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Girard e la modernità. Il sacrificio tra retribuzione e colpa espiatoria

CRISTIANO-MARIA BELLEI
Articolo pubblicato nella sezione Girard, filosofia e politica

1. Origine

La prima cosa che salta agli occhi analizzando la teoria sacrificale di René Girard è l’assenza di Dio. La triade sacrificatore, vittima, divinità viene spezzata a favore di un rituale in cui la relazione tra comunità e capro espiatorio diventa esclusiva. Lo spostamento di prospettiva rispetto agli studi classici è enorme. Dall’idea di sottomissione ad una entità superiore si passa alla convinzione che l’intero processo sia da ricondurre a bisogni interni al sociale, un sociale che non potrebbe esistere senza meccanismi condivisi di gestione della violenza. Non si tratta più di rendere grazie a qualcuno per la propria sopravvivenza, ma di nascondere dietro l’offerta bisogni che hanno a che fare con fragilità e paure umane. Il trascendente non sarebbe che una maschera posticcia dell’immanente, mentre miti e rituali assumerebbero il ruolo di strumenti di misconoscimento, artifizi con cui occultare l’origine omicida della comunità.
Come un vero e proprio investigatore, Girard setaccia testi sacri e tradizioni culturali: sotto indagine finiscono intellettuali, scienziati ed artisti. Tutto e tutti sembrano in qualche modo complici della reiterazione di un reato commesso nella notte dei tempi. Da questi interrogatori emerge l’idea di una umanità instabile e spaventata. Per quanto Girard lo schedi tra i cattivi, la sua antropologia non si distacca molto da quella di Nietzsche: l’uomo viene descritto come un animale malato: che si tratti della incapacità di governare pulsioni e desideri, o della genericità della sua struttura biologica, il ritratto che ne esce è quello di una creatura condannata all’impossibile soddisfazione di sé. La necessità di riempire questo vuoto tramite l’appropriazione mimetica di modelli vincenti, è la cartina di tornasole di una incompletezza distruttiva. L’accusa rivolta alla nostra specie è quella di essere riuscita a colmare queste mancanze, e di averlo fatto in modo cruento. Se il movente è la ricerca della pienezza di sé, la colpa è quella di aver imparato ad uccidere insieme per un fine comune, di aver scoperto modalità e tecniche attraverso cui riversare su di un singolo frustrazioni e debolezze.
Se fossimo in un tribunale un avvocato difensore avrebbe gioco facile nel chiedere l’infermità mentale per i propri clienti, ma purtroppo stiamo facendo filosofia, e certe attenuanti qui non hanno alcun valore. Stare sul banco degli imputati non è mai comodo, soprattutto quando ad accusarti ci sono prove difficili da confutare. E Girard è davvero bravo ad inchiodarci alle nostre responsabilità: così abile da sbatterci in faccia che le narrazioni attraverso cui abbiamo giustificato la violenza non sono che uno sterile tentativo di cancellare le nostre responsabilità.
A differenza di quella animale, l’aggressività umana non è regolata da alcun limite istintuale. Per non entrare in una spirale di reciprocità distruttive abbiamo bisogno di compiere un passo in più, di sopperire alla carenza di freni inibitori attraverso la tecnica. Il problema è quello di riuscire ad imbrigliare questo fiume dentro argini che possano condurlo in modo sicuro fino al mare. Provare ad opporsi a questa forza avrebbe come conseguenza la perdita di ogni possibilità di controllo. Come Lorenz ricorda nel suo libro sull’aggressività (Lorenz 1986), questa pulsione può essere paragonata ad un cavallo che per essere reso mansueto ha bisogno che gli vengano lasciate le briglie sciolte, trattenere troppo a lungo l’indole dell’animale avrebbe come conseguenza quella di finire disarcionati. Ma tutto questo non è ancora abbastanza, aver imparato a rimanere in sella non ci mette al riparo dal fatto che il cavallo possa dirigersi dove meglio crede. Perché il cerchio si chiuda e la violenza acquisti una valenza creativa, bisogna riuscire ad ingannarla. Non si tratta di inventare nulla, come dimostrato da Tinbergen (Tinbergen 1994), nel mondo animale esiste già un meccanismo in grado di garantire che aggressività e rabbia non mettano a rischio la tenuta delle relazioni intraspecifiche. Si tratta della ridirezione, una modalità comportamentale che evidenzia come l’ira non debba abbattersi proprio contro l’oggetto che l’ha scatenata, ma possa essere rivolta contro qualcosa o qualcuno la cui morte non abbia conseguenze per la tenuta del branco. Il lavoro umano è quello di appropriarsi ritualmente di questa capacità svincolandola dal suo contesto naturale. Dobbiamo pensare alla nostra inadeguatezza come ad un hardware privo di software, come ad una macchina con potenzialità enormi che ha bisogno di essere riempita di modelli per poter rendere al meglio. L’apprendimento mimetico è il nostro sistema operativo, un ambiente artificiale in cui appropriarsi di comportamenti che hanno avuto un particolare impatto sulla nostra sfera emotiva.
È partendo da queste consapevolezze che Girard delinea la scena del crimine in cui sarebbe avvenuto il linciaggio primordiale. L’aria che si respira è quella di una conflittualità opprimente: quelle che combattono tra loro non sono creature capaci di autodeterminarsi, ma primati succubi dei propri egoismi. Come se ci trovassimo in un radicale individualismo preumano, l’unica legge che vige è quella del più forte. Nessuna mediazione è possibile, così come nessuna deroga o tregua. Tutto è violenza, paura, assenza di empatia. La via d’uscita da questa condizione non scaturisce da un atto di volontà, ma da una reazione emotiva. Ansie e frustrazioni vengono attirate all’unisono da una non meglio precisata differenza. Nell’uniformità violenta qualcosa è apparso come stonato. Una difformità così evidente da catalizzare l’attenzione. Come in una catarsi l’atto è repentino. Che si siano utilizzate pietre, bastoni o semplici morsi il risultato non cambia, per la prima volta l’orda può assaporare il senso di sicurezza provocato dall’aver agito insieme. Pur trattandosi della sommatoria di singoli gesti, più che di un atto coordinato, il risultato è straordinario: là dove prima convivevano molteplici solitudini ora si erge un gruppo compatto di complici. Al centro un cadavere, il segno tangibile di una sostituzione vittimaria che ci ha permesso di diventare umani.


2. Caccia

Nonostante Girard costruisca un quadro d’insieme solido e convincente, nella sua arringa ci sono alcune argomentazioni che andrebbero approfondite. Uno dei punti deboli dell’omicidio primordiale è l’autoreferenzialità del modello. L’idea che la principale preoccupazione dei nostri progenitori fosse quella di difendersi dai propri simili, funzionerebbe meglio se ci trovassimo all’interno di un esperimento di psicologia sociale. Il rischio che si corre analizzando il comportamento umano prescindendo dalle influenze esterne, è quello di partire da presupposti sbagliati per giungere a risultati forzati. Milgram e Zimbardo hanno dimostrato quanto la relazione con l’ambiente possa interferire con la nostra capacità di autodeterminazione. Perché mai dovremmo pensare che questi condizionamenti non siano validi anche per chi ci ha preceduto?
Ma veniamo al linciaggio. Considerando che nella prospettiva dello studioso francese questa azione segna il passaggio da uno stato di animalità ad uno di civilizzazione, risulta poco chiaro come la differenza della vittima sia riuscita a polarizzare su di sé una violenza così frammentata. Una prima ipotesi potrebbe essere quella di una maggiore pericolosità rispetto al resto dei confliggenti, tesi difficilmente sostenibile se accettiamo i dati antropologici che descrivono i nostri antenati come primati strutturalmente piccoli e deboli. La seconda possibilità ha a che fare con la presenza di qualche difformità fisica: una zoppia, una menomazione così visibile da risaltare su ogni cosa. Plausibile, ma per stigmatizzare in modo così netto una deviazione dalla norma, bisognerebbe che una norma esistesse già, ma se così fosse non saremmo più di fronte ad un evento fondatore. E se si trattasse di pura e semplice sfortuna? Se la vittima fosse stata uccisa perché nel medesimo istante in cui l’agire violento rendeva tutti uguali, lei era intenta a fare altro? Anche in questo caso andremmo a sbattere contro ad un muro. Perché volontà spaventate riescano a coordinarsi, bisogna che in gioco ci sia molto di più. Affinché una reazione emotiva sia così forte da farsi unanime, serve che la necessità di uccidere insieme sia preceduta dal timore di essere uccisi insieme. Inutile girarci intorno, seguendo questa strada si finisce in un vicolo cieco.
A rendere le cose più complicate c’è il fatto che Girard non ignora l’esistenza di variabili che mal si conciliano con la sua visione dell’origine, ma sceglie di depotenziarne la portata piegandole alle proprie esigenze. L’interpretazione della caccia da parte dell’autore francese rientra in questo schema: «Per capire l’impulso che ha potuto lanciare gli uomini all’inseguimento degli animali più voluminosi e temibili, perché si crei il tipo di organizzazione richiesto dalle cacce preistoriche, è sufficiente ammettere che anche la caccia inizialmente è un’attività sacrificale. La selvaggina è percepita come un sostituto della vittima originaria, mostruosa e sacra. Nella caccia gli uomini si lanciano all’inseguimento di una vittima riconciliatrice» (Girard, 1983, p.97).
L’errore è sempre il medesimo, dimenticarsi di inserire le azioni nel proprio contesto. La più antica forma di cooperazione umana diventa così una semplice imitazione di quel gesto fondatore di cui poc’anzi abbiamo potuto analizzare limiti e difetti. Quello che manca è una spiegazione di come, quando e perché abbiamo imparato ad inseguire gli animali; di come, quando e perché abbiamo costruito armi senza le quali sarebbe stato impossibile ucciderli; di come, quando e perché ci siamo dotati di prescrizioni così stringenti da garantirci che non avremmo utilizzato gli uni contro gli altri questi strumenti di morte. Ma la cosa che più di ogni altra risalta per assenza, è che non c’è alcun riferimento al fatto che, prima della necessità di sfogare la violenza intestina, gli esseri umani hanno bisogno di nutrirsi, ed imparare ad uccidere insieme è molto più semplice di riuscire a dividere il cibo in modo pacifico.
Come ogni grande pensatore, Girard è troppo importante per essere lasciato solo con sé stesso. Il dovere di chi si è formato sui suoi testi è quello di provare ad aprire la cassaforte delle cose non dette, di mettere il dito là dove fa male. Per riuscire in questo compito è necessario abbandonare dogmi e certezze e provare a rimescolare le carte. La prima cosa di cui liberarsi è la certezza che nel processo di ominazione la violenza reciproca abbia un ruolo determinante. Se usciamo dal contesto antropocentrico in cui Girard è andato ad infilarsi, capiamo che, ben lungi da essere formata da una moltitudine di creature ripiegate su se stesse, la nostra specie aveva un ruolo preciso all’interno della catena alimentare dei grandi mammiferi. Eravamo il pranzo e la cena di qualcuno, e se proprio dobbiamo trovare una fonte di paura aggregante, è in quella direzione che dobbiamo guardare. Canetti scrive che in natura esistono due forme di potere, quella di afferrare e quella di non lasciarsi afferrare: «Solo un passo ci separa quindi dal riconoscere l’atto decisivo del potere là dove esso si manifesta nel modo più evidente, dai tempi remoti, fra gli animali e fra gli uomini: proprio nell’afferrare. A ciò si riferiscono le superstizioni relative ai grandi felini, alle tigri e ai leoni. Quegli animali sono i grandi afferratori (…) Vi è tuttavia un secondo atto di potere, certo non meno essenziale anche se non così fulgido. A volte si dimentica, sotto la grandiosa impressione suscitata dall’afferrare, l’esistenza di un’azione parallela e pressoché altrettanto importante: il non lasciarsi afferrare» (Canetti 1981, pp. 247, 248).
La relazione tra uccisi ed uccisori si regge su due bisogni complementari. Da un lato predatori affamati alla ricerca di sazietà, dall’altro prede desiderose di continuare a vivere. Che un leone catturi una gazzella, o che questa riesca a sfuggirgli, la questione finirà sempre e comunque con una uccisione. Nel primo caso il felino si nutrirà dell’animale afferrato, nel secondo ad essere divorato sarà un compagno più debole di chi è riuscito a sfuggire all’attacco. Per quanto possa apparirci cruento, non dobbiamo commettere l’errore di credere che si tratti di un contesto in cui non esiste tregua. Se così fosse il sistema collasserebbe. Le prede non avrebbero tempo di riprodursi ed i predatori finirebbero per trovarsi soli con la propria fame. Nessun leone uccide più di quello che serve. Una volta garantito il cibo al branco, non c’è motivo per continuare a cacciare. La pace corrisponde alla sazietà. Nelle savane africane accade un fenomeno particolare: una volta che un predatore è riuscito a raggiungere l’obiettivo prefissato, il resto degli animali in fuga ferma la propria corsa, come se rimanere a pochi passi da chi sta consumando il suo pasto non comportasse più alcun pericolo. Un vuoto è stato riempito, una imperfezione placata. Fino a quando la fame non tornerà a farsi sentire non ci sarà rischio.
Quello che i primi ominidi hanno sotto gli occhi non è un mondo disordinato, ma un ambiente che si regge su saldi determinismi. Non c’è alcun problema identitario da superare, a connotare il noi è la differenza tra il divorare e l’essere divorati. Il percorso evolutivo che ci ha portati a diventare umani, non è costituito di atti fondatori, e nemmeno di salti improvvisi. Per quanto possa risultare affascinante, non si tratta di individuare quale tipo di uccisione ci abbia trasformati da impacciati ranocchi in principi, ma di intravedere un percorso fatto di piccoli passi, di capire perché proprio a noi sia riuscito di uscire dal nostro ruolo specifico. Gli elementi che ci hanno permesso di farlo sono essenzialmente due: la plasticità del cervello e l’abilità delle mani. La nostra genericità biologica, unita ad una massa cerebrale molto sviluppata, hanno dato vita ad un connubio unico. Girard lo chiama mimetismo, Canetti metamorfosi, ma per quanto tra queste due teorie ci siano differenze sostanziali, entrambe ci mettono di fronte alla nostra vera caratteristica: la capacità di diventare altro da noi. Quella che l’autore francese definisce carenza di essere, viene riempita dall’introiezione di modelli che ci paiono privi dell’inadeguatezza che ci attanaglia, mentre la passione per la sopravvivenza ci porta ad elaborare strategie difensive sempre più complesse ed elaborate. Non c’è spazio in questo contesto per la violenza indifferenziata, la morte è tutto, una morte reale, con volti, modi e tempi ben determinati. Metamorfosi e mimetismo sono lo strumento che la natura ci ha fornito per esercitare il potere di non essere afferrati. Non abbiamo zanne o artigli, ma mani in grado di stringere un bastone, non possediamo gambe veloci, ma col palmo destro possiamo offrire mentre nascondiamo col pugno sinistro. Siamo l’unico animale la cui fuga è in realtà un abbraccio: invece di allontanare ciò che ci uccide, instauriamo con lui una relazione fatta di mimesi, corruzione e sottomissione. La verità è che vorremmo essere accolti, entrare a far parte di quella perfezione che abbiamo osservato così da vicino mentre dispensa morte e soddisfa pulsioni. «Se le gazzelle avessero una fede e se il leone fosse il loro dio, potrebbero spontaneamente concedergli una di loro per placare la sua avidità» (Canetti 1981, p. 374).
Dio non è la proiezione sacra della vittima primordiale, dio è colui che sfamiamo ritualmente affinché si astenga dal divorarci.


3. Sacrificio

In Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Girard chiarisce la sua posizione verso chi gli ricorda che il religioso è un universo troppo complesso per essere ridotto ad un unico schema interpretativo: «La ricerca scientifica è riduttrice oppure non è niente. Quella gente, a quanto pare, considera la diversità delle forme sacrificali preziosa quanto le trecento varietà di formaggi francesi. Sono affari loro. Non partecipiamo alla stessa impresa intellettuale» (Girard 1983, p. 59). Tralasciando la durezza di queste parole, ciò che risulta evidente è la totale assenza di una risposta alle critiche. E non potrebbe essere altrimenti. Se da un lato è vero che per formulare una tesi bisogna ridurre la complessità, dall’altro non è possibile ignorare culture antichissime solo perché non conformi a ciò che si vuole dimostrare.
La più diffusa e duratura tradizione sacrificale è quella che dall’India antica si dipana fino alle più moderne forme dell’Induismo. Nei Veda e nei Brahmana l’offerta alla divinità è un gesto quotidiano, un rito esplicativo dell’ordine del mondo e di ogni attività umana. Ma allora perché un così prolungato silenzio? Perché Girard arriva con tanto ritardo ad occuparsi di questo universo di riti e prescrizioni? (Girard 2004)
Vediamo di andare con ordine. La struttura portante del sacrificio brahmanico non ha alcuna finalità di tipo civico, ma quella di rispondere a doveri individuali. Il mito ci racconta di un unico sacrificante primordiale, Prajapati, contemporaneamente padre e figlio, creatore e creato: «Dio solitario, da cui tutto sorge, Prajapati non è certo un dio onnipotente. Ma ogni suo gesto è fatale, perché è fondatore (…) Generando dalla bocca il figlio primogenito, Agni, egli lo fece essere una bocca, costretta a divorare cibo. Da allora la terra sarebbe stata il luogo dove qualcuno divora qualcun altro (…) Perciò Agni, fin dal primo istante, apparve coincidente con Morte» (Calasso 2010, p. 104). Nell’attimo più drammatico della scena, Prajapati sente dentro di sé una presenza femminile che gli impone di offrire. Si tratta di Vac, Parola, proiezione di un terrore che produce tecnica, capacità di problematizzare situazioni che in natura sarebbero cristallizzate. Ed è proprio solidificando con le mani il sudore generato dalla paura, che Prajapati compie quello che Calasso definisce il gesto che cambierà per sempre le sorti del mondo: gettare in pasto a al posto di. Esattamente come le altre teologie brahmaniche, anche questa non deve essere interpretata come testimonianza storica, ma come liturgia. I testi vedici sono degli strumenti pratici che spiegano quale sia il modo corretto di svolgere le pratiche religiose. I punti di contatto con quanto scritto in precedenza sono evidenti. Tutto gira intorno alla sazietà. La morte non è una forza centrifuga che agisce per capriccio al di fuori di ogni logica, ma la proiezione di una paura nata della relazione primordiale coi grandi predatori. «Agni consuma e gli animali divorano; e come Agni lascia cadere le ceneri di ciò che ha consumato, così gli animali espellono escrementi che cadono a terra. Questi animali che per tanti versi assomigliano ad Agni sono in verità Agni» (Malamoud 1994, p. 85). La religiosità indiana risulta incomprensibile se non si mette a fuoco la psicologia del mangiare da cui è attraversata. Mentre l’occidente è abituato a ragionare in termini di ordine e disordine, l’ambivalenza più importante dei brahmana è quella tra pieno e vuoto, tra sazio ed affamato. «La continuità del sacrificio è la condizione della pienezza del mondo. Il sacrificio senza lacune, il mondo senza fessure è il ṛta, “concatenamento esatto”: il procedimento corretto nel lavoro rituale è nello stesso tempo l’immagine e la causa dell’armonioso alternarsi dei giorni e delle notti, del succedersi delle stagioni, della pioggia che cade al momento giusto, dell’ordinato incontro tra mangiatori e mangiati (…) Tale è quindi il ṛta: il pieno indifferenziato. Al ṛta si oppone nirṛti, “disordine”, “disorganizzazione”. La nirṛti risiede nei buchi, negli intervalli, negli abissi che il lavoro rituale si adopera instancabilmente a riempire» (Malamoud 1994, p. 79). Il mondo è pacificato quando la catena dei sacrifici permette il corretto riempimento degli spazi, quando ognuno ha ricevuto la quantità di offerte dovuta alla sua posizione nella scala gerarchico/alimentare. La catena di ripartizione dei beni è simile a quella delle antiche mute di caccia: nessuno deve rimanere con la pancia vuota, ma ognuno deve avere nulla più di quanto gli spetta. La morte predatrice diviene in questo modo un modello sul quale costruire le differenze sociali. Il consumo è il metro della propria importanza, più si è in basso nella scala e più ci si deve cibare di ciò che resta dei banchetti altrui. Nei Brahmana c’è una vera e propria ossessione per come deve essere regolato il resto: ciò che viene scartato da chi sta sopra, diventa cibo per chi sta sotto, in una infinita progressione al ribasso. Per quanto le oblazioni vengano quotidianamente rivolte ad innumerevoli divinità, il vero destinatario del contenuto sacrificale è Yama, il dio della morte, figura che ha tutte le caratteristiche di un vero e proprio esattore. L’idea di fondo è che non sia un peccato originale a definire la sottomissione degli esseri umani, ma un debito che può essere dilazionato: “Chiunque esista nasce in quanto debito. L’uomo non è semplicemente gravato dal debito, è definito da esso” (Malamoud 1994).
Il cerchio si chiude e si torna al gesto originario: che si tratti di una figura mitologica, o di un primate che impara a lanciare cibo al predatore, l’offerta risalta in tutta la sua potenza sostanziale e simbolica. Noi siamo il cibo della morte, essa si astiene dall’afferrare ciò che le spetta perché accetta di essere corrotta dal sacrificio. L’attenuarsi della minaccia di morte (Canetti 1981) determina l’instaurarsi di una vicinanza che produce una spinta mimetica verso la sua completezza. Essere pieno diventa così la caratteristica anche del potere umano. Dimmi quanto puoi consumare e ti dirò chi sei. La competitività distruttiva è tenuta sotto controllo da una reciprocità debitoria che sostituisce l’uguaglianza specifica con differenze di casta. Minaccia e dipendenza diventano mezzi con cui si difende il sociale dall’indifferenziazione. Così come la gazzella sa di non poter diventare leone, allo stesso modo lo schiavo deve credere di non poter diventare padrone. L’artificialità di queste separazioni avrebbe però il fiato corto se il desiderio di essere altro da sé non avesse spazio di azione. Nelle relazioni umane è fondamentale che la spinta al rovesciamento non sia del tutto soffocata, consentendo di sfogare rabbia e frustrazioni. È per questo motivo che, pur all’interno di paletti ben codificati, i ruoli tra gli umani non sono considerati immutabili come quelli verso gli dei. «Il debito verso gli uomini è meno originario degli altri: è più facile comprenderlo come un momento all’interno di un sistema di scambi, dato che nel debito verso gli uomini le due parti possono subire un’inversione dei ruoli”» (Malamoud 1994, p.129). Ciò che conta è che questo dinamismo non sia rivoluzionario, che non metta in discussione lo schema rinuncia/sacrificio/offerta provocando così una perdita di riconoscibilità reciproca. Il segreto è quello di far credere a chi sale nella gerarchia di star compiendo un gesto di liberazione, mentre in realtà sta replicando il ruolo di chi aveva potere su di lui. Si tratta di un inganno tanto sottile quanto potente, in questo modo si soddisfa la necessità di metamorfosi e, al contempo, si garantisce la stabilità del sistema. La rivalità mimetica in Girard, o quella che Canetti chiama la disciplina segreta della spina (Canetti 1981, p. 380), funzionano secondo i medesimi criteri. L’allievo che diventa maestro, o il caporale che viene promosso sergente, non hanno bisogno di imparare nulla, la relazione di sudditanza che hanno interiorizzato ha prodotto in loro tutto ciò che serve per renderli adatti alla loro nuova condizione.
La differenza con il sacrificio descritto da Girard è evidente: nello schema vedico non esistono preoccupazioni di tipo immunitario, il rito non serve a risolvere crisi, né a purificare la collettività da mali interni, il suo scopo è convertire in forza aggregante la portata destrutturante della morte. Non è un caso che il tema della colpa sia totalmente bandito. La vittima non è espiatoria, ma sostitutiva. Non c’è bisogno di attendere l’immolazione perché emerga la sua sacralità, essa lo è anche prima, proprio perché priva di qualsiasi connotato negativo. Non solo è palese la sua innocenza, ma l’atto liturgico è preceduto da una lunga serie di precauzioni che hanno lo scopo di ottenerne il consenso e la collaborazione. Non c’è traccia d’odio, anzi, uno degli ostacoli al corretto svolgimento della liturgia è l’incapacità dell’officiante di mettere da parte la propria gratitudine lasciandosi sopraffare dai sensi di colpa. L’unica forma di vendetta di cui i Veda si preoccupano, è quella che l’animale potrebbe attuare incontrando nell’aldilà il proprio carnefice: «La vendetta non rientra nello schema sacrificale (…) La vendetta è il contrario del sacrificio, poiché colui che si vendica detesta la sua vittima, e vuole farla soffrire, mentre il sacrificante prova riconoscenza per la sua vittima: riconosce nella vittima l’alter ego che gli permetterà di preservare la sua persona» (Malamoud 1994, p. 212).
Le varie fasi del rito sono costruite in modo tale che l’officiante non dimentichi che è lui il vero soggetto dell’immolazione: «Le offerte sono trentatré perché l’uomo, l’animale più nobile, è caratterizzato da questa cifra (…) L’animale ucciso è quindi diviso in modo tale che si manifesti in lui un’omologia con l’uomo vivente. Abbiamo qui a che fare con una forma, fra tante altre, dell’identificazione del sacrificante e della vittima, o, più precisamente, dell’asserzione che la vittima animale è un sostituto del sacrificante» (Malamoud 1994). Per quanto Girard provi ad inserire i Brahmana tra i testi di persecuzione (Girard 2004), il loro scopo non è occultare la strumentalità del sacrificio o mascherare l’espulsione di un capro espiatorio, ma rendere palese il legame tra sopravvivenza ed offerta. Del resto già Burkert, analizzando la religiosità greca, aveva messo in evidenza come essa avesse lo scopo di instaurare un legame di reciprocità economica con la morte. Tutto questo sistema di rimandi e mimetismi incrociati non potrebbe funzionare senza la consapevolezza che la vittima è sempre e comunque innocente, e che l’officiante è sempre e comunque la vera materia dell’oblazione.


4. Il capro espiatorio

Partendo dal presupposto che nessuna eccezione conferma la regola, la teologia brahmanica è la dimostrazione che non è possibile relegare la molteplicità dei contesti sacrificali ad un unico schema. E non per cadere nel gioco accademico di “uccidere” una teoria in nome di un'altra, ma per utilizzare lo straordinario lavoro di Girard all’interno di una prospettiva allargata che ci permetta di avere una visione d’insieme maggiormente esaustiva.
Il fatto che il sacrificio non sia sempre riconducibile ad una dimensione immunitaria, non significa che il problema di una risoluzione collettiva del male non si ponga. Una volta liberato dal fardello di essere la prima matrice, e dalla necessità di diventare la chiave esplicativa di tutto il religioso, il modello girardiano emerge in tutta la sua solidità pratica e teorica. Togliere di mezzo l’omicidio primordiale significa riconoscere che la crisi non è il fondamento dell’ordine, ma la risultante della fragilità di quest’ultimo, dell’uscita dai ruoli specifici di un animale che si è fatto uomo diventando altro da sé. Non bisogna lasciarsi fuorviare dal fatto che i fenomeni di disgregazione sociale si manifestino in modo cruento: la violenza mimetica non è la causa, bensì il risultato della destrutturazione della reciprocità debitoria. Quello che si vuole nascondere con l’immolazione unanime della vittima, non è la sua innocenza, ma l’unanime debolezza del sistema delle differenze. Il capro polarizza l’incapacità umana di percepirsi debole e finita, di comprendere che il consumo di ruoli e modelli non è altro che un pozzo senza fondo, una catena di ansie e paure di cui non è possibile vedere la fine. L’ossessione per la colpa, l’attenzione maniacale per una selezione vittimaria che escluda il dilagare della vendetta, sono strumenti finalizzati alla risoluzione di un problema intrinseco alle gerarchie sociali. Se il sacrificio espiatorio fosse esclusivamente preventivo, la rabbia e la paura non potrebbero scatenarsi trascinando tutto e tutti. Non c’è alcuna responsabilità divina a questo livello, anzi, sono proprio il silenzio degli dei e il loro non corrispondere più al dono rituale a scatenare la domanda: “Per colpa di chi?”
Girard ha ragione quando scrive che la crisi sacrificale corrisponde alla perdita del sacrificio (Girard 1980, p.72), quello che non capisce è che ad essere smarrito non è il rito da lui delineato. L’immolazione del capro espiatorio ha una funzione riparativa, è uno strumento emergenziale da utilizzarsi quando il sistema delle differenze debitorie non è più in grado di perpetuarsi pacificamente. E non potrebbe essere altrimenti, basta rifletterci un attimo per capire che l’emozione collettiva del linciaggio unanime, se da un lato è in grado di ricompattare ciò che si sta sfaldando, dall’altro non è così duratura nei suoi effetti da garantire la tenuta della complessità delle relazioni sociali. Lungi dall’escludersi a vicenda quindi, la funzione retributiva e quella immunitaria del sacrificio possono convivere, a patto di riconoscere che rispondono a problematiche differenti: la prima ha a che fare con la pensabilità e la costruzione di un ordine umano, la seconda con la necessità di stabilità di un sistema che si regge su equilibri precari.
Per quanto questa bipartizione rituale possa apparire convincente, c’è una variabile con cui bisogna fare i conti: essa non funziona all’interno di un contesto secolarizzato. Con la morte di dio il dovere dell’offerta trasla dalla dimensione religiosa a quella civile. Le conseguenze di questo passaggio sono essenzialmente due: la reciprocità debitoria, liberata dal vincolo con l’animale totemico, si trasforma in un reticolo di relazioni competitive in cui non esiste più alcun limite al desiderio individuale, mentre la colpa cessa di essere una condizione esistenziale per trasformarsi nel segno della sconfitta. Chiariamoci, a livello pratico ed emotivo le strutture di potere che muovono questo gioco sono sempre le medesime: afferrare e non lasciarsi afferrare, ciò che cambia è che i ruoli non sono più determinati da appartenenze specifiche, ma dalla possibilità di accedere a livelli sempre più alti di consumo.
L’unico confine oltre il quale la rivalità mimetica non può spingersi e quello del sistema giudiziario. La progressiva laicizzazione del sociale porta in dote la terzietà del giudice. Se essere al di sopra delle parti, ed avere nelle proprie mani la forza dello Stato, garantisce la sterilizzazione sul nascere di qualsiasi sentimento di vendetta, non possiamo non vedere come nella trascendenza di cui parla Girard ci sia un elemento di deificazione della comunità. Dove prima era un dio ad imporre la rinuncia in nome di una condizione antropologica di sudditanza, adesso è l’unanimità collettiva a pretendere che si paghi il debito contratto con l’azione criminale. Inutile nascondersi dietro un dito, la poca simpatia che le politiche in favore dei detenuti ricevono persino nelle società democraticamente avanzate, sono il risultato di una volontà di rivalsa che Nietzsche delinea chiaramente: «Mediante la «pena» del debitore, il creditore partecipa di un diritto signorile: raggiunge altresì finalmente il sentimento esaltante di poter disprezzare e maltrattare un individuo come un «suo inferiore» - o quanto meno, nel caso che la vera e propria potestà punitiva sia già trapassata all’«autorità», di vederlo disprezzato e maltrattato» (Nietzsche 1988, p. 53). La morte di dio porta con sé l’impossibilità di creare spazi di pacificazione, venendo meno il principio di sazietà legato alla sua perfezione, la religione civile degli uomini si organizza in un insieme di conflitti predatori in cui il rischio di essere trasformati in scarti oggettuali è una costante. L’odio crescente verso gli ultimi, i diversi ed i fuori casta è la fotografia impietosa della necessità di ridirigere unanimemente il risentimento, la certificazione della volontà di distogliere lo sguardo dalla propria condizione di rischio e pericolo. L’individuo caricato della responsabilità della vita e della morte non può reggere da solo il peso della paura.
Un tale livello di reciprocità negativa ricorda in tutto e per tutto le condizioni che scatenano l’omicidio primordiale in Girard. E se la difficoltà del pensatore francese di leggere il religioso arcaico al di fuori del contesto espiatorio fosse il risultato del suo essere un teorico radicalmente moderno? Girard è un filosofo della crisi e come tutti coloro che lo hanno preceduto vive e respira l’aria del proprio tempo. Per quanto forzata, l’idea che solo nella modernità secolarizzata ci siano le condizioni affinché il sacrificio espiatorio diventi l’unico strumento attraverso cui drenare l’angoscia, è una possibilità da tenere in considerazione. Non so se l’innocenza vittimaria e l’evanescenza di dio siano nascoste sin dalla fondazione del mondo, di certo lo sono sin dal principio del nostro mondo ed è per questo che non possiamo permetterci di fare a meno di Girard.


Bibliografia

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- (1986), La violenza e il sacro, trad. O. Fatica e E. Czerkl, Adelphi, Milano.
- (1983), Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, trad. R. Damiani, Adelphi, Milano.
L. Konrad (1986), L’aggressività, trad. E. Bolla, Arnoldo Mondadori Editore, Milano.
C. Malamoud (1994), Cuocere il mondo. Rito e pensiero nell’India antica, trad. A. Comba, Adelphi, Milano.
F. Nietzsche (1988), Genealogia della morale, Adelphi, Milano.
N. Tinbergen (1994), Lo studio dell’istinto, trad. I. Blum, Adelphi, Milano.



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