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Democrazia, socialità, felicità: lo sguardo cosmopolita di Thomas Paine

THOMAS CASADEI
Articolo pubblicato nella sezione “Ragioni per la democrazia: uguaglianza, rispetto, differenza”


«Il linguaggio abituale ha classificato la condizione umana sotto le due categorie di vita civile e vita non civile. Alla prima ha associato la felicità e l’opulenza; alla seconda, la miseria e gli stenti. Ma per quanto le immagini e i paragoni possano colpire la nostra immaginazione è pur vero che una grande parte dell’umanità, nei paesi cosiddetti civili, versa in condizioni di povertà e miseria assai peggiori di quelle di un indiano. Non parlo di un solo paese, ma di tutti: è così in Inghilterra, è così in tutta Europa».
(T. Paine, I diritti dell’uomo, II, pp. 279-280).

«Siamo ora verso la metà di febbraio. Se andassi a fare un giro per la campagna, gli alberi mi apparirebbero nel loro aspetto invernale e privi di foglie. Si usa strappare dei rametti mentre si cammina, e forse io farei lo stesso; potrei così osservare che sul ramo un’unica gemma sta cominciando a spuntare. Sarebbe innaturale o addirittura irragionevole supporre che quella sarebbe l’unica gemma in Inghilterra. Anziché trarre questa conclusione penserei subito che altrettanto sta per avvenire dappertutto, sebbene il sonno vegetale di certi alberi o di certe piante continuerà più a lungo che quello degli altri, e alcuni di essi non fioriranno che tra due o tre anni, tuttavia in estate tutti avranno le foglie, tranne quelli che sono morti. Nessuna previsione può stabilire se l’estate politica possa tenere il passo con quella naturale. Ciononostante, non è difficile accorgersi che la primavera è cominciata. Augurando sinceramente libertà e felicità a tutte le nazioni, termino qui la seconda parte».
(T. Paine, I diritti dell’uomo, II, pp. 335-336).

1. Le interpretazioni in senso “liberale-borghese” e l’idea di socialità

Cercherò in questa sede di individuare nell’opera di Tom Paine – e nella sua azione politica e istituzionale – alcuni paradigmi rilevanti sul piano della filosofia politica, della storia del costituzionalismo, della teoria del diritto: una filosofia politica repubblicana e radicale, che delinea una specifica idea di libertà; un costituzionalismo democratico e sociale, che assegna ad ogni generazione la facoltà/possibilità di cambiare la costituzione sulla base di nuovi bisogni e di nuovi diritti; una concezione della cittadinanza sociale che prefigura la genesi dei diritti sociali.
A connettere questi aspetti, acquisendo un peculiare rilievo teorico-giuridico, è la dimensione della socialità.
Il periodo in cui Paine visse fu straordinariamente intenso, ricco di cambiamenti e trasformazioni epocali: uno scenario in cui gli “atti”, per restare entro una metafora teatrale che ci pare assai bene attagliarsi a questo uomo “comune” eppure dalla vicenda umana così “fuori dall’ordinario”, si susseguono con celerità e colpi di scena facendo di lui l’étérnel errant, un prophète incompris (così Vovelle 1993, p. 188; cfr. Griffo, 2011; Battistini 2012; Speck 2013).
Difficile per lui, immerso in due rivoluzioni (quella americana e quella francese) e intento a suscitarne una terza (in Inghilterra, suo paese d’origine), svolgere un ragionamento sistematico, quello che in genere caratterizza l’opera di un “classico” del pensiero politico e giuridico.
Seppure con sfumature diverse, eminenti filosofi della politica e del diritto del Novecento come Carl Schmitt e Jürgen Habermas, Norberto Bobbio e Isaiah Berlin, Michel Foucault e Luigi Ferrajoli, ma anche studiosi analitici dell’opera painiana come Tito Magri – che ne ha curato quella che resta la più ampia raccolta di scritti in italiano (Magri 1978) – e Isaac Kramnick (Kramnick 1990), incentrando le loro interpretazioni a partire da un passo emblematico, hanno fatto di Paine una delle icone – un ‘formulatore-tipo’ – di un certo modo di intendere il liberalismo, un liberalismo ‘puro’, in cui paradigmaticamente il governo è considerato come un «male necessario»:


La società è prodotta dai nostri bisogni e il governo dalla nostra malvagità; la prima promuove la nostra felicità positivamente unendo insieme i nostri affetti, il secondo negativamente tenendo a freno i nostri vizi. L’una incoraggia le relazioni, l’altro crea le distinzioni. La prima protegge, il secondo punisce. La società è sotto qualunque condizione una benedizione; il governo, anche nella sua forma migliore, non è che un male necessario (Paine 1978, p. 69).


Entro quest’ottica, alla negazione del valore autonomo, come principio positivo, delle istituzioni politiche si lega, in definitiva, anche la riduzione della società ad uno ‘strumento’ per gli interessi individuali e una visione ‘negativa’ della libertà stessa, intesa come libertà dall’interferenza del potere e come possibilità di espressione delle private capacità degli individui in ambito economico (ciò che ne ha fatto anche una figura-chiave del pensiero anarco-libertario americano: Rocker 1982, pp. 27-35).
Al di là di una molteplicità di possibili letture, questa che vede nell’opera di Paine un paradigma del «liberalismo borghese» e dello «Stato minimo» è sicuramente dominante: essa prelude a una configurazione e articolazione dei diritti che si pone, sostanzialmente e costitutivamente, contro lo Stato (rinviando ad una dottrina della libertà come libertà «dallo Stato» e ad un’idea di felicità privata, prettamente individuale).
Più in dettaglio, su questo versante, esemplari sono le parole di uno statualista come Schmitt: «Per i liberali la bontà dell’uomo non significa nient’altro che un argomento con l’aiuto del quale lo Stato viene posto a servizio della società: esso afferma soltanto che la società ha in se stessa il proprio ordine e che lo Stato è soltanto un sottoposto, da essa controllato con diffidenza e limitato da confini esatti. La formulazione classica si trova in Thomas Paine: la società (society) è il risultato dei nostri bisogni regolati secondo ragione, lo Stato (government) è il risultato dei nostri vizi» (Schmitt 1972, p. 145; Id. 1975, pp. 120-121). Un’angolazione, questa, che assume anche Habermas nella sua fase di adesione ad un orientamento di marxismo critico, come mostra il saggio Diritto naturale e rivoluzione del 1963, raccolto in Prassi politica e teorica critica della società (1973).
Norberto Bobbio, in un capitolo significativamente intitolato Libertà contro potere del suo Liberalismo e Democrazia (1991) rinviene nel passaggio sopra menzionato la più chiara espressione della concezione liberale dello Stato: «Dal punto di vista dell’individuo da cui si pone il liberalismo lo Stato è concepito come un male necessario: appunto, in quanto male se pure necessario (e in ciò il liberalismo si distingue dall’anarchismo), lo Stato deve intromettersi il meno possibile nella sfera d’azione degli individui».
«Una volta definita – prosegue Bobbio – la libertà nel senso prevalente della dottrina liberale come libertà dallo Stato, il processo di formazione dello Stato liberale può essere fatto coincidere con il progressivo allargamento della sfera della libertà dell’individuo, nei riguardi dei pubblici poteri (per usare i termini di Paine), con la progressiva emancipazione della società o della società civile, nel senso hegeliano e marxiano, dallo Stato» (Bobbio 1991, pp. 15-16). È su questa linea, emblematicamente rappresentata da Paine, che si ritrovano, nell’interpretazione bobbiana, Locke, Kant, Smith e Humboldt, grandi interpreti della concezione liberale dello Stato contrapposta alle varie forme di paternalismo, secondo cui lo stato dovrebbe “prendersi cura” dei suoi sudditi.
Adottando il medesimo modulo interpretativo di Bobbio, Berlin inserisce Paine nel filone dei teorici della «libertà negativa» (Berlin 2000, p. 18), nonché tra i principali scrittori politici occidentali dell’epoca a cavaliere tra XVIII e XIX secolo, segnalando che, così come Constant e Condorcet, egli esercitò una «considerevolissima influenza tanto sui contemporanei quanto sulla posterità» (Berlin 2005, pp. 28-29, p. 90; 2005b, p. 290; 2003, p. 176).
Foucault, dal canto suo, nella Lezione del 4 aprile 1979 al Collège de France, raccolta nell’opera Nascita della biopolitica, ripercorrendo l’«evoluzione» del concetto di «società civile» da Locke a Ferguson, richiama lo stesso passo di Paine in cui il governo è considerato un «male necessario» (Foucault 2005, p. 255).
Ancora, Ferrajoli, nel suo fondamentale studio sul garantismo, individua due forme del potere, quella «ottimistica ed etica» del «potere buono» e quella «pessimistica» del «potere cattivo», a cui associa «due raffigurazioni opposte e simmetriche della società»: l’idea del «potere buono» tende ad associarsi a quella della «società cattiva», mentre l’idea del «potere cattivo» tende ad associarsi a quella della «società buona». Tali opposte – e paradigmatiche – raffigurazioni del potere e della società «danno luogo a due opposte configurazioni del rapporto tra potestà pubbliche e diritti civili». In questa ricostruzione, un’espressione del secondo atteggiamento è individuata proprio in Paine e il riferimento testuale è sempre il passo più volte menzionato (Ferrajoli 1989, p. 927, pp. 943-944).
Tuttavia la raffigurazione di Paine può mutare notevolmente, fino ad assumere sembianze e contorni profondamente diversi, se si presta una maggiore attenzione alla concezione di società che è presente nei suoi scritti; aspetto, questo, che può essere indagato mettendo a fuoco più nello specifico l’idea di socialità che emerge nella sua opera.
Paine risentì profondamente di uno dei topoi della teoria giusnaturalistica, ovvero la nascita della società dallo stato di natura. Nel Settecento era questo un passaggio quasi obbligato per ogni pensatore che si fosse occupato non solo della natura umana, ma soprattutto di questioni politiche e istituzionali.
Come i contrattualisti egli ipotizzò uno stato naturale e il successivo passaggio ad uno sociale; ma egli impostò il suo ragionamento in una maniera originale. Non descrisse, infatti, lo stato di natura, vi accennò solamente, a differenza di autori come Hobbes, Locke e Rousseau che avevano invece dedicato largo spazio alla descrizione e alle congetture sul periodo naturale, per giustificare la nascita della società e soprattutto la sua origine volontaria (cfr. Rodeschini 2012). I passi in cui Paine si riferisce in modo più diretto allo stato di natura sono rinvenibili in Common Sense (1776) e in Agrarian Justice (1797).
Nel primo scritto egli chiarisce come il «pensiero» più impellente per i gruppi umani originari fosse stato la riunione in società:


In questo stato di libertà naturale, la società sarà il loro primo pensiero. Mille motivi ve lo spingeranno; la forza di un singolo uomo è così sproporzionata ai suoi mille bisogni e la sua mente tanto inadeguata alla solitudine perpetua, che è presto costretto a cercare l’assistenza e l’aiuto di un altro, che a sua volta ha le stesse necessità. [...] Così la necessità, come una forza di gravità, indurrebbe in breve i nostri emigrati appena sbarcati a costituire una società, nella quale i reciproci benefici supererebbero e renderebbero inutili gli obblighi della legge e del governo finché gli uomini fossero sempre giusti gli uni verso gli altri (Paine 1978, p. 70).


In Agrarian Justice, Paine svolge la sua argomentazione considerando una realtà come quella dei nativi americani: essi si trovavano in una condizione naturale primitiva e conducevano una vita assolutamente parca, basata essenzialmente sulla caccia effettuata in grandi estensioni territoriali, ma in cui non esistevano povertà e miseria; una sorta di giustizia originaria orientava le loro vite.
In entrambe le opere, scritte a distanza di quasi due decenni, emerge la bontà originaria dell’uomo (entro un quadro di valutazione positiva del primitivismo: cfr. Nursery-Bray 1968, pp. 223-242) ma, come si vedrà ora più analiticamente, diversa è la relazione istituita tra società e governo.
Nel passo citato di Common Sense sono contenuti alcuni concetti-chiave della riflessione painiana quali quello di bisogni, la contrapposizione solitudine/mutua assistenza, i reciproci benefìci per ogni individuo derivanti dal suo essere in società. A questi si accompagna una specifica visione del governo (e potremmo aggiungere dello Stato). Se la società è qualcosa di necessario in senso positivo, il governo è una necessità connotata – è qui che, secondo la nostra tesi interpretativa, l’evoluzione del pensiero di Paine segnerà una cesura rilevante (cfr. Kates 1989; Cazzaniga 1999) – in maniera diversa.
Poco più avanti rispetto al passo sopra menzionato, con accenti che richiamano in qualche modo la costruzione concettuale hobbesiana, Paine spiega come l’uomo


si trovi costretto a cedere parte della sua proprietà onde fornire i mezzi necessari alla protezione del resto; e a questo è indotto da quella stessa prudenza che in tutti gli altri casi lo consiglia di scegliere, tra due mali, il minore. Pertanto, poiché il vero scopo e fine del governo è la sicurezza, ne segue incontestabilmente che è preferibile a tutte le altre qualunque forma di governo ci appaia come la più adeguata a garantirci tale sicurezza, con la minima spesa ed il massimo vantaggio (Paine 1978).


Gli uomini, senza la necessità del governo, trascurerebbero i loro doveri e legami reciproci: è questa negligenza che rende manifesta la necessità di stabilire un qualche assetto istituzionale che sopperisca all’insufficienza della virtù morale (Paine 1978, p. 70).
Le medesime mosse concettuali sono riprodotte agli inizi della seconda parte di Rights of Man (che nella sua parte finale segnerà, per un altro verso, il “cambio di paradigma” nella concezione painiana del governo e dello Stato):


Gran parte dell’ordine che regna tra gli uomini non è effetto del governo ma ha origine nei princìpi della società stessa, e nella costituzione naturale dell’uomo. Esso esisteva prima del governo, e esisterebbe anche se la formalità del governo fosse abolita. La mutua dipendenza e l’interesse reciproco degli uomini, e di tutte le parti di una comunità civile tra di loro, costituiscono la grande catena di connessione che la tiene unita. Il proprietario terriero, l’agricoltore, l’imprenditore, il commerciante, il negoziante, e tutti gli uomini di qualsiasi professione, prosperano grazie all’aiuto che ognuno riceve dall’altro e dal tutto. L’interesse comune regola i loro affari e costituisce la loro legge; e le leggi consacrate dall’uso comune hanno un’influenza più forte che non le leggi del governo. In conclusione, la società compie da sola quasi tutto ciò che si attribuisce al governo (Paine 1978, p. 235).


A ben vedere, dunque, nella grammatica painiana della società un posto cruciale riveste una doppia semantica: quella dell’interesse e quella, appunto, della socialità.
La natura non solo ha spinto l’uomo a entrare in società per mezzo di una varietà di bisogni che possono essere soddisfatti dall’aiuto reciproco, ma ha inculcato nell’uomo «un sistema di sentimenti sociali [a system of social affections], i quali, se non indispensabili per la sua esistenza, sono però essenziali per la sua felicità» (Paine 1978, p. 235). È sulla base di questo assunto che si osserva come il «principio della socialità» impronti l’intera concezione di Paine, in questo «antesignano» di Godwin e Fichte (così De Pascale 2010, pp. 131-142).
Per Paine la dimensione sociale è la più adeguata alla natura umana e questa convinzione si risolve ora – e in via definitiva – in una mossa radicalmente anti-hobbesiana: «l’uomo se non fosse corrotto dai governi, sarebbe per sua natura amico dell’uomo, e che la natura umana non è viziata in se stessa». Va però precisato che qui il termine ‘governo’ rimanda ai governi monarchici (e dispotici) che non perseguono l’«interesse comune» della società, dal quale sono invece orientati i governi repubblicani (Paine 1978, p. 595).
È nel repubblicanesimo, in definitiva, che Paine individua la via per uscire da una concezione del governo come mero “male necessario”.


2. La povertà come «fatto collettivo» e la tassazione progressiva: l’emergere di “nuovi” diritti

A base della convivenza, oltre all’interesse, stanno le idee di socievolezza (sociability), di dovere e di mutua dipendenza, una prospettiva condivisa, per inciso, da tutti coloro che animarono il progetto rivoluzionario de Le Cercle Social, cui anche Paine prese parte (Kates 1985).
A ben vedere, non ci sono fratture nella sua dottrina tra individui e sfera della cittadinanza (Claeys 1989, pp. 91-92): in ogni diritto è insito per Paine un dovere verso l’altro, un’imposizione dei singoli a danno della collettività metterebbe in contraddizione gli stessi cardini sui quali è sorta e poggia la società.
La sua riflessione sulla giustizia richiede una teoria della società e dunque rimanda ad un’idea forte dell’appartenenza politica alla comunità. In tal modo le istanze liberali di Paine si arricchiscono di una connotazione umanistica e morale – e intensamente repubblicana – che ha rilevanti implicazioni anche nella sua concezione istituzionale.
La società non è semplicemente identificabile con il mercato economico e la libera realizzazione personale, entro una ‘meccanica degli egoismi individuali’ che perseguirebbe inintenzionalmente anche l’interesse generale (stante una piena identificazione tra «paradigma hobbesiano» e «paradigma della mano invisibile»).
Se così fosse, quello di Paine sarebbe un liberalismo proiettato alla realizzazione di una società competitiva e radicalmente individualista. Egli porterebbe a coronamento il liberalismo «borghese» – centrato su una semantica dell’interesse che diviene necessariamente grammatica politica – adeguandolo alla realtà americana e ritenendo che gli uomini non siano particolarmente interessati alle sorti della comunità e non siano affatto volti a fini comuni. Tale prospettiva interpretativa (Foot 1987, pp. 7-36) manterrebbe Paine distante da un pensiero autenticamente democratico. Sotto questo profilo, dalle sue pagine emergerebbe l’immagine dello «Stato borghese di diritto» che, mutuando le parole di Schmitt, si limita «unicamente a salvaguardare […] l’ordinamento giuridico borghese, che si basa sulla proprietà privata e sulla libertà personale e considera lo Stato come il garante armato di questa sicurezza, tranquillità, e ordine borghesi» (Schmitt 1984, pp. 177-178). Uno Stato certamente ‘minimo’ in cui tutti i beni sono oggetto di proprietà privata e gli individui non hanno altri diritti che quelli di proprietà (proprietà di se stessi e proprietà di beni).
Ammettendo, invece, che la riflessione di Paine, attraversata da frequenti e profonde rimodulazioni, contenga la possibilità di andare “oltre il liberalismo borghese”, si può giungere ad una diversa articolazione e lettura del suo pensiero politico e filosofico-giuridico.
Il punto di svolta di questa lettura si può rinvenire nella concezione della povertà che Paine fa propria e che emerge nella seconda parte dei Rights of Man:


Quando nei paesi cosiddetti civili, vediamo i vecchi andare alle case di lavoro e giovani salire al patibolo, ciò significa che dev’esserci qualcosa di errato nel sistema di governo. Dall’apparenza esteriore di quei paesi sembra che vi domini la felicità, ma, nascosta all’occhio dell’osservatore comune, esiste una massa di miserabili che non hanno quasi altra prospettiva che quella di perire nella povertà e nell’infamia. Il loro ingresso nella vita è accompagnato dal presagio della loro sorte; e finché non si pone rimedio a tale situazione, ogni punizione è vana. Il governo civile non consiste nelle esecuzioni, ma nel provvedere all’istruzione dei giovani e al sostegno degli anziani, così da preservare gli uni dalla dissolutezza e gli altri dalla disperazione, per quanto è possibile. Ma invece le risorse della nazione vengono profuse per i re, per le corti e per i mercenari, impostori e prostitute; e persino i poveri, malgrado tutte le privazioni di cui soffrono, sono obbligati a sostenere questo sistema fraudolento che li opprime. Come mai vengono giustiziati soltanto i poveri? Questo fatto dimostra, fra le altre cose, quanto sia miserabile la loro condizione. Allevati senza morale, gettati nel mondo senza prospettiva, essi sono le vittime designate del vizio e della barbarie legalizzata (Paine 1978, p. 604).


Ciò che affiora è la consapevolezza della natura della povertà: essa non ha una causa occasionale, temporanea e individuale, ma sociale e consolidata (cfr. Di Sciullo 2000, pp. 152-153). La povertà è vista come fatto collettivo, analogamente alla proprietà stessa (almeno nella fase dello stato originario di natura).
In questo passaggio teorico-concettuale, dalle profonde implicazioni sociali, si genera una diversa idea dello Stato, del governo, del potere politico.
Si dischiude, così, uno spazio rilevante per un ruolo attivo delle istituzioni che evidenzia il più importante snodo nel pensiero politico-giuridico di Paine: dalla visione “minima” dello Stato rinvenibile in Common Sense si passa ad una visione “interventista”, espressa soprattutto nei Rights of Man (specie nella seconda parte) e, compiutamente, in Agrarian Justice (cfr. Cole 1967, p. 26).
Piuttosto che una rupture radicale, quella delineata pare più propriamente un’«evoluzione» (Kates 1989), un passaggio, che può essere spiegato – sul piano teorico – ricorrendo all’interazione tra le due semantiche dell’interesse e della socialità, che sono compresenti nell’opera di Paine.


3. Benessere sociale e idea di felicità

Coniugando teoria dei diritti, teoria della società e del governo, si approda al problema del rapporto tra istituzioni (governo) e benessere sociale, questione implicita, questa, nella sua visione della res publica, saldamente radicata nei processi storici e sociali e nelle loro trasformazioni.
Attraverso la partecipazione alla Rivoluzione francese, Paine si rende conto che l’idea di un governo «minimo» – come voleva il suo amico Godwin – che lasci ampi spazi di azione alla società (secondo la “meccanica degli interessi”), realizza la libertà degli individui e promuove socialità solamente in paesi come l’America dove le diseguaglianze non sono rilevanti e consolidate, e dove esiste una forte mobilità sociale (cfr. Gobetti 1983). Nei paesi europei, come la Francia e l’Inghilterra ad esempio, vigono fortissime diseguaglianze che ostacolano la promozione del bene comune e quella, auspicata, feconda armonia tra interesse individuale e organizzazione istituzionale della repubblica.
La specificità dell’apporto di Paine al dibattito sulla questione della povertà e il suo contributo ad una nuova teoria dello Stato – e conseguentemente dei diritti – consiste nella giustificazione filosofica e morale della tassazione.
Da questa filosofia, strutturata a partire da un’attenta identificazione di carattere sociologico dei soggetti che versano in condizioni di maggior bisogno e sostegno, prende le mosse l’articolato piano di assistenza sociale e di istruzione (cfr. Simon 1972) ideato da Paine per le classi più povere: i titolari dei ‘nuovi’ diritti – sono i «fanciulli», gli «anziani», le «vedove», ma anche chi, più in generale, versa in condizioni di indigenza, i «poveri» (Paine 1978, p. 633).
Tale programma di sicurezza sociale, come è stato notato (Cole 1967, p. 26), può effettivamente considerarsi il capostipite di tutti quelli successivi basati sull’uso dell’imposizione fiscale come strumento fondamentale per ridistribuire il reddito e promuovere giustizia sociale, ciò che segna, come nota Fruchtman (2009, pp. 103-133), un passaggio dallo “spirito hamiltoniano” al public welfare.
Ne scaturisce un costituzionalismo democratico e sociale, che assegna ad ogni generazione la possibilità di mutare la costituzione sulla base di nuovi bisogni e di nuovi diritti, come testimonia quella che a tutti gli effetti pare la genesi dei diritti sociali prefigurata da Paine (sia consentito rinviare, a questo proposito, a Casadei 2012, pp. 175-207; 2012b, pp. 1-25). Il peculiare rilievo assunto, in questo contesto, dalla dimensione della socialità rinvia poi a una concezione della cittadinanza sociale nonché della libertà intesa non come libertà dallo Stato, bensì come libertà di essere pienamente partecipi della vita pubblica e politica, delle sorti della res publica, e questo grazie anche all’intervento dello Stato a sostegno dei soggetti più vulnerabili.
È opportuno, alla luce di quanto osservato sin qui, delineare più precisamente anche la prospettiva filosofico-morale attraverso la quale Paine esprime la sua concezione dell’individuo e della società e, in ultima istanza, la sua visione della felicità.
Egli, così come non era stato il primo ad utilizzare l’espressione common sense, non era neppure il primo ad utilizzarla come corollario delle sensibilità morali dell’uomo (Fiering 1976, pp. 195-218). Può essere interessante a questo riguardo istituire un confronto con la riflessione di Shaftesbury e con quella dei filosofi scozzesi del senso comune, come Thomas Reid (Fruchtman, 1989, p. 424). Tale concezione si incentra sulla inerente, costitutiva, socialità (sociability) degli esseri umani. Paine sostiene che gli uomini sono per natura «esseri sociali» (ivi, p. 432; Fruchtman 2009, pp. 28-55). La felicità si dà in relazione con gli altri uomini, non si possiede nell’isolamento, nel recinto del proprio ‘io’ e ha nell’eguaglianza naturale degli uomini la sua scaturigine e – nel contesto dello Stato repubblicano e democratico – un concreto radicamento in forma di effettiva libertà, per tutti.
L’intenzione profonda del giusnaturalismo egalitario di Paine è rappresentata da questa esigenza di relazionalità che si traduce in simpatia (cfr. Condorcet 1995). Il senso comune è senso del bene pubblico, del comune interesse, amore della comunità o società, affetto naturale, gentilezza, ovvero quel senso di civiltà (civility) che nasce dalla giusta considerazione dei diritti comuni all’umanità e dell’eguaglianza che sussiste fra tutti gli esseri umani. Il common sense esprime, dunque, un’aspirazione universalistica e appare come la chiave per accedere a un concreto rapporto simpatetico con l’altro, fondato sul riconoscimento di una comune umanità (cfr. Casalini 2002, p. 61).
Il punto fondamentale è che Paine, così come tra politeness e azione politica, cerca di individuare la possibilità di mantenere un nesso fra socialità e moralità all’interno della società commerciale. Laddove si riesce a costituire un governo fondato sui princìpi della società (e potremmo dire della socialità) e sui diritti dell’uomo, intesi come sistema, si può instaurare un’«armonia cordiale», una «cordiale concordia» (cordial unison; Paine 1978, pp. 551-556).
Dalla prospettiva antropologica painiana traspare, pertanto, la possibilità di relazioni tra individui improntate alla simpatia o, con altro termine, alla “mitezza”. Quest’ultimo ricorre significativamente laddove Paine affronta i temi del commercio e della religione [intesa, come avviene in The Age of Raison (1793), come religione naturale e non istituzionalizzata]. Il commercio e la religione costituiscono dei fenomeni naturali, ed entro tale dimensione originaria sono caratterizzati proprio dalla mitezza, dall’essere attività miti, pacifiche.
È in questa chiave di costruzione di relazioni, attraverso attività commerciali ispirate dalla reciprocità e non dal dominio, nonché attraverso la pacifica convivenza tra le differenti religioni, che Paine sviluppa il suo ideale di repubblica. Per realizzare the circle of civilization (Paine 1978, p. 597) occorre l’affermarsi, ad ogni livello, dei princìpi di «civiltà universale» che corrispondono alla vita condotta secondo natura, ovvero in condizioni di relazionalità e reciprocità tra individui e per fare questo occorre rimuovere gli ostacoli che tendono a mantenere gli esseri umani in posizioni asimmetriche.
Il «cerchio della civiltà» può completarsi, pertanto, solo se la convivenza tra le religioni e quella tra gli stati riuscirà a riflettere la convivenza “mite” che gli individui possono attuare in uno Stato repubblicano, che rappresenta l’autentica riproposizione di uno stato di natura pacifico (Mumford 1967), una forma istituzionale in cui la libertà si intreccia con l’eguaglianza, rendendo possibile la felicità per ogni essere umano, a prescindere dalle sue condizioni di origine. La cittadinanza, intensa in senso sociale, salda questa comune appartenenza, nonché questa comune tensione ad una dimensione di felicità universale.
La repubblica democratica e l’embrionale idea di “Stato sociale di diritto” sanciscono sul piano istituzionale la prospettiva di Paine, una prospettiva all’insegna dell’interpenetrazione tra diverse istanze che potremmo definire repubblicanesimo “meticcio” (Colombo 2003, p. 112) e che si spinge verso forme di “repubblicanesimo cosmopolita” (cfr., da ultimo, Lamb 2015, in part. pp. 152-178; La Neve, 2016): un ideale di libertà e felicità per tutte le nazioni.


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