1. Premessa
Il tema del peccato influenza profondamente la politica moderna e in generale, l’intero corso del pensiero moderno, ma non può essere preso in considerazione se non in relazione a quella che è l’interrogazione fondamentale della filosofia, la domanda sul nulla. La questione del peccato, emersa con chiarezza con il cristianesimo nella sua differenziazione dalla più generica colpa, è legata, a partire da Agostino, all’orizzonte dell’essere e alla sua carenza – al nulla quindi - fino alla modernità. Se nell’epoca premoderna è generalmente condivisa questa interpretazione del peccato, la creatura dotata di libero arbitrio è vista appartenere anche e simultaneamente all’armonico ordine della Creazione, frutto «dell’autoesplicazione dell’identità divina o dell’unità dell’essere… che si aliena in quanto pone ciò che è altro nel tempo» (Beierwaltes 1988, p. 119). La difettività che caratterizza l’intera creazione - la sua paradossale partecipazione al nulla/carenza - è, perciò, manifestazione della sua differenza (cfr. ivi, p. 119 ss.) dalla perfezione del Creatore e condizione necessaria del suo stesso esistere, situazione che fonda nell’essere umano, per la prima volta e con grande rilievo, lo spazio e la capacità della libertà.
La strutturale ambivalenza ontologica dell’uomo, basata platonicamente non sul nulla assoluto, ma sul nulla relativo della differenza, è perciò lo ‘spazio’ che non annichila, ma rende possibile la relazione e mentre certamente sancisce la concreta possibilità del peccato per l’umanità e ne illumina l’intrinseca finitezza, ne rivela anche l’appartenenza ineliminabile all’essere e alla sua costanza generativa. Come sottolinea Pareyson, è questo legame all’essere che dà «slancio alla libertà», in uno strettissimo reciproco rapporto di affidamento e ispirazione (Pareyson 2000, p. 18). Libertà, male e peccato, oppure bene e vita buona degli uomini si giocano perciò sempre nell’orizzonte precostituito della differenza e della partecipazione alla perfezione dell’essere, nel cedimento alla carenza o nella tensione verso la perfezione. Anche nel peccato più radicale, infatti, l’uomo premoderno manifesta, nella propria stessa esistenza, il legame indistruttibile con l’essere, cosicché il ‘nulla’ della differenza non coincide né con il niente, né con il negativo, svolgendo anzi, come detto, una funzione relazionale imprescindibile.
Il mutamento decisivo rispetto a questo orizzonte avviene con il progressivo abbandono del tema dell’essere - e perciò del nulla - a fondamento del pensiero. Negando infatti l’ambivalente appartenenza ontologica dell’uomo e il riferimento all’essere, si perde il legame con la propulsiva generatività e capacità di attivazione della libertà di quello, mentre il nulla si schiaccia sull’unico versante del niente e del negativo (Pareyson 2000, p. 45 ss.). Il percorso imboccato giunge fino alla negazione di ogni conoscibilità e infine concreta partecipazione dell’uomo all’ordine del bene, mentre il negativo, appiattito sul “peccato”, ingigantisce, ricadendo interamente nella responsabilità umana. All’alba di una modernità desiderosa di liberare Dio da confini ritenuti costrittivi della Sua libertà perché legati a un ordine immutabile, si cancella anche ogni leggibilità del legame dell’uomo a quell’ordine e a ogni finalismo al bene, si dissolve l’analogia entis e si dilata lo spazio del desiderio autoreferenziale. Con la linea nominalistica antimetafisica e soprattutto con Lutero, al nulla come differenza relazionante si sostituisce il tema, centrale nel suo pensiero, del male/peccato, che coinvolge totalmente l’uomo, costituendolo in individuo a-relazionale e offuscandone del tutto la libertà. Dopo di lui, in una linea cospicua del pensiero, la libertà viene concepita negli stretti limiti di ciò che dà seguito al desiderio originario dell’autoconservazione, innescando un contesto di insopprimibile e ubiquitaria conflittualità.
2. La svolta ontologica di Suárez
Lo svuotamento del tema del nulla/differenza comporta conseguenze destinate a cambiare radicalmente l’intero asse del pensiero, che si affaticherà a lungo in un profondo ripensamento dell’intero orientamento della metafisica. In un susseguirsi di passaggi qui evidentemente impossibili da restituire nella loro complessità (cfr. Courtine 1999) il nulla con cui si confronta l’ente (ens) ritorna al centro dell’attenzione, ma viene pensato, da Suárez e nella influente linea di pensiero che da lui si diparte, negli stretti limiti del «possibile non essere qualcosa» dell’ente stesso. Come evidenzia inoltre Courtine, con un’altra importantissima osservazione, in Suárez la pensabilità e dicibilità dell’ens è ormai senza immediato collegamento con l’esistenza, presentandosi piuttosto come una «oggettità senza oggetto» (ivi, p. 146): avere realtà per Suárez significa infatti soltanto il posse esse, il poter essere. L’esistenza, così scissa, si svuota di importanza, mentre nella linea metafisica di Suárez e dei suoi epigoni, il nulla/differenza è ormai disabilitato a dire l’ente nella sua diversità relazionata da/a Dio. Inoltre, poiché Suárez costruisce la propria ontologia a partire dalla considerazione dell’ente definibile unicamente come il “non essere il niente”, l’essere “l’al di fuori del niente”, è chiaro lo scivolamento operato da “nulla” a “niente” e da nihil privativum, in nihil negativum, con le conseguenze che vedremo. Per Suárez, infatti, l’ens è ridotto a ciò che intimamente ripugna al niente come ciò che è impossibile, essendo al di fuori di ogni modalità e temporalità (cfr. ivi, pp. 245-246). In questo quadro, Courtine aggiunge che Suárez passa da «una riduzione minimale e tendenzialmente univoca dell’ens alla res e della res all’essentia», riduzioni basate dunque sulla «pura pensabilità basantesi sul principio di non-contraddizione o di deductio ad impossibile… che fonda la “cosa” in quanto “cosa”». Costantino Esposito, nella sua introduzione a Courtine, sottolinea che in questo procedere Suárez ottiene il risultato di estenuare simultaneamente il nientificare e il concetto di ente, tanto che qui si rivelerebbe già il «gesto nichilista» originante la moderna ontologia (Esposito 1999, p. XX). Questa svolta dell’ontologia di Suárez introduce inoltre una torsione oltremodo significativa nella concezione del nulla, che diviene da relazionante, separante e oppositivo, tanto da modificare in profondità il corso del pensiero filosofico, così come l’antropologia negativa messa in circolazione da Lutero e, in generale, dal protestantesimo, condizionerà in profondità la riflessione politica.
Se la “questione del male”, trasformata da Lutero in male radicale e in conseguente rottura di ogni possibile rapporto dell’uomo a Dio sia sul piano conoscitivo che della libertà, prosciugando ogni mediazione, prosciuga anche l’orizzonte della metafisica e si concretizza in una - non voluta - separazione dell’uomo da Dio, una simile separazione trova in Suárez il suo pendant teoretico nella trasformazione della metafisica in ontologia e nel pensiero dell’ens che, se da una parte sembra depotenziarlo, dall’altra gli conferisce un’autonomia del tutto nuova rispetto all’Ens infinitum. Suárez, infatti, pensa Dio – filosoficamente - come ente tra gli enti e, ribadendo l’infinita distanza che Lo separa dagli altri enti, considera questi ultimi, al di fuori del loro statuto creaturale e di qualsiasi relazione analogica o partecipativa, «ut ens est» (Courtine 1999, pp. 234 ss.). Esposito sottolinea sia che qui inizi la via definita da Heidegger onto-teo-logica, sia che, nella misura in cui Suárez trasforma la metafisica in noetica - dove res significa la cosa mentalmente considerata - essa è destinata ad intrecciarsi con la linea ockhamista che considera la cosa effettivamente esistente nella propria singolarità individuale, incontrandosi con l’individualismo luterano: entrambi, a-relazionali. In Lutero la questione del nihil privativum è sostituita con gesto decisivo in male di colpa, in Suárez, in modo altrettanto decisivo il nihil diviene negativum, inaugurando un orizzonte che con ciò stesso dichiara il proprio sganciamento da qualsiasi orizzonte generale di senso.
3. Cancellazione e neutralizzazione del nulla e del negativo: Spinoza e Rousseau
Le questioni ricordate rendono ragione dei problemi di fronte a cui la modernità si trova: il male e il peccato, i cui potenziali di annientamento sono ormai sciolti da ogni legame con l’affermatività dell’essere, gravano in modo inspiegabile e nuovo sulla responsabilità dell’uomo, dando inizio ad un’epoca costretta a reagire a quella che L. Šestov ha letto come la tragica riedizione del detto di Anassimandro di condanna delle cose finite, destinate a pagare il fio della propria intrinseca “ingiustizia” (cfr. Šestov 1967). In questa stessa linea, rinviante al tema anassimandreo, Riconda legge il percorso della modernità come lo sviluppo di una strenua battaglia volta a trovare, in un senso o in un altro, una risposta a questo interrogativo, ora in una negazione della realtà stessa del male, ritenuto erroneamente tale dalla coscienza finita dell’uomo, o, viceversa, in una valutazione del peccato come condizione necessaria dell’abbandono della realtà immediatamente naturale verso la costituzione in umanità di individui conflittuali (cfr. Riconda 2009, pp. 7-9). La conseguenza di ciò è che il riscatto e la salvezza dal male e dal peccato devono essere attuati non individualmente, bensì collettivamente, e, dunque, nella dimensione politica. Anche Roberto Esposito ribadisce l’assoluta centralità della politica, sia nella modernità, sia nel dopo-moderno e ancor di più nel post-moderno, scaturita precisamente dalla revoca di qualsiasi riferimento all’essere e alla trascendenza. Esposito, in pratica riformulando le asserzioni sopra ricordate, ricorda che nella modernità la politica viene giocata o sulla negazione di un fondamento - esemplarmente, per Hobbes, lo stato di natura, a consentire l’accesso alla dimensione salvifica della politica - o, a partire da Nietzsche, sulla teorizzazione dell’assenza di qualsiasi fondamento, che sia il ritorno del nulla assoluto come non fondamento, o il pensiero dell’assoluta immanenza nell’ultima svolta del pensiero politico (cfr. Esposito 2020, p. IX). Il rilievo di Esposito circa il ruolo centrale della categoria della negazione nella politica moderna, fino all’utilizzazione fattane da Hegel come motore della dialettica, conferma, in questo tratto del pensiero, la profonda incorporazione - in un senso o nell’altro - del problema del negativo, in completa sostituzione del decisivo “spazio” concesso al nulla dell’epoca precedente. Il negativo, come ancora sottolinea Esposito, sarà riproposto sia come negazione di un orizzonte immaginato come “naturale”, e drastico ridimensionamento del tema del peccato, sia, anche e soprattutto, come emergerà chiaramente in Spinoza e Hegel, come negazione della negazione.
In Hobbes, mentre il problema del nulla è automaticamente soppresso nel nominalismo che ne caratterizza il pensiero, la gravità del peccato originale, considerata al pari di un’insubordinazione di Adamo al comando di Dio, al fine di «arrogarsi la giudicatura del bene e del male» (Hobbes 2001, XX, p. 173) - e così paragonando il primo uomo a un suddito e Dio al Sovrano dal potere assoluto - è profondamente depotenziata (cfr. Paganini 2009, p. 328 ss.). Se le conseguenze del peccato originale divengono in Hobbes, secondo la tradizione, eredità dalla posterità di Adamo, la condanna dei malvagi dopo la risurrezione nel giorno del giudizio è da lui trasformata invece in estinzione definitiva. Paganini sottolinea che in Hobbes tutto ciò è riconducibile ad un “corporeismo mortalistico” che caratterizza un’antropologia in cui le conseguenze del peccato sono rilevanti solo ai fini della esistenza fisica, eterna se “salvata” o distrutta se dannata (ivi, p. 338). Mentre dunque l’estinzione della corporeità estingue anche la dimensione spirituale e con essa il problema della colpa, dall’altra, il peccato di Adamo nel suo carattere giuridico/politico, apre la strada alla futura soluzione proposta nel Leviathan, mentre anche la vita eterna dei salvati non sembra particolarmente appetibile, limitata com’è nel suo essere «liberazione dalla morte e dalla miseria» (Hobbes 2001, p. 373 ss.). La torsione secolarizzante di Hobbes si perfeziona con l’interpretazione scientistica circa le pulsioni attrattive o repulsive di cui gli atomi che compongono l’essere umano sono portatori, tematizzando il naturale, dunque incolpevole, conflittualismo proprio di individui mossi, prima ancora della deliberazione della volontà, dall’impulso primario potenzialmente esteso “su tutto”. La negazione dello stato di natura che, per Hobbes, aprirebbe alla dimensione salvifica instaurata da Leviathan, è perciò strettamente legata al sostanziale svuotamento del peccato. Non a caso Leviathan è definito il “Dio mortale” e, addirittura, il “Gran Definitore”, colui che costituisce significati e criteri di quanto è giusto o malvagio e il “peccato” è trasformato in insubordinazione ai limiti imposti alla libertà di un soggetto divenuto individuale, autocentrato, a-relazionale.
È Spinoza, tuttavia, a segnare un passaggio ancora più significativo in direzione dell’abbandono del nulla e della neutralizzazione definitiva del male e della colpa. Tematizzando una confluenza senza residui né vuoti degli enti individuali e particolari nella sostanza infinita e perfetta di Dio, in cui tutte le singolarità esistono e sono comprese (cfr. Mignini 2009, pp. 364-365), Spinoza cancella sostanzialmente male e peccato, poiché tutto ciò che esiste e accade è voluto da Dio - o dalla Natura - «che agisce con la stessa necessità con la quale esiste» (Spinoza 1991, p. 264). Gli uomini, nella lettura spinoziana, continuano perciò a parlare di male e di peccato soltanto in rapporto all’idea che si fanno o si sono fatti, secondo la limitatezza della loro ragione, «sia delle cose naturali sia delle cose artificiali», commisurandole alle «idee universali che considerano modelli delle cose» (ibidem). Così i giudizi umani - astratti e infondati data l’inesistenza degli universali - si sovrappongono indebitamente, sia sulle cose, senza confrontarsi con la loro realtà, sia sulle azioni umane, senza che si tenga conto, per mancanza di conoscenza, della catena causale che le ha messe in atto, secondo il ben più ampio disegno divino. Il “peccato” di Adamo, per Spinoza, è perciò solo una falsa interpretazione del progetto di Dio - che aveva deciso che le cose dovessero andare così come di fatto andarono - trasformandolo in una proibizione immaginata dal primo uomo, cui egli antepose ciò che giudicò erroneamente come il proprio utile. D’altra parte, come evidenzia Mignini, qualsiasi cosa «considerata in sé stessa e senza riferimento ad altro», non può contenere o configurare alcun male o peccato, esprimendo al contrario la proprio perfetta natura, come poi conferma esplicitamente Spinoza: «quanto a me, non posso ritenere che il peccato e il male siano alcunché di positivo, e ancor meno ancora che alcunché di positivo possa essere o farsi contro la volontà di Dio…» (cfr. Mignini 2009, p. 366 ss.). L’immagine dell’uomo restituita da Spinoza -compreso Adamo - oscilla in un intreccio complesso e inestricabile di superstizione e ragione, in cui quest’ultima si afferma liberamente nella misura in cui l’essere umano comprende e si plasma sulla necessità e perfezione dell’infinita potenza della sostanza divina, amandola e adattandovisi. Passioni utilitarie, schiavitù e impotenza esprimono solo l’incomprensione e la resistenza dell’uomo al disegno di Dio cui ineluttabilmente appartiene, e dunque peccato e male si svuotano nella loro piena appartenenza a tale disegno (ivi, pp. 373-375). Obliterata, insieme al nihil privativum, la differenza che distingue e relaziona, anche ogni altra forma di negativo è abolita dalla rete di cause ed effetti in cui si dispiega l’affermativa potenza divina. Come in Hobbes, anche in Spinoza, il “peccato” si riduce alla disobbedienza alle leggi positive dello Stato, che dovrebbero consentire a tutti di vivere esplicando la propria “perseveranza nell’essere” e armonizzando i diversi e contrastanti conatus. Come evidenzia Žižek, il significato di «Giustizia» coincide con il potere della possibile affermazione di ciascuno, infatti, «a ogni entità viene concesso di sviluppare liberamente il potere-potenziale dentro di sé», dunque la quantità di giustizia che mi è dovuta è pari al mio potere (Žižek 2012, p. 98). Nella cancellazione dello spazio del nulla come relazione che caratterizza gran parte della modernità, Hobbes e Spinoza traggono in modo emblematico gli esiti di uno svuotamento, fino alla cancellazione, del male e del peccato.
Oltre a questa linea di sostanziale ricusazione del negativo, l’altra grande direttrice del pensiero moderno si muove incorporandone tutta la tragicità e cercandone il riscatto. Il calvinismo da una parte e Rousseau - calvinista di tradizione del resto - dall’altra, indicano, implicitamente o esplicitamente, le vie di contrasto al peccato e al male. Il primo attraverso un esercizio ascetico continuo, capace di indirizzare vita e azioni del fedele nell’aspirazione ad una conseguente e concreta riuscita vocazionale, come nell’analisi weberiana. Rousseau, invece, grazie all’educazione nell’Émile e all’azione redentrice della politica nel Contratto, ipotizza la possibilità di un riscatto duraturo, personale nel primo caso e generale nel secondo, dal male e dal peccato. In Rousseau, centrale è l’attivazione di un processo di razionalizzazione necessario per orientare, sia la conduzione della vita e delle azioni personali, sia per armonizzare le volontà in un orizzonte di libera e generale adesione ad un comune progetto politico. Anche nelle trasformazioni del calvinismo, in Rousseau e nei suoi epigoni, ciò che è totalmente oscurata, è la dimensione del nulla come differenza - nel suo ruolo relazionante, non annichilente e di apertura della libertà dell’uomo - destinata ad aprire ancora una volta immense problematiche. Weber ne coglie la portata chiarendo l’inestinguibile processo di razionalizzazione funzionalizzante in cui si esaurisce - compressa dalla famosa “gabbia d’acciaio” - la libertà dell’individuo moderno. Processo, tuttavia, reso necessario nella durata per compensare la pregiudiziale, onnipresente, distruttiva irrazionalità del male che, nel calvinismo, negando la possibilità del bene, ne sterilizzava le dimensioni relazionali e cooperative trovando l’unico riscatto nell’accumulazione del denaro (cfr. Löwith 1967, p. 21 ss.). All’opposto, il progetto politico-filosofico rousseauiano prevede di instaurare, tramite l’educazione e il controllo del Legislatore e della religione civile, un contesto di relazioni libere perché depurate da ogni residuo di irrazionale contrasto e negatività.
4. Da Hegel alle “ontologie del ‘900”
In Hegel i temi dell’essere e del nulla riprendono in pieno il loro peso (cfr. Hegel 2004, L. I, p. 59 ss.) e di conseguenza anche tutte le articolazioni che ne conseguono di identità - e, dunque, unità - differenza, negazione, opposizione, distinzione, contraddizione, proprie del suo sistema dialettico (cfr. Beierwaltes 1989, p. 280 ss.). Wahl analizza il ruolo fondamentale della negatività nella Fenomenologia, sottolineando il tema del negativo come spazio del confronto tra il finito e l’infinito, con il primo che si autodistrugge in un movimento infinito, cosicché il movimento della negatività procede, unendoli, tra finito e infinito. «L’idea di negatività non era più quindi quella d’un negativo puro e semplice, vuoto e astratto, come d’indifferenza, ma quella della pienezza di movimento, d’un rapporto e nello stesso tempo di un’unità, e, pertanto di qualcosa di positivo, di qualcosa che è l’assoluto stesso» (Wahl 1972, p. 124 ss.). Ma la riflessione di Hegel sul negativo, come vera e propria trama del suo intero sistema, si dispiega anche e soprattutto nella Logica come negatio duplex nel rapporto dell’essere a sé e all’essenza, mentre nelle Lezioni sulla Filosofia della Religione, la negazione è pensata come differenza e posta sotto il segno «dell’universale orizzonte concettuale di un’unità di pensare ed essere» il cui telos è il raggiungimento dell’ «idea assoluta» e assolutamente concreta. Come sottolinea Beierwaltes nella propria analisi del rapporto tra filosofia e religione in Hegel, nella triadicità del pensare filosofico è rispecchiata la dinamica trinitaria e «Nella “riflessione assoluta” la negatività, “la quale è in diretto rapporto con sé stessa”, si rivela, ad un tempo, essere questa disgiunzione e questa potenza che ritorna a sé. La negazione deve essere sempre pensata come una determinazione. In tale concezione viene determinata l’idea concreta. La disgiunzione è, dunque, negazione d’una determinazione o negazione della negazione» (Beierwaltes 1989, p. 302). Il negativo, in Hegel, è, dunque, scansione relazionante e propulsiva intercettata nel movimento dell’essere in sé stesso, dello spirito con il reale, del soggetto con l’assoluto, e rappresenta una svolta radicale rispetto alle posizioni prese precedentemente da Spinoza e da Rousseau, e al tentativo dell’uno di eliminare, e dell’altro di neutralizzare completamente il negativo. Non stupisce dunque che per Hegel il male nella scelta etica dell’uomo si realizzi quando «la volontà si ferma alla sua particolarità naturale [e] con ciò stesso si contrappone all’universalità del bene» così come alla radice di tutti i mali sia il soggettivismo, espressione di un particolarismo che dimentica «ogni legame con la verità sostanziale» (Pagano 2009, p. 640).
Se Hegel rappresenta l’ultimo grande tentativo di leggere il negativo nella sua funzione di differenziazione mediatrice e relazionante, colto sia a livello del pensiero che dell’essere, per declinarlo poi nella concreta dinamica del proprio grandioso disegno giuridico e politico, dopo Nietzsche, come sottolinea Esposito, non è più possibile radicare la politica «nella sfera di un essere sostanziale» dato il tentativo di Nietzsche di inaugurare un pensiero della totale immanenza, dove del nulla, come dell’essere, non rimane traccia (Esposito 2020, p. IX). Nell’orizzonte post-nietzscheano, il problema del negativo è ripreso ancora e in modo centrale da Heidegger, non tuttavia, come sottolinea ancora Esposito, nella sua forza istituente, bensì nell’ottica destituente di una politica divenuta impolitica perché assorbita dalla tecnica, e le cui decisioni vengono da quella espropriate (ivi, p. XII). Il nulla/differenza che, nella propria funzione relazionante, aveva aperto e reso possibile, nel pensiero metafisico classico lo spazio della libertà e dell’azione nella scelta ontologicamente possibile tra “ordine” e “dis-ordine” e, nella ripresa hegeliana era motore del movimento dialettico di reciproca incorporazione tra il reale e lo spirito assoluto, in Heidegger è trasformato in differenza abissale, insondabile. Esso si svuota così di ogni funzione relazionante mentre il pensiero metafisico, nel consegnarsi totalmente all’ente e nell’oblio dell’essere, subisce la pervasiva produttività della tecnica e la sua potenza oggettificante.
Lo scacco nichilistico in cui incorre il pensiero di Heidegger suscita però, ancora una volta, una reazione potente di “negazione della negazione”, a evidenziare il passaggio dalla continua tensione tra posizioni contrastanti nel pensiero moderno sulla questione del nulla e del negativo, ad un vero e proprio corpo a corpo con il nulla e con il negativo nella postmodernità. Deleuze imprime a questa lotta l’impulso teoretico più significativo, illuminando il sottile crinale su cui, dopo il tornante nietzscheano, filosofia e politica si incontrano in un connubio strettissimo ma altamente problematico. Costruendo infatti, in un orizzonte di assoluta immanenza, un’ontologia univocista che mira all’esaurimento definitivo della questione del negativo, il pensiero affermativista di Deleuze si presenta come totalmente politico e totalmente impolitico, poiché ogni manifestazione dell’essere è leggibile a partire dalla potenza che dispiega, che, tuttavia, è pura, anarchica autoesplicazione. In Differenza e ripetizione, centrale è la volontà di Deleuze di rovesciare il platonismo - canone comune alla filosofia francese dell’epoca - di cui egli conserva il tema della «differenza in quanto tale», ripudiandone però la centrale funzione di mediazione costitutiva dell’identità, destinata a coagularsi nel concetto di un oggetto subordinato «alle esigenze della rappresentazione» (Deleuze 1971, pp. 102-103). Se Deleuze coglie, di Platone, la centralità della differenza, tale mantenimento è compiuto - come si esprimerà in Pourparler - secondo il personalissimo «uso» che egli fa della storia della filosofia, arrivando alle spalle dell’Autore per «fargli fare un figlio, che fosse suo e tuttavia mostruoso» (Deleuze 2000, pp. 14-15, in Žižek 2012, pp. 114-115). Di quale figlio mostruoso si tratti è chiaro: non c’è distanza più grande, dal concetto di differenza che struttura il sistema dialettico platonico nella sua funzione istituente e relazionante, dell’idea di differenza di Deleuze. Anche la visione platonica della molteplicità ricondotta, nel dialogo tra differenze, all’unità, viene rovesciata da Deleuze nel paradigma dell’univocità di un essere le cui infinite pieghe, tra loro totalmente irrelate, differenti e continuamente mutevoli si distribuiscono nello spazio dell’essere e lo ripartiscono, non secondo le «esigenze della rappresentazione, ma… nell’univocità della semplice presenza (l’Uno-Tutto)» perfettamente satura (Deleuze 1971, p. 67). Mentre per Platone l’essere si legge solo nelle sue articolazioni interne di identità, non-essere come differenza/alterità, moto e quiete, tracciando così uno schema che struttura le dimensioni metafenomeniche e fenomeniche in una relazione che è interna a ciascuna di esse, ordina il loro reciproco rapporto, e su cui si fonda anche la dialettica dei principi primi (Beierwaltes 1989, p. 37 ss.), in Deleuze, al contrario, l’essere, nella propria interna e continua mobilitazione produttiva, coincide im-mediatamente con la Differenza (Deleuze 1971, p. 110). Quest’ultima è affermazione, tanto quanto l’affermazione è differenza (ivi, p. 92): l’univocismo di Deleuze non è solo nella lettura che ne fa Badiou (cfr. Badiou 2004), è certamente il nucleo centrale della sua riflessione. Le affermazioni di Deleuze circa l’Essere che si dice in un solo e stesso senso e che si dice in un solo e stesso senso anche di tutte le sue differenze individuanti e modalità intrinseche, è affermazione che inquadra inequivocabilmente il suo pensiero, chiarito ulteriormente dalla esclusione di ogni relazione tra differenze che si presentano come singolarità (cfr. Noys 2010, p. 58). Non c’è dunque apparentemente spazio, in questa fase del pensiero di Deleuze dichiaratamente affermazionista, per il vuoto o il nulla, né, evidentemente, per il negativo, coerentemente con il suo dichiarato debito a Spinoza e a Bergson (cfr. Esposito 2020, p. 85 ss. e Noys 2010, pp. 56 e 60). Com’è stato notato da più parti, tuttavia, questa posizione implica che, insieme al negativo, sia messo in discussione ogni progettualità politica, schiacciata su un produttivismo continuamente germinante, differenzialistico e a-relazionale mentre, con tutta evidenza, la politica è continua costruzione e mantenimento di relazioni dotate di un grado di stabilità e di capacità istituente (cfr. Esposito 2020, p. 112 ss.). Esposito sottolinea perciò tutte le difficoltà di una politica coincidente con l’ontologia e con un’ontologia che comprime il negativo schiacciandolo sui temi della potenza e della distinzione tra le esplicazioni attive o passive di quella. In questo, come ancora egli segnala, Deleuze, che aveva colto il problema cruciale rimasto non risolto nella visione di Spinoza di una lettura della politica che, plasmandosi «sull’affermatività dell’essere», riesca a differenziarsi dalla manifestazione della sua potenza senza cadere nell’indifferentismo tra le possibili opzioni pratiche da adottare, replica il medesimo cortocircuito (ivi, pp. 113-114).
Consapevole di tale problematicità, Deleuze - dopo gli eventi del maggio ’68 - fa proprio, mutuandolo dalla linguistica, il tema della “casella vuota” per aprire uno spazio di critica alla società neoliberale, cercando di gettare luce sulle trasformazioni che le forze sprigionate dall’essere assumono al variare delle loro posizioni e sul loro possibile senso politico. Pur reclamando attenzione per il vigore destituente e rivoluzionario delle suggestioni politiche di Deleuze, Bazzicalupo nota, tuttavia, tra gli altri, che egli è costretto continuamente a rielaborare il proprio differenzialismo libertario da quello neoliberale: entrambi produttivistici, deterritorializzanti, anarchici nel proposito di liberazione dei desideri, sembrano indifferenziarsi nell’esplicazione della loro potenza affermativa (cfr. Bazzicalupo 2016, pp. 146-147). Una volta eliminato il negativo, ridotto spinozianamente a maggiore o minore potenza di agire, emerge tutta la difficoltà per un pensiero come quello di Deleuze di presentare la propria posizione come liberante contro la costrittività mercificante del neoliberalismo (cfr. ivi, pp. 145-146). Ancora, come far sorgere quella soggettività rivoluzionaria che può rompere con il senso comune, con la rappresentazione che altro non è se non giudizio, instaurazione della logica di debito e colpa, formulazione di identità rigidamente costituite quando, di quello stesso soggetto si è negata l’identità? Come far sì che la politica non si dissolva nell’orizzonte di un puro, gioioso, mobile affermazionismo, distinguendosi e opponendosi costruttivamente alla logica dotata di formidabile potenza del capitalismo neoliberale? Le risposte degli interpreti differiscono, raccogliendo di volta in volta le diverse suggestioni proposte da Deleuze circa la capacità di mobilitazione, aggregazione, libera affermazione delle energie provenienti spontaneamente dal basso contro l’irrigidente normativismo ordinativo statalista (cfr. ivi, p. 148 ss.), o sulla convinzione che la capacità deterritorializzante del capitalismo si trasformi anche in motore di disaggregazione e liberazione, o sull’affermazione che il soggetto rivoluzionario trovi dentro la continuamente rinascente relazione a sé la capacità di opporsi alle relazioni di potere e di sapere che lo condizionano dall’esterno, così da mobilitarle continuamente (cfr. Noys 2010, p. 68 e Esposito 2020, p. 112 ss.). Quello che non è chiaro, in tutte queste posizioni, è come, dal differenzialismo ontologico e affermativista proposto da Deleuze, possano ricavarsi i criteri di una possibile valutazione circa il negativo di un orizzonte politico culturale.
Non potendo riassumere tutte le criticità del pensiero politico/ontologico di Deleuze basti dire che esso restituisce il senso teoreticamente più coerente di un intero orizzonte di pensiero che tende, da Sartre in poi - benché in Sartre la presenza del nulla sia, invece, decisiva, sia pure in una prospettiva totalmente ripiegata in una torsione nichilistica che coinvolge ogni rapporto: la relazione di sé a sé, ad ogni altro da sé e al mondo -, all’immanenza assoluta, implicante in primo luogo, il rifiuto radicale del nulla e del negativo e, ovviamente, del peccato. Ciò che è chiaro da quanto detto è che la pretesa saturazione del “nulla” nell’Uno/tutto, sottostante, più o meno esplicitamente, al pensiero dell’immanenza, produce un differenzialismo a-relazionale da cui è revocata ogni funzione identitaria, produttiva di singolarità chiuse in sé stesse e in continua trasformazione, distinte solo secondo la propria potenza affermativa, cui è affidata ogni residua possibilità di valutazione.
Su questa trama la politica, estesa tanto quanto il manifestarsi dell’essere e delle sue differenze, rischia di veder dissolto ogni suo significato, a partire da quello, centrale e oggi fortemente e ubiquitariamente sollecitato, della custodia e della cura di queste stesse differenze, nella loro dignità e nel loro specifico valore. Il movimento circolare o infinitamente espansivo in cui la politica è paradossalmente schiacciata e svuotata rischia di risolversi così in una petizione di principio o in un anarchismo senza direzione facilmente travolti dalla logica di potenza.
Bibliografia
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