere valutata, forse, la diffidenza che Croce, fermatamene laico sì, ma non laicista né anticlericale né affetto da «mentalità massonica», nutrì, in un primo momento, per la Democrazia Cristiana di De Gasperi temendo da essa una «vaticanizzazione» della vita pubblica che, secondo Adolfo Omodeo, avrebbe fortemente inciso nel settore dell’educazione fino a impedirne il ritorno al modello liberale impiantato dopo nascita dello Stato unitario. Da questa diffidenza, tuttavia, il filosofo si sarebbe in buona parte liberato, dopo il colloquio con Giovanni Battista Montini del 1° dicembre 1945. Allora, infatti, dopo aver insistito «sulla difficoltà delle intese coi democratici-cristiani, che sono alleati difficili», si disse comunque pago delle assicurazioni del Sostituto della Segreteria di Stato, «quando questi mi disse, senza contestare la giustezza delle mie osservazioni, che la Chiesa non interferisce in quel partito nella sua azione propriamente politica (il che credo vero e che mi è stato assicurato da altre parti)». In quella stessa occasione, Croce sostenne con il più stretto collaboratore di Pio XII la necessità, ineludibile nell’ora presente, di una stabile alleanza, pur nel rispetto delle insopprimibili differenze, della Santa Sede, del partito cattolico e dei liberali, per avversare l’avanzata del comunismo in Europa, perché «liberalismo e cattolicesimo hanno di fronte lo stesso nemico, il materialistico e dittatorio e totalitario regime bolscevico che minaccia la civiltà occidentale e i suoi principi».
Addirittura di un avvicinamento di Croce alla Chiesa cattolica si parlò allora e negli anni immediatamente successivi. E quella diceria (certamente interessata) prese maggiore consistenza nel luglio del 1947 dopo la pubblicazione di un breve testo, apparso sui «Quaderni della “Critica”» (dove Croce paragonava l’avvento dell’Anticristo a quello del totalitarismo stalinista), per essere poi smentita dallo stesso filosofo con il cortese ma fermo rifiuto di incontrarsi con Pio XII «in una sorta di supremo idillio tra il Papa Cattolico e il Papa laico».
Non mancarono, invece, contrasti e confronti, anche accesi, tra Croce e De Gasperi, che non riguardarono soltanto l’approvazione dell’articolo 7 della Costituzione, destinato a regolare le relazioni tra Stato e Chiesa (che fu votato senza batter ciglio dal PCI su ordine di Togliatti), ma anche i rapporti di forza tra liberali e democristiani all’interno dei governi che li videro alleati e persino la critica ingenerosa verso le possibili degenerazioni in senso «comunistico» della DC. E quelle tensioni si fecero a volte tanto aspre da spingere Mario Scelba a sostenere, nella lettera del dicembre del 1944, indirizzata a Luigi Sturzo, di essere stato amaramente colpito «dalla prepotenza e dal settarismo» dimostrate dal filosofo «durante le trattative col nuovo partito cattolico».
Era quella una sensazione erronea, eppure non del tutto ingiustificata. Sempre a proposito dell’articolo 7 della Costituzione, poi rubricato come articolo 5, Croce si espresse, il 20 marzo 1947, insistendo sulla «sfacciata prepotenza pretesca», perché grazie a esso «il Papa si dichiara superiore, temporalmente, allo Stato Italiano, e gli vieta anche di legiferare in questo e quello dei suoi istituti». Nell’appunto dei Taccuini di lavoro del 7 aprile, egli parlò poi «delle condizioni in cui si trova l’Italia prossima alla totale rovina economica e all’anarchia politica per lo scredito in cui è caduto il partito democristiano e per l’imbaldanzimento dei suoi avversari». E il 20 aprile invitò addirittura «alla diffidenza e all’opposizione verso la Democrazia cristiana che, piuttosto che avversaria, è complice del bolscevismo».
Più incandescenti, comunque, furono gli alterchi con gli esponenti di quel cattolicesimo, degradatosi a machiavellismo pretesco, civettante con la sinistra, che si affacciava prepotentemente sulla scena politica. Contro di essi Croce incrudelì nella breve nota del marzo 1946, composta in occasione della comparsa di un opuscolo dell’ex podestà e poi sindaco di Sorrento, Francesco De Angelis, infine transitato nel Partito Democratico del Lavoro di Bartolomeo Ruini. In quell’occasione, il filosofo confessava che le sue speranze di «una cooperazione tra liberalismo e cattolicesimo, diversi nel loro principio direttivo ma destinati a collaborare, ora e per un non breve periodo, contro il comune pericolo che prende il nome di materialismo storico» rischiavano di frantumarsi contro «il rozzo clericalismo che corre incontro ai successi transitori immemore di averli dovuti altra volta scontare, col fascismo e inconsapevole di doverli scontare di nuovo col comunismo».
Anche in questo intervento, tuttavia, Croce testimoniava infine che la collaborazione tra Pli e DC, nell’alveo di un grande raggruppamento moderato, continuava a rappresentare la sola via d’uscita dall’incerta situazione creatasi dopo la «svolta di Salerno». Il filosofo, infatti, fu forse il principale attore dell’operazione che il 24 dicembre 1945 portò alla caduta del gabinetto Parri. Già durante le trattative per la formazione del governo presieduto dal leader azionista, Croce aveva chiarito il suo punto di vista. Incontrando Parri, il 14 giugno 1945, gli fece osservare che poco di buono e di duraturo poteva venire da una situazione dove
comunisti, socialisti e cosiddetto partito d’azione vogliono impadronirsi del potere, direttamente o per avvolgimento, mercé la Presidenza del Consiglio, del Ministero dell’Interno e della preparazione della legge per la Costituente, in modo da travolgere la libertà di voto e attuare in Italia una Repubblica sociale, comunistico-socialistica.
Per prevenire tale rovinoso epilogo, i liberali si sarebbero messi di mezzo, in modo da impedire questo «golpe bianco» che poteva trascolorare in guerra civile rosso sangue. Essi, infatti, avrebbero reclamato il ministero dell’Interno, «essendo il loro partito quello che meglio di ogni altro può proteggere la libertà di voto per tutti».
Sordo a questo monito, Parri assunse l’interim del dicastero, cui era devoluto il controllo dell’ordine pubblico, condannando a rapida fine il suo governo e lasciando alla compagine governativa guidata da De Gasperi la responsabilità di preparare le elezioni dell’Assemblea costituente. Di fatto, furono proprio i liberali ad aprire la crisi di governo, e a contribuire all’apertura di una nuova fase politica che, nel giugno 1947, pose fine all’esperienza dei governi che proseguivano la politica di collaborazione del CNL. Croce, d’altra parte, aveva perfettamente intuito che quella conclusione sarebbe stata inevitabile. Nella lettera indirizzata a Omodeo, a fine marzo 1944, che segnava il punto più basso delle relazioni tra i due studiosi, il maestro aveva ammonito il suo antico discepolo che «quel partito d’azione che già nacque a Parigi per gareggiare coi comunisti e soverchiarli, ha continuato nel suo gioco imprudente, ed ora sta a rischio di essere sopraffatto da quegli emuli e infidi alleati».
Nell’essere stato uno dei principali protagonisti di quella svolta moderata, che segnò il cammino della politica italiana nei decenni a venire, Croce confermò, per usare le sue stesse parole, la sua fama di «conservatore», sì, ma di «conservatore soltanto della logica, e con essa del supremo bene, appena riacquistato, della libertà». Per riprendere il giudizio dell’instant book di Andreotti, scritto nell’estate del 1945, il gabinetto Parri non avrebbe potuto portare a compimento i sogni di rigenerazione sociale vagheggiati dalla fazione estremista del movimento di liberazione. L’esperienza di governo del «partigiano Maurizio» apparve immediatamente, infatti, alle forze centriste (si vedano i ricordi del Segretario del PLI, Leone Cattani), destinata ad assumere funzione di apripista ad un nuovo periodo di destabilizzazione politica cavalcato dal PCI, che avrebbe visto azionisti e socialisti recitare, consapevolmente o no, la parte di «volenterosi secondi» o, per meglio dire, di «utili idioti». Fatta salva l’indiscutibile, ma ingenua, onestà intellettuale di Parri, era evidente, infatti, che l’esecutivo da lui guidato agiva fuori dal momento storico, muovendosi sulle sabbie mobili di una pregiudiziale ideologica, che era la difesa messianica dell’eredità della resistenza, quando ormai tutti gli altri partiti si collocavano sul piano della politique d’abord, ansiosi di passare all’incasso delle rendite di posizione fin lì accumulate.
L’indirizzo «conservatore» che Croce impresse alla politica italiana, anche a costo di decidere, in piena consapevolezza, di ridurre i liberali a soci di minoranza dell’alleanza stretta con la DC, non venne meno anche per le grandi scelte che il nostro Paese operò nel campo internazionale. L’allineamento dell’Italia all’Occidente, che si consumò definitivamente, con l’adesione al Patto Atlantico ebbe la completa approvazione del filosofo. Nella lettera ad Alessandro Casati, pubblicata sul «Corriere della Sera» del 25 marzo 1949, il vecchio pensatore, ritornato finalmente all’operosa quiete degli studi, affermava, infatti, che:
L’Italia con questo atto riprende la via di quelle alleanze che non l’arbitrio dell’uomo, ma la natura e la storia segnano a un popolo. La via che tenne costantemente nel Risorgimento e che nella nuova Italia la saggezza dei nostri uomini politici le fece adottare quando, per serbare la pace, si unì alle Potenze centrali, ma serbò, insieme, l’amicizia con le occidentali, dalla Triplice disciogliendosi solo quando questa volle una guerra non difensiva ma provocata.
E dell’intenso lavoro svolto da De Gasperi per arrivare a quel risultato, egli volle rendergli merito, con una lettera, insolitamente affettuosa, spedita il 26 dicembre dello stesso anno, dove, ricordando la lapidazione cui lo statista trentino era stato sottoposto dalle sinistre e le difficoltà incontrate nel suo stesso partito e tra le forze di area laica, Croce scriveva:
Io penso spesso a te, non politicamente ma umanamente, e mi fo presente la vita che sei costretto a condurre e ti ammiro e ti compiango, e ti difendo contro la gente di poca fantasia, che non pensa alle difficoltà e alle amarezze che è necessario sostenere a un uomo responsabile di un alto ufficio per fare un po’ di bene e per evitare un po’ di male. Che Dio t’aiuti (perché anche io credo, a modo mio, a Dio, a quel che è a tutti Giove, come diceva Torquato Tasso), che Dio t’aiuti nella tua buona volontà di servire l’Italia e di proteggere la sorte pericolante della civiltà, laica o non laica, che sia.
Alla corrispondenza di Croce, De Gasperi rispondeva, il giorno stesso, con queste parole: «Illustre Amico, nessun conforto più generoso e apprezzato del tuo; la tua lettera, la tua presenza mi sono di grande consolazione e mi danno sicurezza in questa ora di gravi decisioni».
* Per non appesantire il testo ho preferito evitare l’inserimento nel testo di indicazioni bibliografiche, rimandando ai Riferimenti bibliografici alla fine del saggio.
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