1. Tecnica e complessità: i due registri (dissonanti) della modernità
Se c’è una cosa che più di altro segna la nostra epoca – e il futuro che abbiamo di fronte – è l’inarrestabile crescita della complessità, ossia della varietà (nello spazio), della variabilità (nel tempo) e dell’indeterminazione (nelle leggi causali) del mondo in cui viviamo.
Guardiamoci intorno: cresce il numero dei prodotti e delle marche con cui abbiamo a che fare; cresce il numero delle imprese, dei lavori specializzati e delle competenze e dei paesi di provenienza che danno forma alla nostra vita quotidiana; aumenta la velocità con cui tutte queste cose cambiano e si moltiplicano giorno per giorno; facciamo sempre più spesso esperienza di fenomeni emergenti che trasformano in modo imprevedibile cause deboli e contingenti in effetti forti e duraturi. I poteri di amplificazione dei media generano tutti i giorni eroi – campioni sportivi, cantanti, attori, comici, presentatori televisivi ecc. – che vivono nello spazio artificiale della notorietà, dove hanno rapporto con tutti e con nessuno.
L’economia che trasforma la varietà, la variabilità e i fenomeni emergenti in valore, scambiando questo valore sul mercato, alimenta la crescita delle imprese e dei lavori dedicati a questi compiti. Essa si nutre ormai di complessità. La stessa tecnologia, che un tempo tendeva a semplificare, standardizzare e controllare il mondo è oggi uno dei mezzi che – con le macchine flessibili, la comunicazione mobile sempre attiva, e la propagazione mediatica – consente di accrescere la complessità, facendone una condizione di vita.
In effetti, basta guardare lo svolgimento di una giornata tipo del consumatore, del lavoratore o del cittadino, per capire che essa è immersa nel brodo di cultura della complessità. Le strutture economiche e sociali ogni giorno metabolizzano la varietà, la variabilità e l’indeterminazione esistenti, interiorizzandole nei propri schemi di azione. E, al tempo stesso, generano varietà, variabilità e indeterminazione addizionali, che si aggiungono alla complessità già in essere, creando un trend evolutivo in crescita permanente da almeno trenta anni. Ossia da quando – negli anni settanta – si è consumata la crisi del modello fordista di produzione e di organizzazione sociale. In quel modello, la complessità veniva governata e ridotta, spesso con successo, grazie all’intervento dei “poteri forti” di cui erano dotati la grande impresa, iper-organizzata, e lo Stato del welfare, che programmava la vita sociale, dando a ciascun stakeholder – dotato di potere contrattuale – quanto serviva per incentivarne e regolarne il comportamento. Da allora tutto è cambiato, a cominciare dal rapporto con la complessità, diventata sempre meno disciplinabile con i mezzi ordinari di controllo[1].
2. La complessità vale, ma costa: la civiltà della tecnica ha coltivato (invano) il mito del controllo, che azzera la complessità
Fino a quando il fordismo ha retto, infatti, si pensava che la crescita della complessità fosse dovuta ad una defaillance dei mezzi di regolazione, applicati con intensità insufficiente o con metodi poco efficienti ad un sistema economico e sociale, andato, per una serie di ragioni, out of control. Di conseguenza la tipica risposta al problema era: aumentare l’investimento tecnologico, economico e politico sui mezzi di controllo, rafforzandoli. Ma oggi, dopo le esperienze fatte[2], ci si rende conto che non era e che non è così.
Accanto alla perdita di controllo, ci sono altre (e più importanti) cause: infatti, la complessità (intesa come varietà, variabilità e indeterminazione) aumenta non solo perché il controllo diventa debole e meno perentorio di un tempo, ma anche perché si riduce il peso delle azioni che rientrano nella sfera della pura e semplice necessità, mentre cresce, invece, quello delle azioni situate nella sfera della libertà, esercitata discrezionalmente dai soggetti, individuali o collettivi, che sono presenti nell’economia e nella società. La discrezionalità che affida il risultato sistemico a tante e diverse decisioni discrezionali, prese da soggetti che sono tutti diversi e tutti autonomi, è un potente generatore di complessità.
E non si tratta di un fenomeno temporaneo, perché dipende, in primo luogo, dalla maggiore ricchezza ottenuta con l’applicazione della scienza alla produzione. Ma è anche trainato dal cambiamento tecnologico, che dilata lo spazio delle possibilità, entro cui scegliere[3]. La potenza della tecnica (energia, meccanica, ICT) e quella dell’immaginazione collettiva, alimentata dai mass media, sono oggi mezzi formidabili di creazione del nuovo e del possibile. I soggetti, che sono stati finora piegati alle necessità della tecnica (e dei bisogni), rivendicano, insomma, una loro nuova condizione: quella dell’uso creativo della tecnica e dell’immaginazione, per auto-produrre il proprio mondo, seguendo un criterio di desiderabilità, e non di necessità[4].
Anzi, diciamo di più: ormai l’economia è congegnata in modo tale che le imprese più innovative usano la dilatazione della varietà (differenziazione dei prodotti), della variabilità (cicli di vita sempre più brevi) e dell’indeterminazione (flessibilità) come metodi per creare un vantaggio competitivo a proprio favore, nei confronti di concorrenti che faticano a seguirle su questo terreno[5]. Il bisogno (o meglio il desiderio) di creatività – nella funzione imprenditoriale, nel lavoro, nel consumo e nell’esercizio della cittadinanza – diventa insomma una risorsa produttiva, di grande importanza, perché dà valore a significati, a legami e a identità auto-generate. Persino il consumo diventa luogo di innovazione e di intelligenza progettuale, dopo gli anni del fordismo in cui era confinato ad un ruolo passivo, gregario, rispetto alla sfolgorante potenza dell’offerta[6]. L’ideologia del postmoderno, inteso come continuo cambiamento del mondo, che immerge i soggetti in un presente diventato irrimediabilmente contingente, dà conto abbastanza bene di questo recedere della modernità rispetto alla inarrestabile crescita della complessità, da essa stessa indotta.
Ma – e qui veniamo al punto – la complessità costa. E per una ragione sostanziale: perché contraddice il principio fondativo della produzione moderna, che è l’impiego replicativo di conoscenza riproducibile per generare valore utile. Scienza, tecnica e macchine mettono in azione una forma di conoscenza che, assumendo forma scientifica, tecnologica o meccanica, può essere usata più volte a costo zero (o comunque con costi di ri-uso limitati).
Ma perché le conoscenze impiegate nella produzione siano riproducibili occorre rendere compatibile la teoria astratta, elaborata dalla scienza e incorporata nelle macchine, con il mondo concreto, superando il dislivello di complessità che caratterizza la rappresentazione teorica delle cose con il contesto pratico in cui questa deve essere calata, per funzionare a dovere. La soluzione più semplice del problema, e quella che ha avuto assoluta preminenza nel corso della prima modernità, è quella di agire sul mondo reale in modo che la complessità dell’ambiente produttivo e dei processi sia ridotta al minimo. Un po’ per forza (per le prescrizioni e istruzioni imposte a chi usa la tecnica a fini pratici), e un po’ per amore (della produttività che ne deriva).
Viene creato un mondo artificiale dove la tecnica rende al massimo (grazie al principio dimostrativo e alle economie di replicazione), anche se – rendendo la realtà simile al laboratorio in cui la scienza e la tecnica sono state elaborate – si finisce per sacrificare qualche aspetto del mondo reale e per comprimere il libero esercizio della scelta soggettiva. Non per niente laboratori scientifici, fabbriche e città industriali si assomigliano: sono mondi artificiali dove, in linea di principio, non dovrebbe accadere niente che non sia previsto, secondo programma. In tutti e tre i casi, la standardizzazione del contesto presidia e difende la riproducibilità delle conoscenze impiegate.
Di qui la tendenza tipica della prima modernità per la spersonalizzazione dei processi e per quella che Karl Marx chiamava astrazione reale: il mondo reale viene plasmato da scienza, tecnica e macchine in forme che lo portano ad essere fatto “ad immagine e somiglianza” della conoscenza astratta, da impiegare, o meglio da re-impiegare, il numero massimo possibile di volte.
Ecco che il lavoro (moderno) perde la sua concretezza per diventare una quantità astratta (il tempo-lavoro), indifferente alle persone che lo prestano e anche alle loro capacità (conta soltanto che seguano le istruzioni dettate dall’ingegneria delle macchine); il capitale diventa “denaro che produce denaro”, un’altra quantità astratta e impersonale; il territorio una certa quantità di metri quadrati di spazio utile o un certo ammontare di chilometri di distanza.
È vero che negli ultimi tempi anche la tecnologia si è mossa in questa direzione, grazie anche alle ICT e alle macchine intelligenti (flessibili). Ma siamo ben lontani dalla possibilità di uscire dall’antinomia tra replicazione astratta (a costo zero) e adattamento, caso per caso, al singolo contesto.
3. Lo slittamento verso la produzione immateriale: intelligenza in rete e creatività
La persistente tensione tra capitalismo impersonale e uomini, in carne ed ossa, messi al lavoro nei concreti contesti di produzione, segna tutta la storia della modernità. E soprattutto segna il passaggio delle diverse epoche che hanno scandito l’evoluzione verso la modernità realizzata.
All’inizio – nel capitalismo dell’Ottocento, nato dalla rivoluzione industriale – la modernità era portatrice di una missione ben definita: creare un mondo artificiale e astratto in cui il lavoro, il capitale, il territorio perdevano la complessità delle origini e della tradizione, per aderire ad un processo di ricostruzione razionale del mondo[7] destinato a rendere impersonale la vita e la produzione, secondo i dettami della tecnica, del calcolo e dei mercati. Da allora, molta acqua è passato sotto i ponti. Questo disegno – di governo razionale del mondo, epurato dalla sua “naturale” complessità – si è dimostrato nei fatti ingenuo e irrealizzabile. Oggi – e qui emergono i segni del nuovo – sappiamo quanto sia diventato difficile, per non dire impossibile, comprimere la complessità con cui abbiamo a che fare. Tutti i tentativi di ridurre in modo permanente e consistente la varietà, riportandola allo standard, di imbrigliare la variabilità in un sentiero prestabilito, di sopprimere l’indeterminazione, eliminando le devianze e programmando in anticipo gli eventi ammessi hanno avuto vita breve.
Tutte queste cose, intendiamoci, ci sono ancora: ma funzionano sempre meno. E soprattutto funzionano nei paesi emergenti, dove stanno rinascendo – in forme nuove – l’autoritarismo e la centralizzazione del potere che noi abbiamo conosciuto mezzo secolo fa. Ma nei paesi ricchi, dove il potere e la ricchezza sono maggiormente diffusi, alimentando comportamenti plurimi e sorprendenti, non è più una prospettiva perseguibile.
Ci si trova dunque ad un bivio: da un lato c’è la tecnica, che – anche quando si muove verso l’intelligenza artificiale – continua a domandare un mondo a complessità ridotta e con varianti “addomesticate”; dall’altra c’è la società dell’invenzione auto-creativa, che, al contrario, vuole dilatare l’esperienza del possibile e del desiderabile, spingendo avanti la frontiera della complessità da esplorare.
Nello spazio che separa queste due forze, si collocano molte storie personali e aziendali che, ormai, hanno superato la soglia della prima modernità (replicativa), pur restando fedeli al principio fondamentale della riproducibilità delle conoscenze impiegate. Insomma non si tratta di storie perse nell’infinita e caotica varietà del postmoderno, ma di storie che inducono imprese e soggetti creativi a camminare – in modo rischioso e, al tempo stesso, intelligente – lungo un sentiero stretto, che procede sull’“orlo del caos”[8]. Ossia in una condizione che non è così ordinata da scoraggiare la ricerca del nuovo (essendo tutto già previsto), né troppo caotica da rendere il nuovo irrilevante, ed economicamente non redditizio.
Nelle esplorazioni del nuovo che avvengono mantenendo le imprese e le persone in modo durevole sull’”orlo del caos”, si va oltre il modello di produzione e di vita tipico della prima modernità, accettando come normali alti livelli di complessità, senza tuttavia abbandonare il principio (e l’utilità) della riproduzione cognitiva. Il ri-uso della conoscenza è ancora importante, perché fornisce i moltiplicatori (economie di scala) da cui dipende il valore ricavato dalle conoscenze; ma il ri-uso viene progettato in forme che consentono un impiego flessibile e creativo della stessa base di conoscenza. La vita della società fluisce, in forma liquida, senza cristallizzarsi in forme solide, predeterminate e durevoli[9].
Che cosa mette insieme i due poli dell’ossimoro (la riproduzione della conoscenza e il suo impiego duttile, messo al servizio della complessità)?
Come diremo, questi due principi riescono a coesistere grazie ad una serie di collanti che collegano i due opposti. Da un lato, infatti, bisogna presidiare il ri-uso della conoscenza, mantenendo la sua validità e il suo valore in contesti di uso differenti, diversi dall’originale; dall’altro bisogna procedere alla sua re-invenzione creativa, in modo da poterla impiegare in situazioni nuove e mutevoli.
Due sono i collanti essenziali a questo scopo. Il primo è l’intelligenza in rete, ossia l’intelligenza di molte persone che pensano e decidono autonomamente, ma che sono anche capaci di organizzare e mantenere stabile il reciproco rapporto, condividendo alcuni significati e regole di interazione. Nella rete la conoscenza si propaga da un nodo all’altra e, in forme contrattuali o informali, diventa alla fine conoscenza condivisa, a cui molti potenziali users possono attingere. Ma ciascuno lo farà in modo diverso, seguendo percorsi di uso che si differenziano e che esplorano varianti magari molto lontane dello spazio del possibile[10].
Il secondo collante è dato dalla creatività[11], ossia dalla possibilità che l’intelligenza che attraversa le reti non si limiti a calcolare, ma sia capace di pensare e progettare possibilità virtuali, non ancora esistenti, ma realizzabili[12]. Possibilità che alimentano l’immaginazione collettiva, creando significati, emozioni e identità capaci di conferire valore a certi prodotti e servizi, anche a prescindere dalle loro prestazioni materiali.
In questo modo, la conoscenza – che nella prima modernità era meccanica, deterministica – diventa semantica, comunicabile attraverso l’interazione tra menti che sono in grado di interpretare e capire situazioni complesse, sfuggenti. È la dinamica che Umberto Eco ha descritto come tipica dell’«opera aperta»[13] per cui ogni lettore (lector in fabula) aggiunge qualcosa di suo alla trama dei significati dell’opera che ha di fronte, e che fa rivivere nella sua mente, leggendola. La conoscenza non è più rigidamente incorporata in macchine o in codici formali, ma, per quella parte che viene tradotta in segni e significati, si adatta al contesto attraverso l’intelligenza dell’user, che aiuta a propagarla creativamente, adattandola plasticamente al contesto in cui deve essere usata.
Del resto, questo passaggio (dalla conoscenza meccanica a quella semantica) fa parte dello spirito dei tempi, che non guarda più alla macchina ma al valore prodotto attraverso la comunicazione di significati e la partecipazione a esperienze emotivamente ricche, motivanti. La produzione, in questo senso, è diventata essa stessa immateriale, appoggiandosi a ciò che la gente pensa e dice, più che alle prestazioni fisiche dei prodotti acquistati.
Ad esempio, consideriamo il valore di un paio di jeans di marca. Quando il consumatore acquista i jeans presso il negozio, li paga, diciamo, 150 euro. Ma con questi 150 euro non paga le prestazioni materiali del prodotto, perché il pantalone (finito) che esce dalla fabbrica vale solo 15 euro (anche meno se viene prodotto in Cina o in un altro paese low cost). Ma 15 euro sono meno di un decimo del valore totale attribuito al prodotto (dal consumatore che accetta di pagarli, pur avendo a disposizione merce funzionalmente equivalente, ottenibile a costi e prezzi molto più bassi). I 135 euro che rimangono (tra i 150 pagati e i 15 della lavorazione materiale) corrispondono a significati e servizi, ossia a prestazioni “immateriali”. Più precisamente, i 135 euro – accanto al profitto e a qualche rendita presente nel circuito distributivo – pagano il lavoro dell’ideatore, dello stilista, del progettista, del comunicatore, del controller della qualità, del finanziatore, del negoziante, dell’operatore logistico, del fornitore di servizi post-vendita ecc.[14].
Tutti lavori che generano conoscenze semantiche su cui – ecco il raccordo con la modernità – si possono fare economie di scala ri-utilizzando le conoscenze associate alla marca, allo stile e a certi moduli produttivi (stoffa, colore, accessori ecc.). Al tempo stesso, questi elementi fissi, che valgono per tutta una linea produttiva o per tutta la gamma dei prodotti dell’impresa, acquistano valore per il singolo user se sono abbastanza plastici da poterli adattare al suo specifico caso e contesto.
Dunque, la tecnica della produzione immateriale che interiorizza – tramite i moduli e i significati – il principio della complessità apre un capitolo nuovo nella storia della modernità. E nella storia dell’economia della produzione.
4. L’asse portante della modernità: il principio dimostrativo
Come abbiamo detto, il senso profondo della prima modernità, uscita dalla rivoluzione industriale e dispiegata nel tempo fino a divenire l’asse portante della produzione, nel secolo del fordismo è legato all’idea della riproduzione dell’one best way. Prima si ottimizza ogni processo e ogni prodotto e poi, trovata la forma di produzione più efficiente, si replica questo one best way al massimo possibile.
Questo modello – pratico e teorico – di economia che scaturisce dalla prima modernità era direttamente discendente dal modo con cui la conoscenza moderna era andata organizzandosi per resistere alle pressioni derivanti dalla sfera politica, religiosa e della tradizione. Il perno di questa resistenza è sempre stato il galileiano principio dimostrativo, per cui la verità non si giustifica sul terreno politico, economico, religioso, etico-culturale, ma dimostra la sua validità con mezzi propri, autoreferenti (la verifica sperimentale). Se vuoi credere in una “legge” sperimentale, rifai l’esperimento: la costanza degli effetti, a parità di causa, basterà a convincerti della sua validità, tagliando fuori tutti gli argomenti politici, economici e religiosi che – con questo criterio di verità – diventano irrilevanti.
È stato il principio dimostrativo a portare al centro del mondo moderno le conoscenze riproducibili, le uniche che possono essere “verificate” sperimentando lo stesso processo più volte. La sperimentazione, infatti, può funzionare – facendo agire le stesse cause e ottenendo gli stessi effetti – solo se oggetti e processi sono estratti dai loro contesti e resi (artificialmente) standard: ossia astratti, impersonali, “oggettivi” (privi di influenza da parte dei soggetti).
È in questo modo che il mondo della scienza e della tecnica genera e usa, a piene mani, conoscenze riproducibili (dimostrabili), sostituendo così, sul piano cognitivo, le conoscenze precedenti che erano empiriche e uniche (dunque non verificabili).
Ma, una volta che scienza e tecnica cominciano a consolidarsi, ci si rende conto ben presto degli enormi vantaggi economici che le conoscenze riproducibili hanno rispetto alle conoscenze contestuali precedenti: potendo moltiplicare i ri-usi della conoscenza (che già si possiede) a costo zero, l’economia che usa la scienza e la tecnica come forza produttiva entra in possesso di un formidabile moltiplicatore del valore e della produttività. Ogni ora di lavoro speso nella produzione di conoscenze riproducibili può – allargando il bacino di ri-uso – produrre un valore moltiplicato per dieci, per cento, per un milione, a seconda di quanti sono gli usi (a costo zero) che gli users realizzeranno.
Questi vantaggi si materializzano attraverso forme organizzative della produzione che servono, appunto, a codificare e propagare la conoscenza astratta:
5. Exploration contro exploitation: al bivio, presi il sentiero meno battuto
Poi, abbiamo detto, negli anni settanta, è arrivata la rivincita della complessità, scompaginando la partita giocata fino ad allora dalla prima modernità. Al posto della replicazione del già noto, entra in gioco il valore che varietà, variabilità e indeterminazione hanno per l’auto-creazione di se stessi e del mondo in cui si desidera abitare. La razionalità che era meccanica diventa esplorativa.
Esplorare significa dare valore al nuovo[15] (March 1991): è il nuovo che aggiunge qualche valenza nuova alla mappa cognitiva di cui già si dispone. Percorrere le rotte precedenti può essere utile, ma non ha valore cognitivo: semplicemente porta a confermare quello che già si sapeva.
Dal punto di vista cognitivo, c’è una differenza fondamentale tra vecchio e nuovo, tra sentiero già battuto (da altri) e sentiero nuovo, non ancora noto.
Se la conoscenza è concepita come attività esplorativa, nuovo e vecchio appartengono a due universi di significato completamente differenti:
6. Le nuove forme di relazione: esplorare a rischio, assumere responsabilità
La modernità meccanica, che delegava le scelte ad automatismi impersonali e irresponsabili, si trova ad essere improvvisamente obsoleta, nel momento in cui non si tratta più di calcolare i mezzi, ma di costruire un mondo condiviso, assumendo rischi e responsabilità della costruzione progettata.
Prima di tutto, entrano in gioco nuove forme di organizzazione della produzione, basate sull’outsourcing, ossia sul ricorso a competenze e lavorazioni affidate a specialisti esterni, invece che sul principio fordista del “fai-da-te” (tutto il ciclo e anche i dintorni del ciclo). L’outsourcing genera la produzione a rete, sia attraverso le filiere fornitori-clienti che nascono in genere intorno a qualche azienda leader, sia nei territori: in Italia abbiamo esempi eccellenti di questo nuovo modo di produrre, nei cosiddetti distretti industriali (luoghi in cui si concentra un settore produttivo specifico: il mobile, le calzature sportive, le piastrelle, ecc.).
Dagli anni settanta al 2000, le filiere di fornitura e i distretti industriali hanno colmato i vuoti produttivi derivanti dalla crisi delle grandi, e rigide, organizzazioni fordiste, fornendo ad un sistema – che ne aveva drammaticamente bisogno – varietà, variabilità e flessibilità di risposta ad una domanda sempre meno standard e sempre meno prevedibile.
Oggi queste reti si stanno espandendo verso l’economia globale, diventando filiere di fornitura che usano i diversi luoghi del sistema mondiale per funzioni specializzate (andando a cercare per ciascuna fase produttiva la localizzazione più conveniente) e reti immateriali, che cominciano a costruirsi intorno ad alcune idee chiave, in merito alla vita e al lavoro, più che intorno a questo o quel campanile. Ad esempio, queste idee possono essere gli stili di vita, i modi dell’abitare, le concezioni della salute e del viver bene, le estetiche del paesaggio o dell’alimentazione (si pensi a Slow Food), e così via.
In ogni caso, per costruire un mondo abitabile, che non è dato ma frutto delle nostre scelte di lavoratori, consumatori, imprenditori, cittadini, la razionalità non può rimanere soltanto quella dei mezzi, ma deve ancorarsi ad idee forti, a significati che riguardano il vivere e il lavorare. Infatti:
7. Un altro orizzonte di senso: la modernità riflessiva
Attraverso tutte queste strade, sta arrivando tra noi la seconda modernità. Una modernità riflessiva che non delega più a scatola chiusa le scelte ad automatismi e sistemi esperti, ma rivendica la possibilità di assumere rischi e responsabilità sugli esiti delle azioni, essendo pronti ad intervenire per modificare le loro premesse (le regole del gioco, gli obiettivi e i vincoli dei soggetti in azione, i progetti portati avanti e i criteri della loro valutazione soggettiva). La modernità, insomma, diventa riflessiva, ossia capace in ogni momento di rimettere in discussione le sue premesse[17]. L’idolatria dei mezzi, che usa l’efficienza come unico metro di giudizio, cede il passo alla disponibilità – a tutti i livelli – di discutere dei fini, rielaborandoli in forma condivisa e responsabile.
Le imprese, come organizzazioni di uomini che, a vario titolo, si trovano iscritti in questo paradigma riflessivo, non possono continuare a pensare se stesse come sistemi votati alla massimizzazione dell’efficienza tecnica (dei mezzi), restando indifferenti ai fini, ai rischi e all’autonomia/intelligenza dei soggetti con cui hanno a che fare.
Non si tratta di recuperare codici etici e regole astratte di azione che evitino imbrogli speculativi o deviazioni dalla norma. Tentativi del genere sono sempre stati fatti, con esiti discutibili, in passato. Ma oggi, in una società che slitta verso l’esplorazione a rischio del nuovo, non hanno più il terreno formale a cui appoggiarsi: le regole impersonali, infatti, sono sempre meno capaci di raggiungere il loro stesso scopo (l’uso efficiente dei mezzi), perché non riescono a motivare, legare, mobilitare le energie personali di lavoratori, consumatori, imprenditori, cittadini intorno a disegni condivisi e a rischi assunti in comune.
Il recupero di un orizzonte più vasto della sola efficienza dei mezzi è oggi una necessità imprescindibile, non solo per motivi etici, esterni alla sfera economica, ma per motivi economici: non si produce valore solo ottimizzando l’uso dei mezzi, in funzione di fini dati, ma rigenerando i fini e il senso delle azioni di migliaia di soggetti economici, ciascuno dei quali deve mobilitare la sua intelligenza, condividere progetti, assumere rischi, elaborare regole rivedibili riflessivamente dialogando con altri.