Era la sera del 13 marzo 2013 quando venne eletto al soglio pontificio il cardinale Jorge Mario Bergoglio col nome di Francesco, ispirandosi al Poverello d’Assisi. Un giorno che passerà alla storia, anche se, forse, non tutti siamo ancora pienamente consapevoli della novità. Occorre pertanto riflettere sulla rotta impressa alla Barca di Pietro dal suo 266° successore, primo papa non europeo dopo 1.272 anni. Appena uscito dalla clausura del Conclave, questo vescovo venuto dalla “fine del mondo” ha subito fatto breccia nel cuore della gente. Non solo dei fedeli convenuti sotto la pioggia a Piazza San Pietro, ma davvero fino agli estremi confini, raggiungendo non solo le periferie geografiche, ma anche quelle esistenziali. Infrangendo le previsioni dei giornalisti vaticanisti, lo Spirito Santo ha fatto rivivere alla chiesa una nuova Pentecoste, un evento che sta già segnando, nella fede, l’agognato cambiamento, quella svolta decisa nel faticoso cammino della chiesa postconciliare. È sufficiente riflettere sulla sua predicazione, spesso a braccio, sul tema della misericordia, come anche su quello ecclesiologico, riguardante una visione di chiesa decentrata, quindi in periferia, a fianco dunque dei poveri, di coloro che vivono nei bassifondi della Storia. Per non parlare dell’atteggiamento inclusivo rispetto ai lontani, non solo geograficamente, ma anche dal punto di vista esistenziale.
Il cammino era stato indicato, con umiltà, da papa Ratzinger, il quale verrà sempre ricordato dai posteri per il suo coraggio, non di “desacralizzare” il ministero petrino, come qualcuno ha erroneamente pensato e scritto, ma di “demitizzarlo” o “smitizzarlo”, o meglio ancora “umanizzarlo” restituendolo alla sua originale matrice di peculiare servizio alla chiesa di Cristo. Gesuita, argentino di origini italiane, papa Bergoglio, quella piovosa sera di marzo, indossava la talare bianca e una croce di ferro. Affacciandosi dalla loggia centrale della Basilica, il suo sguardo sprizzava sobrietà e pacatezza. Augurando a tutti un conviviale e per certi versi disarmante “buonasera”, ha parlato a braccio con semplicità e immediatezza, riuscendo col sorriso ad andare al di là di ogni formalismo.
Invocando la comunione con tutte le chiese nel mondo, come vescovo dell’Urbe, ha chiesto la preghiera del popolo per iniziare un cammino, sono sue testuali parole, «vescovo e popolo». Citando poi sant’Ignazio di Antiochia, ha precisato che si tratta di un cammino della chiesa di Roma, «che presiede nella carità tutte le chiese» a servizio della causa del Regno. C’era davvero bisogno di un pastore come lui, in questo tempo segnato da una crescente crisi di valori, anche all’interno delle nostre comunità. Dopo certi scandali che non hanno certo giovato alla salute delle anime, si avvertiva la necessità di voltare pagina.
A questo proposito, è bene richiamare un particolare che il teologo Vito Mancuso ha colto in un suo commento, scritto quasi di getto, subito dopo l’elezione papale. Egli, da attento e critico osservatore, ha rilevato che il motto episcopale di Jorge Mario Bergoglio – Miserando atque eligendo – si riferisce a quel brano del Vangelo secondo Matteo in cui Gesù incontra il pubblicano Matteo: «Andando via di là, Gesù vide un uomo seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: “Seguimi”. Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre egli sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: “Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?”. Gesù li udì e disse: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”» (Mt 9,9-13). È una sintesi efficace del pensiero missionario di papa Bergoglio che, come vedremo più avanti, è inclusivo e non esclusivo, decentrato e non incentrato, proteso ad extra e non ad intra. Un approccio che certamente non piace ai nostalgici della romanità a tutti i costi o ai patetici restauratori degli obsoleti riti preconciliari. Per non parlare dei maggiordomi e ciambellani redivivi delle corti medioevali, che ancora oggi ricercano nel papato l’associazione, francamente indebita, del potere spirituale con quello temporale.
Questo approccio è evangelico e innovativo al punto da affascinare i tanti non credenti, mangiapreti e detrattori della chiesa, pubblicani moderni, che rimangono colpiti dalla profondità del cuore del vescovo Francesco. Per rispondere a coloro che hanno una visione della chiesa come societas iuridicae perfecta, papa Bergoglio ci rammenta che la Chiesa, in quanto “Corpo mistico”, santo per elezione e vocazione, è composto comunque di persone in carne e ossa, tutte bisognose di conversione. Ma per poter davvero comprendere la portata profetica del suo pensiero, soprattutto in riferimento ai poveri, è fondamentale la lettura dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (2013, EG). Si tratta del testo programmatico che sintetizza l’indirizzo impresso dal nuovo pontefice. Un documento di oltre 220 pagine, diviso in 5 capitoli e 288 paragrafi. Con linguaggio diretto, dalla forte valenza pastorale, il papa sviluppa il tema dell’annuncio del Vangelo nel mondo attuale. L’esortazione raccoglie, tra l’altro, il contributo dei lavori del Sinodo sul tema “La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede”, svoltosi in Vaticano dal 7 al 28 ottobre 2012. Leggendo questo documento si evince che la sua elezione alla Sede di Roma, è davvero espressione di una restituzione della fede dalla “fine del mondo”, dalla periferia oltreoceano del “Nuovo Mondo”, per ridare impulso laddove il progresso non è sempre coinciso con le istanze umane e spirituali. Ecco che allora la missione, secondo Francesco, non può essere percepita come una realtà a sé stante, rispetto alle attività pastorali delle Chiese particolari, ma piuttosto come un elemento imprescindibile per dirsi davvero cristiani.
Vi è poi l’affermazione del grande mistero dell’incarnazione di Dio fatto uomo nella Storia per cui, con Papa Bergoglio, non siamo più in presenza di un Dio absconditus, nascosto, distante, che guarda la nostra umanità dolente dall’alto della sua nuvoletta celestiale, ma, al contrario, di una manifestazione amorevole del Cristo, Dio fatto uomo, dell’Alfa e dell’Omega, del Principio e della Fine. Se la dimensione religiosa è stata spesso percepita nella nostra società globalizzata come un qualcosa di accessorio è perché non si è compreso che la missione non può rimanere confinata nelle sacrestie, ma abbraccia il mondo intero. Ma questo sarà possibile, nella misura in cui, come chiede Papa Bergoglio, sapremo esporci ai lontani, promuovendo una relazione di vita da cui far scaturire la bellezza dell’essere cristiani. In questa prospettiva, la sua preoccupazione è quella di rendere credibile la Buona Notizia, scrollando dalla chiesa il pesante fardello di condizionamenti del passato, molti dei quali legati a tradizioni non più intelligibili oggi, che ha determinato, soprattutto in Europa, una dissociazione tra fede e cultura, tra ciò che si celebra in parrocchia e l’agorà, la piazza, per non parlare dei crocicchi delle strade più lontane dal circuito ecclesiale.
D’altronde, un messaggio evangelico asettico, disincarnato rispetto alla vita della gente, non serve: è oppiaceo, alienante, come se fosse espressione di una civiltà senza religione. Se per secoli l’Europa ha visto nel Cristianesimo il proprio elemento aggregante, oggi, stando alla cronaca, non è più così in molte parti del mondo. La cosiddetta Civitas medievale è impressa sui muri delle cattedrali del Vecchio Continente, sugli affreschi, sulle tele e sui marmi di Raffaello e Michelangelo, Piero della Francesca, Botticelli o Donatello, ma non certo nei comportamenti di una società planetaria, come la nostra, bisognosa di redenzione. Ecco perché è necessario comprendere il mondo, saperlo interpretare, leggendo attentamente i “segni” del tempo che ci appartiene, un tempo, è il caso di dirlo, segnato da scenari fortemente contraddittori: inferno e paradiso. Ad esempio, nell’EG, il papa afferma che è «necessaria una voce profetica» quando si vuole attuare una falsa riconciliazione che «metta a tacere» i poveri, mentre alcuni «non vogliono rinunciare ai loro privilegi» (218). Ecco che allora, per la costruzione di una società «in pace, giustizia e fraternità» indica quattro principi (221): «il tempo è superiore allo spazio» (222) che significa «lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati» (223); «l’unità prevale sul conflitto» (226), operando cioè in modo che gli opposti raggiungano «una pluriforme unità che genera nuova vita» (228); afferma poi che «la realtà è più importante dell’idea» (231) a significare che politica, fede e cultura non posso ridursi ad una fantomatica retorica (232); e infine ricordando che «il tutto è superiore alla parte» coniugando le istanze della globalizzazione con quelle della localizzazione (234). Parlando di alcune sfide del mondo attuale, sempre nell’EG, denuncia l’attuale sistema economico: «è ingiusto alla radice» (59). «Questa economia uccide, fa prevalere la «legge del più forte, dove il potente mangia il più debole». L’attuale cultura dello «scarto» ha creato «qualcosa di nuovo»: «gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”» (53). C’è la «nuova tirannia invisibile, a volte virtuale», di un «mercato divinizzato» dove regnano «speculazione finanziaria», «corruzione ramificata», «evasione fiscale egoista» (56).
Il documento affronta poi gli «attacchi alla libertà religiosa» e le «nuove situazioni di persecuzione dei cristiani, le quali, in alcuni Paesi, hanno raggiunto livelli allarmanti di odio e di violenza. In molti luoghi si tratta piuttosto di una diffusa indifferenza relativista» (61). Francesco però non è un picconatore, ricordando, con un atteggiamento positivo che «la politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose di carità, perché cerca il bene comune» – scrive citando il suo predecessore e maestro Paolo VI. «Prego il Signore che ci regali più politici che abbiano davvero a cuore la società, il popolo, la vita dei poveri!» (205). Invita poi ad avere cura dei più deboli: «i senza tetto, i tossicodipendenti, i rifugiati, i popoli indigeni, gli anziani sempre più soli e abbandonati». Riguardo ai migranti esorta «i Paesi ad una generosa apertura, che, al posto di temere la distruzione dell'identità locale, sia capace di creare nuove sintesi culturali» (210). Il Papa parla «di coloro che sono oggetto delle diverse forme di tratta delle persone» e delle nuove forme di schiavismo: «Nelle nostre città è impiantato questo crimine mafioso e aberrante, e molti hanno le mani che grondano sangue a causa di una complicità comoda e muta» (211). «Doppiamente povere sono le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza» (212).
Sebbene, dunque, siano molti i tratti caratteristici del suo pontificato, Francesco ha un carisma senza precedenti, quello di saper parlare direttamente al cuore della gente, soprattutto gli ultimi, gli emarginati. Non è un caso se nell’EG utilizza per ben 13 volte il verbo “comunicare” e 11 il sostantivo “comunicazione”. Se non sappiamo comunicare, d’altronde, come pensiamo di uscire dalle sacrestie, di scendere nell’agorà, di avventurarci nelle periferie? Oggi, più che mai, fa intendere Francesco, occorre comunicare il Vangelo, nella consapevolezza che parlare di Gesù Cristo, della chiesa o del regno di Dio, non è facile. Vi sono, infatti, forme di resistenza e di pregiudizio che non andrebbero sottovalutate. Non è il messaggio evangelico in quanto tale a fare problema, ma il fatto che esso venga associato ad una comunità di credenti che spesso non si rivela all’altezza della situazione. Fare finta di niente di fronte al fenomeno crescente della scristianizzazione significa essere ciechi. È altrettanto fuorviante consolarsi col piccolo gregge di praticanti che viene a Messa, spesso fidelizzato attraverso discutibili forme di devozione. Il Cristianesimo, a pensarci bene, prim’ancora che essere un compendio di leggi, leggine e dottrine, è un’esperienza che si traduce in relazione umana e spirituale. «Una pastorale in chiave missionaria – scrive il papa - non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere. Quando si assume un obiettivo pastorale e uno stile missionario, che realmente arrivi a tutti senza eccezioni né esclusioni, l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario. La proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa» (35). Dunque, per Francesco, la fede è un evento comunicativo, attraverso il quale è possibile ascoltare, parlare e dialogare con Dio e con l’uomo. Una comunicazione, dunque, in cui i gesti precedano le parole. Si tratta, in sostanza, di rendere operativo il dettato conciliare, in cui i ministri di Dio, come parte integrante di un popolo in cammino, sono a servizio dei fratelli e non esercitano su di essi alcuna forma di potere che possa essere in conflitto col principio della carità.
In questa prospettiva, la parola “riforma”, che tanto preoccupa i detrattori di papa Francesco, è certamente un atto di semplificazione, all’insegna del radicalismo, di riscoperta dell’irrinunciabile evangelico, cercando di rendere credibile il mistero cristiano e la novità che esso comporta. Ed è la stessa tradizione, che certi benpensanti misconoscono, ad affermare perentoriamente: Ecclesia semper reformanda. Intendiamoci, i cambiamenti che egli sta apportando vanno ben al di là del fatto che baci i bambini, lasci vuota la sedia del concerto di corte e viaggi con una borsa in cui c’è un libro il breviario e il rasoio. La vera trasformazione sta nel fatto che l’azione di Francesco annunci e realizzi il decentramento di cui sopra, ricollocando il papato in un contesto communionale non impositivo, ma propositivo, non autoritario, ma autorevole. Lungi da ogni retorica, è la metafora della “chiesa del grembiule”, che ha come paradigma il servizio (diakonia), tanto cara ad un grande pastore del Novecento, il vescovo pugliese don Tonino Bello, nei confronti del quale Francesco ha già dato prova di grande assonanza. Dobbiamo, pertanto, tutti quanti, cambiare, tornando indietro a una sobrietà nel culto e nella prassi che sia secondo il Vangelo e non rispondente a dettami arcaici e obsoleti. Interrogare e, per quanto possibile, rispondere alle sfide della missione, significa far posto alle cose che restano da discutere, da capire e da raccontare soprattutto ai giovani. Coloro, cioè, che di questi tempi, soprattutto a seguito della recessione internazionale, più di altri sono stati penalizzati dalla crisi del cosiddetto mercato del lavoro. Essi – scrive papa Francesco – «nelle strutture abituali, spesso non trovano risposte alle loro inquietudini, necessità, problematiche e ferite» (EG, 105). I giovani, certamente, non sono gli unici privi di memoria, ma chiedono segnali forti di cambiamento, linguaggi nuovi, rinnovati, forme espressive e di riverenza innovative nei confronti del “mistero cristiano”, che vadano al di là dei rigurgiti canori o del penoso blaterare dai pulpiti in certe assemblee domenicali. Qui si tratta di capire che sia la liturgia che l’apostolato devono essere espressione di una fede non formale o manifestazione di un narcisismo fatto di paludata esteriorità farisaica. Oggi sappiamo che ondate di religiosità, unitamente ai flussi di una crescente secolarizzazione, hanno generato nella gente scorie di malessere e fanatismi a non finire, noia e disimpegno, per ignavia, stanchezza o delusione. Non possiamo più permetterci di languire nei tepori delle sacrestie, supponendo che così facendo si salvi il mondo. Qui non discutiamo affatto sulle verità rivelate, ma sulle modalità che perseguiamo nell’affermarle. Ecco, perché, in questo veloce e complesso divenire in cui come chiesa siamo sempre più un piccolo gregge, il dono dell’ascolto, in periferia, dialogando con rispetto, sia rimasto il modo migliore e più efficace per comunicare il Vangelo e testimoniare una relazione di vita da cui far scaturire la bellezza dell’essere cristiani. «A volte ci sembra di non aver ottenuto con i nostri sforzi alcun risultato – scrive il papa - ma la missione non è un affare o un progetto aziendale, non è neppure un’organizzazione umanitaria, non è uno spettacolo per contare quanta gente vi ha partecipato grazie alla nostra propaganda; è qualcosa di molto più profondo, che sfugge ad ogni misura. Forse il Signore si avvale del nostro impegno per riversare benedizioni in un altro luogo del mondo dove non andremo mai. Lo Spirito Santo opera come vuole, quando vuole e dove vuole; noi ci spendiamo con dedizione ma senza pretendere di vedere risultati appariscenti. Sappiamo soltanto che il dono di noi stessi è necessario. Impariamo a riposare nella tenerezza delle braccia del Padre in mezzo alla nostra dedizione creativa e generosa. Andiamo avanti, mettiamocela tutta, ma lasciamo che sia Lui a rendere fecondi i nostri sforzi come pare a Lui» (EG, 279).
Se volessimo dunque tentare di riassumere, in chiusura, la nostra anali del pontificato di Francesco, potremmo utilizzare un’espressione latina, scrutatio, radicata nella tradizione e attualizzata dal Concilio. Per una chiesa come la nostra, con oltre venti secoli di Storia e tanta venerazione, è necessario, oggi più che mai, interrogarsi sui segni dei tempi. Papa Francesco, è bene rammentarlo, considera le periferie, non solo come delle cornici geografiche, ma anche esistenziali. In entrambe si verificano fatti, accadimenti, fenomeni che non dovrebbero essere sottovalutati, quali appunto la globalizzazione con i suoi traguardi e le sue recessioni, per non parlare delle migrazioni o dell’avvento dei fondamentalismi. A dire il vero, anche i suoi predecessori, a partire proprio dal Concilio, avevano tentato di indicare questa ermeneutica del tempo, ma essa non aveva poi trovato attuazione nella pastorale ordinaria di molte chiese particolari. Lungi da ogni retorica, vi è un bisogno impellente di promuovere questa scrutatio, pregando, mettendosi in discussione, stando in periferia, lungo la frontiera e non nel tiepido tepore di una canonica o all’ombra del campanile. Il campo di missione è il mondo perché Gesù Cristo, duemila anni fa, non è venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori perché si convertano e vivano (Lc. 5,32).
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