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Modelli di rappresentanza: un’analisi comparativa

Mauro Volpi
Articolo pubblicato nella sezione "La rappresentanza politica tra quantità e qualità"

Quantità o qualità?

Una premessa mi pare indispensabile. Ritengo che il numero dei parlamentari non sia un profilo determinante ai fini di analizzare il ruolo della rappresentanza negli Stati democratici. A chi pensa che un numero più alto di parlamentari garantisca un funzionamento più democratico di uno Stato si potrebbe obiettare che il Parlamento più numeroso al mondo, l’Assemblea Nazionale del Popolo in Cina con i suoi 2.980 membri, è nient’altro che un organo di ratifica della volontà dei massimi organi del potere esecutivo e del partito comunista. Quanto agli Stati democratici, la valutazione della quantità dipende dal criterio che viene utilizzato. Così, se si prendono in esame gli Stati europei che per numero di abitanti e consolidamento della democrazia possono essere comparati (e quindi Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Spagna), il risultato è ben diverso a seconda che si considerino tutti i parlamentari o solo quelli eletti dal popolo: nel primo caso l’Italia, prima della legge costituzionale n. 1 del 2020 che ha ridotto il numero di deputati e senatori, aveva il Parlamento meno numeroso subito dopo quello spagnolo; nel secondo il Parlamento italiano risultava come il più pletorico (cfr. Volpi 2020). Ne deriva che la quantità di per sé sola non è determinante nel caratterizzare i modelli di rappresentanza, ma costituisce una dipendente variabile in relazione ad altri criteri, come la struttura del Parlamento, il sistema elettorale e soprattutto il ruolo che esso gioca nel sistema politico-istituzionale.


La struttura dei Parlamenti

Una importanza sicuramente maggiore rispetto al numero dei parlamentari riveste la struttura della rappresentanza, fondata sulla distinzione dei Parlamenti in bicamerali e monocamerali (cfr. Palermo, Nicolini 2013). In origine bicameralismo e monocameralismo fanno capo a due princìpi diversi. Il principio bicamerale è una diretta filiazione di quello della separazio­ne dei poteri e nella fase del passaggio dallo Stato assoluto allo Stato liberale si propone di conciliare la componente aristocratica, rappresentata dalla Camera alta non elettiva, con quella borghese, che trova il suo punto di riferimento nella Camera bassa di origine elettiva. Il bicameralismo nasce in Inghilterra nella prima metà del XIV secolo e si afferma poi in Europa continentale nelle Carte costituzionali della Restaurazione e del periodo della monarchia costituzionale, ivi compreso lo Statuto albertino. Successivamente al principio bicamerale si richiama la borghesia in conseguenza dell’ingresso nella Camera elettiva dei rappresentanti delle classi popolari, al fine di avere una seconda Camera di contrappeso, che eviti la “dittatura” di una Camera unica e controbilanci le tendenze radicali che si manifestino nella prima Camera.
Il principio monocamerale deriva dalla teoria della sovranità nazionale, ritenuta unitaria e indivisibile, e si afferma nelle Costituzioni francesi dell’epoca ri­voluzionaria, per essere successivamente accolto in varie Costituzioni democratiche sulla base di una concezione radicale del principio della sovranità popolare. Nel secondo dopoguerra si manifesta una crisi del bicameralismo, come dimostra il passaggio a un sistema monocamerale in vari Paesi (in Europa Danimarca 1953, Svezia 1969, Grecia 1975, Portogallo 1976, Islanda 1991, Norvegia 2009). La tendenza verso il monocameralismo sta nel fatto che è venuta meno la ragione originaria che giustificava il bicameralismo, vale a dire la necessità di rappresentare diverse classi sociali. Un discorso diverso va fatto per gli Stati federali, nei quali il bicameralismo trova la sua causa giustificativa nella natura decentrata dello Stato, in quanto la seconda Camera ha il compito di rappresentare gli Stati membri.
In vari Stati non federali il sistema bicamerale continua a sussistere ma solo al prezzo di una trasformazione, tanto strutturale quanto funzionale, della seconda Camera. Dal punto di vista strutturale si manifesta la tendenza a modificare la composizione del Senato, trasformandolo in una Camera eletta direttamente dal corpo elettorale (Italia) o composta da membri designati dalle collettività territoriali (Francia, Paesi Bassi) o con una composizione mista (Spagna). Talvolta il Senato assume la configurazione di Camera rappresentativa anche di categorie socio-pro­fessionali e di esperti (Irlanda). Nel Regno Unito una legge del 1999 ha abolito quasi tutti i Pari ereditari della Camera dei Lords, per cui la grande maggioranza dei membri sono nominati dal Sovrano su designazione del Primo Ministro o di una apposita commissione parlamentare.
Dal punto di vista funzionale il bicameralismo perfetto o paritario, che attribuisce gli stessi poteri alle due Camere anche se non esclude la titolarità di funzioni specifiche e differenziate, permane in alcuni Stati federali (come in Svizzera), mentre negli altri viene generalmente soppiantato dal bicameralismo imperfetto o asimmetrico, nel quale sono attribuiti diversi poteri alle due Camere. Così in molti ordinamenti il Senato non può votare la sfiducia al Governo o ha competenze legislative limitate rispetto alla Camera. Quindi negli Stati non federali il bicameralismo perfetto rappresenta ormai un’eccezione, essendo ancora in vigore tra i Paesi democratici solo in Italia.
In definitiva negli Stati nei quali la seconda Camera non è rappresentativa delle comunità territoriali il bicameralismo si è ormai trasformato da principio generale in modalità di funzionamento dell’organo parlamentare e viene giustificato con motivazioni di ordine tecnico, quali la maggiore ponderazione dei progetti di legge, la migliore qualità delle leggi approvate, lo svolgimento di un’attività legislativa più intensa. Ma si tratta di argomenti opinabili e non sempre corrispondenti alla realtà.


La rappresentanza nei sistemi politici e nelle forme di governo

Il ruolo della rappresentanza varia a seconda del sistema politico e di quello costituzionale all’interno del quale opera e quindi non si può prescindere da una individuazione dei diversi modelli di riferimento. Qui occorre distinguere tra le classificazioni operate rispettivamente dai politologi e dai costituzionalisti. I primi hanno come punto di riferimento fondamentale la natura del sistema politico e la sua incidenza sulle istituzioni; i secondi classificano le diverse esperienze in base alla loro appartenenza ad una «forma di governo», consistente nel «complesso delle regole giuridiche, scritte e consuetudinarie, che caratterizzano la distribuzione del potere politico tra gli organi costituzionali, che sono posti al vertice dell’apparato statale in condizione di pari sovranità e di reciproca indipendenza», tra i quali rientrano il Parlamento e il Governo, ma anche il Capo dello Stato quando eserciti poteri che abbiano comunque un’incidenza di natura politica (Volpi 2018, p. 6).
Tra le numerose classificazioni politologiche, è particolarmente significativa, sia per l’ampiezza degli Stati considerati (ben 36 nell’arco temporale dal secondo dopoguerra fino al 2010), sia per il successo che ha avuto, quella fondata sulla distinzione tra «democrazie maggioritarie» e «democrazie consensuali» (cfr. Lijphart 2014). Le prime, che si rifanno al “modello Westminster”, tipico dell’esperienza inglese, si affermano in società omogenee e si basano sul predominio del potere esecutivo e del Primo ministro, garantito da una maggioranza omogenea e stabile, e quindi sul ruolo subordinato del Parlamento, chiamato prevalentemente a ratificare le proposte del Governo. Le seconde sono, invece, tipiche delle società eterogenee, attraversate da forti differenziazioni sociali, etniche, religiose, e si fondano sul coinvolgimento delle minoranze nell’adozione delle decisioni fondamentali o nella stessa partecipazione al Governo e quindi tendono a determinare un bilanciamento tra esecutivo e legislativo.
All’interno della classificazione operata dai costituzionalisti (fondamentali sono Elia 1970 e Mortati 1973) la più frequente è quella tra forma di governo parlamentare e presidenziale. La prima, che è predominante negli Stati democratici, prevede un unico circuito di legittimazione democratica che si fonda sul ruolo centrale del Parlamento in quanto solo organo elettivo e quindi direttamente rappresentativo della volontà popolare e sul rapporto di fiducia che implica la derivazione del Governo dal Parlamento e il potere dell’assemblea di far valere la responsabilità politica del Governo costringendolo alle dimissioni. Quella presidenziale prevede un duplice circuito di legittimazione democratica fondato sull’elezione popolare sia del Parlamento sia del Presidente, che è titolare del potere di governo e non può essere sfiduciato dal Parlamento, e un equilibrio tra poteri garantito da un sistema di checks and balances. In realtà l’unico ordinamento democratico nel quale si è realizzato un soddisfacente equilibrio è quello degli Stati Uniti d’America, mentre negli Stati latino-americani e asiatici la forma di governo è stata sostanzialmente presidenzialistica in quanto caratterizzata dal netto predominio del Presidente. Del tutto peculiare è la forma di governo adottata in Svizzera, nella quale i membri del Governo sono eletti dal Parlamento ma non possono essere sfiduciati nel corso del mandato, che è stata definita come “direttoriale” per sottolineare il ruolo determinante svolto dall’organo ristretto (sette ministri in tutto) titolare del potere esecutivo che svolge anche collegialmente la funzione di Capo dello Stato (cfr. Mortati 1973, pp. 349 ss). Infine ha avuto una significativa espansione la forma di governo semipresidenziale (espressione coniata da Duverger 1970), nella quale il Governo nominato dal Presidente è politicamente responsabile nei confronti del Parlamento, ma nello stesso tempo il Presidente è eletto a suffragio universale ed è titolare di poteri importanti che possono consentirgli di partecipare alla determinazione dell’indirizzo politico; da ciò deriva che il Governo, a seconda dei diversi contesti politici, può derivare dal Parlamento o dal Presidente. Tale forma di governo, costruita sul prototipo della V Repubblica francese, è stata applicata a vari ordinamenti europei (Finlandia, Austria, Irlanda, Islanda e Portogallo e successivamente a parte di quelli ex socialisti).
Va sottolineato che le classificazioni politologiche e quelle costituzionalistiche tendono a intrecciarsi in quanto le prime non possono prescindere dalla incidenza sul sistema politico dei rapporti tra esecutivo e legislativo e dei sistemi elettorali (cfr., per il primo aspetto, Pasquino e Pelizzo 2006, per entrambi Sartori 2013) e le seconde devono considerare l’influenza del sistema politico sul funzionamento delle forme di governo e in particolare di quella parlamentare (cfr. Elia 1970, pp. 645 ss.).


La lettura maggioritarista e direttista dei modelli di rappresentanza

Da parte di vari studiosi è stata operata una ricostruzione dei modelli di rappresentanza fondata sulla distinzione delle democrazie in «immediate» e «mediate» (cfr. Duverger 1982) e delle forme di governo a seconda che siano «a legittimazione diretta» o «a legittimazione indiretta» (cfr. Frosini 2006). Il criterio distintivo riguarda la formazione del Governo a seconda che derivi direttamente dal voto popolare oppure da accordi post-elettorali conclusi tra i partiti. In realtà i sostenitori di tale concezione non ritengono le due ipotesi affatto equivalenti; per essi solo la prima, la derivazione diretta, rappresenta l’inveramento della sovranità popolare, in quanto attribuisce al popolo la decisione politica fondamentale, mentre la seconda, la derivazione indiretta, è regressiva poiché delega il potere del popolo ai partiti. Il novero degli ordinamenti statali che rientrano in questa ipotesi è ritenuto nettamente prevalente in quanto ricomprenderebbe non solo quelli in cui il vertice del potere esecutivo è eletto direttamente dal popolo (presidenziali e semipresidenziali), ma anche quelli parlamentari nei quali “di fatto” il Governo e il Primo ministro sono eletti dal popolo (cfr. Ceccanti 1997). Ne deriva che il rapporto di fiducia che conta non intercorre più tra Parlamento e Governo, ma tra corpo elettorale e Governo e che la separazione dei poteri cede il passo a una nuova separazione, tra maggioranza e opposizione.
Tale impostazione produce effetti rilevanti sul ruolo del Parlamento, che non è più quello di rappresentare i cittadini e le diverse componenti presenti nella società, ritenuto accessorio, ma quello, fondamentale, di eleggere un governo. Inoltre l’organo assembleare non può più far valere la responsabilità del Governo se non al prezzo di subire il proprio scioglimento in quanto solo il corpo elettorale è legittimato a sostituire il Governo che a suo tempo aveva eletto. Infine il Parlamento non è più il luogo del confronto tra partiti che produce decisioni determinate non solo dagli interessi della maggioranza ma anche dalla ricerca del compromesso (cfr. Kelsen 1966, p. 293), ma in esso si dispiega in pieno e senza limiti il principio di maggioranza, fino al punto di configurare una «democrazia avversariale», nella quale la maggioranza che ha vinto le elezioni punta a smantellare le decisioni adottate da quella precedente (Morlino 2003, p. 273).
Molte sono le critiche che possono essere rivolte alla concezione appena esposta. In primo luogo essa impoverisce il ruolo essenziale del Parlamento che in una democrazia costituzionale deve essere quello di rappresentare la società e il pluralismo, mentre la formazione del Governo o deriva da una votazione popolare specifica e separata o richiede l’intermediazione necessaria della maggioranza parlamentare. Nella seconda ipotesi il popolo elegge solo i parlamentari e può dare una indicazione di governo solo indirettamente attribuendo la maggioranza dei seggi ad un partito o ad una coalizione elettorale. Ne deriva che non è possibile parificare i modelli nei quali l’esecutivo deriva direttamente dal corpo elettorale a quelle caratterizzate da una derivazione popolare del Governo solo indiretta e “politica”, vale a dire dipendente dal sistema politico e dall’elezione di una stabile maggioranza parlamentare in occasione del voto. Non vi è dubbio che sul funzionamento concreto del sistema politico-costituzionale incidono le “regolarità” della politica, che possono anche determinare l’affermarsi di regole convenzionali (come la designazione alla carica di Primo ministro del leader del partito o della coalizione che ha vinto le elezioni), ma la sua configurazione teorica non può essere determinata da accadimenti politici, anche costanti ma pur sempre soggetti a non verificarsi, come nella ipotesi in cui in un sistema politico bipartitico o bipolare alle elezioni parlamentari nessuno dei due partiti o delle due coalizioni concorrenti ottenga la maggioranza dei seggi.
In secondo luogo il riferimento al principio della sovranità popolare da un lato appare improprio, in quanto si tratta di uno degli elementi costitutivi dello Stato democratico, che è sempre e comunque alla base della formazione del Governo, la quale non può mai prescindere dal risultato delle elezioni, d’altro lato viene compiuto in modo discutibile e pericoloso. Discutibile perché nello Stato costituzionale democratico la stessa sovranità popolare non è assoluta, ma è limitata, in quanto può esercitarsi solo «nelle forme e nei limiti della Costituzione» (come stabilisce l’art. 1, c. 2, Cost. italiana) e deve combinarsi con il principio della separazione (e dell’equilibrio) tra i poteri. Pericoloso perché si ispira ad una concezione populista che fa del rapporto diretto tra il popolo (di fatto tra la maggioranza del corpo elettorale) e il “capo” del potere esecutivo il cuore del sistema democratico, con il conseguente ridimensionamento dei soggetti intermedi, ed in particolare della rappresentanza che viene ad essere scavalcata e posta in una condizione genetica di marginalità.
Dal punto di vista teorico, poi, occorre rilevare che l’elezione popolare di diritto del vertice dell’esecutivo non configura, comunque, un’ipotesi di “democrazia immediata”, per il semplice motivo che l’eletto dal popolo è un rappresentante chiamato ad esercitare il potere esecutivo o in sintonia (e quindi operando le opportune mediazioni) con la rappresentanza politico-parlamentare oppure in modo libero e personale in nome di un “mandato” popolare, la cui attuazione potrà essere verificata solo al momento delle successive elezioni, e che, quindi, rappresenta la massima manifestazione di «delegative democracy» (cfr. O’Donnel 1994).
Se si va, poi, a vedere il funzionamento pratico delle esperienze nelle quali il corpo elettorale, votando per il Parlamento, è di solito posto in grado di esprimersi sulla formula di governo e anche sulla persona del futuro Primo ministro, come avviene di regola nel Regno Unito, si può accertare che il ruolo dei partiti parlamentari non è affatto secondario nella adozione del programma, nella scelta dei candidati, nella designazione del leader e che dopo il voto pesano i rapporti politici interni al partito di maggioranza, i quali all’occorrenza possono portare alla sostituzione del leader-Primo ministro nel corso del mandato (com’è avvenuto per otto volte dal secondo dopoguerra ad oggi).
Un ulteriore rilievo critico riguarda la qualificazione del rapporto di fiducia tra Governo e corpo elettorale come elemento caratterizzante delle forme di governo a legittimazione diretta. Ora, la fiducia è una nozione giuridica, che, se non implica necessariamente in tutti gli ordinamenti l’investitura iniziale del Governo da parte del Parlamento, comporta l’esistenza di un controllo permanente del Parlamento sul Governo, che trova la sua sanzione naturale nel voto di sfiducia e nell’obbligo di dimissioni. Nulla di tutto questo si riscontra nell’ipotesi citata: il popolo “sovrano” può esercitare un controllo solo al momento delle successive elezioni. Quindi non solo non esiste un rapporto di fiducia nel corso del mandato, ma la derivazione popolare del capo dell’esecutivo, oltre a depotenziare il rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo, può deprimere, sulla base del falso assunto che il popolo è chiamato a compiere la scelta fondamentale, sia il funzionamento della democrazia rappresentativa sia il ricorso agli istituti di democrazia partecipativa, che al di fuori delle elezioni possono costituire un elemento qualificante delle democrazie pluralistiche.
In definitiva la tesi direttista sembra fare una cattiva applicazione della distinzione operata da Lijphart tra democrazie maggioritarie e democrazie consensuali, ampliando abusivamente il novero delle prime e attribuendo loro un migliore rendimento democratico. In realtà l’opinione del politologo olandese è esattamente opposta: il modello consensuale, favorito dalla rappresentanza proporzionale e dal sistema di governo parlamentare, dimostra di avere un rendimento migliore di quello maggioritario sia per la qualità della democrazia sia per le politiche sociali (cfr. Lijphart 2014, pp. 305 ss). Inoltre il modello consensuale, se è stato ridimensionato nei Paesi che nel secondo dopoguerra conoscevano profonde divisioni politico-ideologiche, può comunque essere il più adeguato ad affrontare l’emergere delle nuove fratture (fra ricchi e poveri, garantiti e precari, territori sviluppati e arretrati, grandi centri urbani e periferie) che si sono sviluppate negli ultimi decenni.


L’evoluzione del ruolo della rappresentanza

Non vi è dubbio che nello Stato democratico contemporaneo si sia manifestata una crisi della rappresentanza sia sul versante della partecipazione popolare sia su quello del rapporto tra Parlamento e Governo. Alcune cause sono state individuate nel passaggio dallo “Stato legislativo” allo “Stato amministrativo”, nel quale le principali decisioni statali non sono più adottate dal Parlamento nella forma della legge, ma dal potere esecutivo mediante atti di tipo regolamentare o amministrativo, e nel ruolo dei partiti, che hanno perso la loro dimensione di massa, ma non la gestione del potere la quale, producendo una continuità tra maggioranza parlamentare e Governo garantita dalla disciplina dei gruppi parlamentari, ha determinato la preminenza dell’Esecutivo e ridotto i poteri effettivi delle Assemblee.
Si tratta di tendenze innegabili, ma non tali da rendere inevitabile il declino del Parlamento, che finirebbe per pregiudicare oltre al principio rappresentativo anche quello democratico. Si assiste piuttosto al tentativo dei Parlamenti di adattarsi alle mutate condizioni sociali, politiche e istituzionali, nell’esercizio dei poteri fondamentali di cui resta titolare: l’approvazione delle leggi e il controllo dell’Esecutivo. Il loro esercizio risulta più efficace laddove il Parlamento organizza gran parte dei suoi lavori in organismi più ristretti dell’Assemblea (come le commissioni), forniti di un adeguato apparato servente sul terreno tanto conoscitivo quanto operativo. Dal punto di vista funzionale il Parlamento è più forte quando concentra l’esercizio della funzione legislativa nelle grandi scelte di principio e di indirizzo, è titolare di importanti poteri di controllo, garantisce i diritti delle opposizioni.
L’analisi del ruolo attualmente svolto dal Parlamento va differenziata in riferimento ai diversi modelli politico-costituzionali. In quello presidenziale degli Stati Uniti il Congresso svolge un ruolo importante, derivante sia dalla forza del notabilato elettivo che lo compone sia dall’esistenza di contrappesi importanti al potere del Presidente. Ma si tratta di un caso unico, in quanto negli altri sistemi presidenziali il già segnalato strapotere del Presidente ridimensiona drasticamente il ruolo del Parlamento. Nel sistema direttoriale della Svizzera stando alla lettera della Costituzione l’Assemblea federale è titolare dell’indirizzo politico e il Consiglio federale svolge un ruolo esecutivo. Ma in base a un’interpretazione sistematica della Costituzione e nella realtà l’organo esecutivo ha la preminenza, in quanto esercita importanti poteri normativi e decisionali senza che i suoi membri possano essere sfiduciati a fronte di un Parlamento le cui Camere si riuniscono per sessioni di breve durata e i cui componenti non svolgono un mandato a tempo pieno e godono di un’indennità limitata e di mezzi ridotti.
Più complessa è la situazione nei sistemi semipresidenziali e in quelli parlamentari. Nei primi la V Repubblica francese costituisce un caso quasi unico in quanto è caratterizzata dalla preminenza di regola del Presidente eletto dal popolo sul Governo e sul Parlamento, con le uniche fasi eccezionali rappresentate dalla cohabitation con una maggioranza parlamentare e un esecutivo di opposto orientamento politico (per nove anni in tutto dal 1958 ad oggi). In pratica il Parlamento francese, specie dopo le riforme del 2000/01 che hanno equiparato a cinque anni la sua durata a quella del Presidente e posposto la sua elezione circa due mesi dopo quella presidenziale, è il più debole tra quelli che operano nelle democrazie consolidate sul terreno costituzionale, elettorale e nell’esercizio dei poteri (legislativo e di controllo; cfr. Portelli 2018). Negli altri semipresidenzialismi europei ha invece prevalso la componente parlamentare incentrata sul rapporto Primo ministro-Governo-Parlamento, con l’unica eccezione della Romania dove tra le due teste del potere esecutivo (Presidente e Primo ministro) si è verificata una periodica conflittualità che non ha certo giovato alla stabilità delle istituzioni (Volpi 2014, pp. 41 ss.). Del tutto a sé è poi l’esperienza della Russia dove il sistema di governo ha combinato i modelli presidenziale e semipresidenziale in una miscela ultrapresidenziale fondata sul netto predominio del Presidente e su un Parlamento subordinato al potere esecutivo, che contribuisce a caratterizzarla come una “democratura” nella quale i tratti autoritari tendono a essere prevalenti rispetto a quelli democratici.
Nella maggioranza dei sistemi parlamentari è indiscutibile «lo spostamento del baricentro istituzionale dal parlamento al governo» (Mastropaolo, Verzichelli 2006, p. 36). Tuttavia l’esaltazione della governabilità distaccata dalla rappresentanza e dalla partecipazione, si è tradotta spesso in ingovernabilità di società atomizzate e prive di solide identità. I governi sono per lo più di breve respiro, appiattiti sulla congiuntura, in scarsa sintonia con i sentimenti presenti nella società e, anche quando godono di una maggioranza solida, questa spesso è drogata da meccanismi elettorali maggioritari e non corrisponde sempre all’orientamento popolare prevalente. Inoltre nei tempi più recenti il modello maggioritario è entrato in crisi. In primo luogo la cosiddetta elezione diretta di fatto del Governo non è scontata o si verifica con maggiore difficoltà. Perfino nel Regno Unito due delle quattro elezioni svoltesi dal 2010 al 2019 hanno dato vita ad un hung Parliament, nel quale nessuno dei due principali partiti ha avuto la maggioranza dei seggi, con la conseguente formazione tra il 2010 e il 2015 di un governo di coalizione tra conservatori e liberal-democratici e tra il 2017 e il 2019 di governi conservatori di minoranza. In Spagna dal 2015 al 2019 vi sono state quattro elezioni e tre governi minoritari, due a guida popolare, uno a guida socialista, e si è infine formato un governo di coalizione di sinistra sostenuto da alcuni partiti autonomisti. Nella stessa Germania ai governi di coalizione incentrati sull’alleanza tra una forza politica egemonica (Unione democristiana o Partito socialdemocratico) e un partito minore è subentrato in tre delle ultime quattro legislature un governo di Grosse Koalition tra le due principali forze politiche che si erano presentate alle elezioni come alternative. In Italia nella XVII legislatura (2013/18) si sono formati tre governi di coalizione tra centro-sinistra e una parte del centro-destra e nell’attuale legislatura di nuovo tre governi di coalizione, il primo dei quali fondato sul “contratto di governo” tra Movimento 5 Stelle e Lega, il secondo su un’alleanza di governo tra Movimento 5 Stelle e Partito democratico, il terzo a guida tecnica e di unità nazionale. Alla testa dei sei governi vi sono state personalità non indicate dagli elettori o che comunque non erano state presentate come leader di coalizione o di partito al momento del voto. Quanto alla durata, più raramente i governi sono di legislatura, come testimoniano i tre esecutivi costituiti nel Regno Unito tra il 2016 e il 2019, così come in Spagna tra il 2015 e il 2019, e i sei formati in Italia tra il 2013 e il 2021. Infine si verifica una delegittimazione dei leader posti alla testa dell’esecutivo, la cui popolarità decresce rapidamente dopo l’ascesa al potere, il che deriva dalla discrasia tra il sovraccarico di aspettative della maggioranza dei cittadini e la disillusione derivante dalla constatazione che non sono in grado di risolvere con rapidità ed efficacia i loro problemi.
In questo contesto si verifica una parziale rivitalizzazione del ruolo del Parlamento che emerge sia dal riproporsi di crisi di governo determinate dall’approvazione di una mozione di sfiducia o da un voto negativo del Parlamento sia da un ruolo più attivo giocato dalle assemblee rappresentative, di cui ha costituito l’esempio più eclatante nel Regno Unito la conflittualità tra Governo e Camere dopo l’esito del referendum sulla Brexit con la rivendicazione da parte delle seconde di un ruolo attivo e non meramente ratificatorio che si è protratta fino alle elezioni del 2 dicembre 2019. Ciò non comporta con certezza un rilancio del ruolo costituzionale del Parlamento il quale risente pesantemente della crisi di fiducia della cittadinanza nei confronti delle istituzioni. D’altro lato nei sistemi parlamentari la debolezza politica dei governi spesso li spinge a fare un uso eccessivo e talvolta di dubbia costituzionalità di strumenti di razionalizzazione volti a imporre la propria volontà alle Assemblee, fenomeno che ovviamente si è accentuato in una situazione di emergenza come quella determinata dalla pandemia in atto.
In questo quadro va segnalata la peculiarità del caso italiano, nel quale la crisi del Parlamento è correlata alla debolezza politica dei governi, compresi quelli fondati su un bipolarismo anomalo, sia per l’assenza di legittimazione reciproca tra le coalizioni sia per la loro natura eterogenea. Così il Governo si è appropriato di fatto della funzione legislativa, abusando della delegazione, della decretazione d’urgenza, del ricorso ai maxiemendamenti e alla questione di fiducia e a ciò non ha corrisposto un rafforzamento degli istituti parlamentari di controllo.


Conclusione

La crisi della rappresentanza trasversale ai diversi modelli politico-costituzionali è l’aspetto più rilevante di una più generale crisi della democrazia, di cui ha costituito una manifestazione eclatante e sconvolgente l’attacco eversivo al Campidoglio di Washington. Va ribadito che il rafforzamento del ruolo del Parlamento è una questione decisiva per la salvaguardia della democrazia, trattandosi dell’organo che è diretta espressione della volontà popolare e del pluralismo. A tale fine possono essere utili e opportune anche riforme della rappresentanza sia strutturali sia funzionali, ma per ottenere una rivitalizzazione del Parlamento occorrono soprattutto due condizioni essenziali: la sua rappresentatività sociale e politica e la costruzione di partiti non oligarchici e personalistici, ma democraticamente organizzati e aperti alle istanze sociali e all’associazionismo diffuso.


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