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L’“intollerabile”.
Lavoro minorile e forme di schiavitù [*]

FRANCESCA BARAGHINI
Articolo pubblicato nella sezione “Schiavitù contemporanee”

1. Un approccio multidisciplinare

Una tra le definizioni di ‘lavoro minorile’ più rilevante, soprattutto se si vuole considerare il fenomeno alla luce della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo (1989), è quella di B.H. Weston (2005) che lo descrive come un fenomeno multidimensionale; in particolare, la caratteristica multidimensionale viene declinata, secondo questo autore, nei soggetti e nelle cause. Quanto ai soggetti, sono numerosi gli attori, differenti nella natura e con funzioni spesso differenti, che possono causare il problema o contribuire alla ricerca di una soluzione; basti pensare alla difficile rete delle istituzioni a protezione dell’infanzia. Per quanto attiene alle cause, la povertà è universalmente riconosciuta come la principale causa di lavoro minorile. Studi empirici hanno tuttavia dimostrato che il lavoro minorile non è unicamente determinato da forze di mercato e da fattori economici, ma rivela la sua complessità anche in termini culturali: in alcune società, ad esempio, esso gioca un ruolo fondamentale nell’educazione, nella socializzazione ed è quasi un rito di passaggio nell’età adulta. Tra le cause del lavoro minorile non si possono poi non citare gli effetti della globalizzazione, in termini di riduzione dei diritti dei lavoratori e, più in generale, di mancata tutela e garanzia dei diritti sociali (a cominciare, nel caso dei bambini e delle bambine, dal diritto all’istruzione e dal diritto alla salute).
A questi due piani, se ne può aggiungere un terzo, in quanto il lavoro minorile rivela la sua complessità in termini di multidisciplinarietà: sono numerose le discipline che interagiscono, o meglio dovrebbero interagire l’una con l’altra per contrastare questo fenomeno. Il tema, infatti, è stato trattato anche da esperti e studiosi delle scienze sociali, considerati i suoi numerosi risvolti di tipo sociologico e culturale; di questi ci si è poi serviti per meglio conoscere il fenomeno e provare a regolamentarlo.
Ancora, va sottolineato che la stessa comunità internazionale non ha una visione unica e condivisa in ordine alla natura del lavoro minorile: questo viene considerato talvolta una questione di diritto o di protezione dell’infanzia, in alcuni casi una forma di espressione sociale ed economica degli stessi minori ma anche – aspetto particolarmente rilevante in questa sede – come forma di sfruttamento che talora confina con la riduzione in schiavitù. La condizione di asservimento, legata anche allo stato di vulnerabilità delle persone di minore età, coinvolge un bacino sempre più ampio di minori sfruttati o potenziali vittime di sfruttamento, soprattutto in relazione ai minori stranieri non accompagnati, che vengono spesso definiti come “i nuovi schiavi”. Si tratta, del resto, di un aspetto recepito anche a livello internazionale dal momento che la stessa ILO, nella Convenzione nr. 182, ha espressamente enucleato quelle che devono essere considerate forme “intollerabili” di lavoro minorile; esse sono le cosiddette “forme peggiori di lavoro minorile”, nelle quali la condizione di sfruttamento del lavoro minorile è assorbita da una più ampia condizione di schiavitù, in cui versa il minore vittima.
Tali forme sono delineate dall’articolo 3 della stessa Convenzione e sono rappresentate da tutte le forme di schiavitù o dalle situazioni ad essa assimilabili, come la vendita e il traffico di bambini, la servitù per debiti, il lavoro forzato, incluso l’arruolamento in conflitti armati (lett. a); l’utilizzo ma anche l’offerta di bambini per la produzione di materiale pornografico, o comunque, per attività legate alla pornografia e alla prostituzione (lett. b), così come per attività illecite, in particolare per la produzione e il traffico di droga (lett. c); infine il lavoro che, per le particolari circostanze in cui si svolge, è suscettibile di risultare pregiudizievole per la sicurezza, la salute e la moralità dei bambini (lett. d).
Quanto alle varie discipline che concorrono alla definizione dello sfruttamento del lavoro minorile, una di queste è senza dubbio rappresentata dalla teoria dei diritti umani; se dapprima era solo opportuno che la teoria dei diritti si occupasse del lavoro minorile, quantomeno per problematizzare la posizione giuridica della persona di minore età, dal 1989 è diventato un dovere. Nel 1989 è stata infatti approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite la Convenzione Onu sui diritti del fanciullo. Si tratta dello strumento normativo internazionale più importante e completo in materia di protezione e tutela dei diritti dell’infanzia: proclama e sancisce il principio secondo cui le persone di minore età sono titolari di diritti civili, sociali e politici e viene affermato che il minorenne non è soltanto figlio ma è persona (cfr. Fadiga 2016) e che è capace di titolarità non esclusivamente sui diritti materiali ma anche immateriali.


2. La convenzione Onu e il criterio del superiore interesse del minore

La Convenzione Onu interviene in modo specifico sul fenomeno del lavoro minorile e lo fa attraverso l’articolo 32, che attribuisce al minore il “diritto ad essere protetto contro lo sfruttamento economico e di non essere costretto ad alcun lavoro che comporti rischi o sia suscettibile di porre a repentaglio la sua educazione o di nuocere alla sua salute o al suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale”. Per raggiungere tali obiettivi gli Stati devono stabilire un’età minima di ammissione all’impiego, una regolamentazione degli orari di lavoro e delle condizioni di impiego.
A ben vedere, però, tutto l’impianto della Convenzione può essere utilizzato come strumento con cui affrontare ed esaminare, quantomeno a livello di principi generali, il fenomeno del lavoro minorile. La Convenzione sui diritti del fanciullo impone in prima battuta che il fenomeno del lavoro minorile sia dapprima concepito e poi anche disciplinato, considerando il minore come soggetto di diritto; le principali parti interessate, i minori, sono infatti solitamente trattati come oggetto del problema piuttosto che un soggetto in grado di avere la propria opinione e di collaborare alla ricerca di una soluzione; questo modus operandi incide direttamente nella disciplina generale del lavoro minorile, sia repressiva che preventiva, che fatica a tenere in considerazione la soggettività di diritto della persona di minore età e il suo diritto ad una partecipazione attiva alla questione.
La Convenzione poi ha qualcosa da dire, indirettamente, anche sulla disciplina e sulla nozione di lavoro minorile. L’elemento essenziale con il quale occorre misurarsi nello studio del fenomeno del lavoro minorile è l’assenza di una definizione organica e condivisa di tale fenomeno, nonché la mancanza di una norma giuridica che ne dia una definizione utile. Fornire una definizione di “lavoro minorile” che sia universalmente valida e applicabile indistintamente in tutti i Paesi risulta infatti estremamente difficile, dal momento che vengono fatti rientrare nell’alveo di questa categoria fenomeni molto diversi tra loro. Il lavoro minorile, nei fatti, è un insieme di esperienze eterogenee, delle quali occorre di volta in volta ricostruire le componenti soggettive, vale a dire la specifica esperienza e il significato che ciascun minore è in grado di assegnargli, nonché le concrete condizioni familiari e di eredità sociale in cui maturano, le quali concorrono alla sua attribuzione di senso...
La criticità e le riflessioni sorte in seno alla difficoltà definitoria del fenomeno dello sfruttamento del lavoro minorile paiono rievocare il dibattito sviluppatosi in riferimento alla nozione di “superiore interesse del minore”, così come declinato dall’articolo 3 della Convenzione Internazionale sui diritti del fanciullo; esso introduce un criterio guida ed un principio cardine che deve guidare e ispirare ogni scelta, sia essa giurisdizionale, amministrativa, legislativa o di competenza di istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, che vede coinvolta una persona di minore età. Nei confronti della nozione di “interesse del minore” come categoria propria e specifica del diritto minorile sono state avanzate dure critiche da parte della dottrina. Vi è chi ha sostenuto che la nozione di interesse del minore costituisce una “nozione magica” o ancora una “pozione magica” (cfr. Ronfani, 1997), in quanto rappresenta un concetto vago e indeterminato che, al momento della sua interpretazione, può aprire la via a posizioni e a teorie ideologicamente segnate; ancora, parte della dottrina sostiene che la nozione in esame rischia di “diventare vuota tautologia, mero abbellimento esteriore dell’argomento” (cfr. Dogliotti, 1992); come tale, si tratta di una nozione che avrebbe contribuito ad aumentare lo spazio di discrezionalità che l’ordinamento giuridico attribuisce all’Autorità giudiziaria minorile e a coloro che ricorrono a quella nozione. Infine, si è altresì detto che il criterio di superiore interesse del minore ha svolto una “funzione cuscinetto” (cfr. Dosi, 1995) in forza della quale vengono assunte e motivate decisioni l’una diversa dall’altra, ancorandole al soggettivismo e alla discrezionalità.
Pur condividendo i rischi di una formulazione necessariamente vaga, non si possono ignorare i pericoli del ricorso indiscriminato a formule chiuse che non riuscirebbero mai a comprendere tutti gli imprevedibili casi della vita e le peculiarità delle diverse situazioni esistenziali nelle quali è coinvolto un fanciullo. Tale dibattito pare riflettersi nella nozione di lavoro minorile, nella misura in cui, pur sottolineando i rischi di una formulazione necessariamente generica, emerge con forza la necessità di assicurare, sul piano giuridico, che i bisogni e i diritti del soggetto in formazione non siano sacrificati da una definizione che non si rivela in grado di ricomprendere le innumerevoli sfaccettature con cui il lavoro minorile può declinarsi, sia in riferimento al contesto culturale sia alla specifica condizione, familiare e personale, in cui il minorenne è inserito.
Allora, il dibattito sorto in seno alla nozione di interesse del minore potrebbe guidare quello, tutt’ora in corso, nella definizione di lavoro minorile; infatti, il criterio del superiore interesse del minore può richiamare in un certo qual modo la definizione di lavoro minorile, nella misura in cui entrambe le categorie giuridiche richiedono un ampio margine di discrezionalità e adattabilità alla specifica situazione del fanciullo che deve essere tutelato.


3. Il catalogo delle 3p e il lavoro minorile

A ben vedere, l’ottica della Convenzione ONU incide nella disciplina del lavoro minorile anche dal punto di vista dell’intero impianto di diritti soggettivi che vengono attribuiti al minore; questi diritti, infatti, vengono riconosciuti come un unicum indivisibile riguardante tutti gli aspetti che compongono il mondo dell’infanzia e vengono considerati tra di loro estremamente interconnessi per un equilibrato sviluppo della persona. Attilio Pisanò (2011) evidenzia come l’impianto di diritti che la Convenzione attribuisce al fanciullo sia idoneo ad armonizzare e completare la tutela del minore rispetto al cosiddetto catalogo delle tre “P”: protection, provision, participation. All’interno del nucleo della protection rientrano i diritti ad essere protetti da forme di sfruttamento (artt.32-36) o maltrattamento. Invece la provision è realizzata garantendo l’accesso ai beni e ai servizi: il diritto al cibo e alla salute (artt. 6, 24), il diritto all’educazione (artt. 28, 29), il diritto a godere della sicurezza sociale (art. 26). Infine, la partecipation è finalizzata a garantire la partecipazione attiva del minore nella realtà in cui egli opera e viene realizzata sancendo il diritto del fanciullo ad essere ascoltato (artt. 12-17).
Il catalogo delle 3P, come sopra illustrato, può essere opportunamente adattato e rivisitato anche in relazione al fenomeno del lavoro minorile.
La categoria della protezione è intuitivamente applicabile e l’articolo 32 che se ne occupa specificamente è fatto rientrare in questa categoria. La protezione del minore vittima, come concepita dalla Convenzione, è più ampia, e tutela più sfere di protezione del fanciullo: protezione del minore dall’uso illecito di stupefacenti e di sostanze psicotrope, protezione del minore dalla tratta e ancora protezione del fanciullo da ogni forma di sfruttamento sessuale o di violenza sessuale; tra la categoria delle persone di minore età, quelli coinvolti nel lavoro minorile rappresentano una fascia particolarmente vulnerabile, maggiormente esposta ad una doppia vittimizzazione.
Quanto alla categoria della provision, il lavoro minorile incide indirettamente e determina una violazione di quei diritti in via indiretta e cosiddetta “di rimbalzo”. Tutte le disposizioni che riconoscono diritti quali quello alla salute, allo studio, ad un ambiente sano, al riposo e allo svago esplicano la loro efficacia nel settore minorile nella misura in cui lo sfruttamento del lavoro minorile li comprime. Un fanciullo vittima di sfruttamento verosimilmente non andrà a scuola, non vivrà in un ambiente sano, con inevitabili danni sulla salute, e non avrà tempo libero per giocare. La categoria della provision, allora, impone di studiare e tutelare il diritto a non essere costretto ad alcun lavoro contestualizzandolo con altri diritti sociali del minore. Una normativa giuslavoristica che si occupa settorialmente solo del contesto lavorativo non è conforme alla Convenzione ONU.
Centrale, infine, è l’area della partecipazione, considerata da molti come la sfida più grande introdotta dalla Convenzione; è sancita espressamente dall’articolo 12 che attribuisce al fanciullo il diritto ad essere ascoltato in tutte le questioni che lo riguardano. Uno strumento particolarmente interessante per garantire la partecipazione è la metodologia della ricerca tra pari; questa prevede il coinvolgimento, in veste di ricercatori, dei soggetti le cui condizioni di vita, opinioni e punti di vista la ricerca intende rilevare e approfondire. I ragazzi vengono riconosciuti come portatori attivi di un sapere che viene valorizzato e attivato tramite il rafforzamento di capacità e competenze nel gruppo, come strumento di lavoro, analisi e restituzione ragionata delle realtà che vivono.


4. Dalla convenzione Onu, l’approccio al lavoro minorile

Carlo Alfredo Moro (2014), considerato uno dei padri del diritto minorile in Italia, ha definito la Convenzione Onu come un programma di sviluppo psico-pedagogico del minore; obiettivo della Convenzione è quindi quello di assicurare uno sviluppo, che sia il più possibile armonico, della personalità del minore. L’ottica della Convenzione ONU è dunque più ampia, quasi onnicomprensiva nei confronti della persona di minore età. E allora studiare e reprimere il fenomeno del lavoro minorile e i suoi possibili esiti di schiavitù seguendo l’ottica della Convenzione richiede di contestualizzare il fenomeno nella più ampia esigenza di assicurare uno sviluppo armonico della personalità del minore.
In questa ottica, c’è un ultimo aspetto che la Convenzione impone a coloro che operano in questo ambito: le scienze giuridiche non bastano; è necessario rinunciare all’idea che il lavoro minorile possa essere affrontato, e finanche risolto, con le categorie proprie del diritto. Il linguaggio giuridico deve necessariamente integrarsi con il linguaggio psicologico ed anche con quello pedagogico, posto che ogni impatto del minore con il mondo degli adulti, ancor più se distorto e dannoso come lo sfruttamento del lavoro minorile, incide direttamente sul piano educativo e sulla sfera psicologica del minore.
La Convenzione di New York, nella sua struttura logica e nell’articolazione di ogni singolo diritto attribuito al minore, è emblematica di come l’approccio al minore richiede approcci molteplici: solo così il superiore interesse del fanciullo verrà efficacemente considerato e tutelato come considerazione preminente anche con riferimento alle questioni connesse al lavoro.


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[*] Il testo è frutto della rielaborazione della relazione "Child labour: the outlook of the United Nations Convention on the Rights of the Child 1989", presentata nell'ambito del Seminario internazionale "Child, labour, dignity: an international overview", organizzato il 3 marzo 2017 dal Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Modena e Reggio Emilia, in collaborazione con il CRID - Centro di Ricerca Interdipartimentale su Discriminazione e vulnerabilità e nell'ambito del Progetto FAR Dipartimentale 2015 dedicato a "Lo sfruttamento del lavoro minorile, con particolare riferimento all'Emilia- Romagna”.

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