L’immagine dell’uomo proposta da Descartes è innovatrice quanto la sua filosofia, della quale segue fedelmente gli snodi fondamentali, applicando anche in campo antropologico la rigorosa articolazione dialettica tra finito e infinito istituita dal filosofo nella propria metafisica. Si può dire che l’antropologia cartesiana si comprenda a fondo solo inseguendo una serie successiva di scomposizioni e ricomposizioni concettuali degli elementi che costituiscono la soggettività in quanto finita – scomposizioni/ricomposizioni logicamente connesse e interdipendenti. Si potrebbe svolgere questa sequenza anche assumendo come punto di partenza il classico “dualismo cartesiano”, tanto spesso chiamato in causa quanto per lo più rozzamente semplificato e liquidato nella filosofia contemporanea – soprattutto nell’attuale filosofia della mente.
Concedendo infatti a Descartes l’attenzione priva di pregiudizi che egli stesso in più occasioni richiede al lettore, si constata che non uno ma una pluralità di dualismi ne attraversa il pensiero, e che la spiegazione offerta per ciascuno di essi, nella fattispecie in ambito antropologico, consente al filosofo di dare fondazione rigorosa al carattere duplice ovvero bifronte della realtà umana. Da un canto, infatti, la radicale finitezza dell’esistere come corpus-extensio indipendente dalla mens, ma anche come intellectus scisso dalla voluntas, e infine in campo morale come ammissione di un souverain bien relativo alla nostra “natura” distinto da quello assoluto (la volontà divina), consente di mantenersi ancorati alla tradizionale creaturalità e radicale dipendenza dell’uomo dal creatore e dal rimanente creato. Un quadro ancora apparentemente teocentrico, ove la condizione di finitezza è espressa soprattutto dal carattere di passività ontologica, intellettiva e morale dell’uomo. D’altro canto, però, poiché Descartes compone queste varie scissioni ri-unificando volta a volta i lati scissi sotto il predominio del lato coscienziale (mens), di quello attivo (voluntas) e della tensione di quest’ultimo all’autonomia, ne emerge anche un’opposta immagine dell’uomo essenzialmente padrone di se stesso (cfr. Passions de l’âme, II, 152, in Descartes 1996, XI, p.445): “imago Dei”, sì, ma tanto che noi ne risultiamo «en quelque façon pareils à Dieu» (a Cristina di Svezia, 20.11.1647, in Descartes 1996, V, p.85). Un’immagine che ben si presta all’emancipazione dell’uomo, soggetto finito ma soggetto comunque, dalla passività della sua “natura umana” data; e a una liberazione autoaffermativa delle sue energie che sembra porre le basi teoretiche per la visione antropologica propria della modernità. E’ una prospettiva che, se non fosse vincolata all’altro complementare ma inscindibile aspetto della passività/finitezza, assolutizzerebbe in un quadro essenzialmente antropocentrico il lato dell’infinità, espresso dal carattere autocoscienziale del soggetto umano. D’altra parte, proprio questa limitazione inaugura una prospettiva e/o un problema che va ben oltre la fin troppo frequente e sbrigativa condanna del “dualismo cartesiano”, trovando sviluppo e compimento addirittura nella questione centrale della filosofia trascendentale kantiano-fichtiana: l’enigmatica ma ineludibile unità dell’uomo sensibile e dell’intelligibile, del soggetto empirico e di quello trascendentale, del determinismo e della libertà. Una questione che, con buona pace di ogni semplificazione, si presenta ancora come insoluta e viva nel pensiero contemporaneo.
Quanto si propongono le pagine seguenti, dunque, è appunto di evidenziare la struttura concettuale delle tappe che, segnando in Descartes una ripetuta scissione e ricomposizione dell’unità del soggetto, lasciano un’impronta affatto nuova sulla riflessione antropologica moderna.
Unio substantialis mentis cum corpore
Il primo problema dell’uomo cartesiano, come ho ricordato, è quello della sua duplice costituzione, res cogitans e res extensa insieme. Qui non interessa tanto la spinosa questione dell’interazione tra due sostanze, incomunicanti per principio; va invece domandato come si possa pensare allora l’unità ontologica del soggetto umano anziché farne un mero composto di elementi eterogenei (ens per accidens). Il problema è questo: Descartes esclude ripetutamente che nella realtà si diano più di «due sommi generi di cose: uno è quello delle cose intellettuali, ossia cogitative, che pertengono cioè alla mente o sostanza pensante; l’altro è quello delle cose materiali, ovvero che pertengono alla sostanza estesa, cioè al corpo» (Principia Philosophiae, I,48, in Descartes 2009, p.1743). Nel contempo, il filosofo sostiene decisamente che io non mi trovo nel mio corpo «come un pilota si trova nella sua nave», ovvero estrinsecamente, «ma sono ad esso strettissimamente congiunto e quasi commisto, così da comporre con esso un qualcosa d’uno (arctissime esse conjunctum et quasi permixtum, adeo ut unum quid cum illo componam)» (Meditazione sesta, in Descartes 2009, pp. 788-89). Ma anche, in Principia Philosophiae, I, 60: pur ammettendo un’unione così stretta, «da combinare le due
Nella risposta alle Obiezioni mosse da Arnauld in proposito, Descartes conferma la necessità di mantenere tanto la distinzione reale (=sostanziale) di mente e corpo, quanto l’unità di essenza dell’uomo come totalità o intero, espressa dalla formula che dichiara appunto sostanziale l’unione di mente e corpo (unio substantialis): «nella stessa Meditazione sesta, in cui ho trattato della distinzione della mente dal corpo, contemporaneamente ho anche provato che essa è unita a quello sostanzialmente (substantialiter)» (Descartes 1996, VII, p. 227; trad. mia). Ma la spiegazione di ciò sembra, qui, tutt’altro che esauriente. E peraltro, rivolgendosi ad altri testi del filosofo, l’ambiguità non fa che aumentare. Scrivendo a Elisabetta di Boemia, infatti, Descartes dichiara di riconoscere «tre generi di idee o notions primitives» e cioè quella «dell’anima, quella del corpo e quella dell’unione che vi è tra l’anima e il corpo» (28 giugno 1643, in Descartes 2005, p.1781): e, ci dice altra lettera, che «non abbiamo, per il corpo in particolare, che la nozione di estensione (...) e, per la sola anima, non abbiamo che la nozione di pensiero (…); infine, per l’anima e il corpo insieme, non abbiamo che la nozione della loro unione (que celle de leur union)». Tutte le altre nozioni derivano da una di queste tre, tali invece che «essendo primitive, ciascuna di esse non può essere intesa che per se stessa» (a Elisabetta, 21 maggio 1643, in Descartes 2005, p.1748-499). Ma, poiché quoad nos l’intelligibilità distinta (=separata) di un concetto indica distinctio realis e individua pertanto una sostanza, si rischia di porre il concetto di unio, proprio in quanto tale, sullo stesso piano di quelli di cogitatio e di extensio – quindi, anche, di res cogitans e res extensa. La unio substantialis-uomo va allora intesa come una terza sostanza, accanto alle due peraltro ripetutamente dichiarate da Descartes le sole esistenti?
Di più: tutte le realtà si riducono alle due res (o sostanze) note e alle loro affectiones (Principia Philosophiae, I, 48) – in senso stretto, i loro modi (ivi, I, 56). Ora, (tolte le proprietà comuni ad ogni esistente come durata, ordine e numero), tutti i modi ineriscono specificamente ad una sostanza, e a nessun’altra. Sorprende dunque che, elencati i rispettivi modi delle due res, Descartes vi aggiunga «alia quaedam», non riferibili né al corpo, né alla mente come tali, ma solo alla «unione stretta ed intima della nostra mente con il corpo: l’appetito cioè […]; e ancora, le emozioni, o patemi dell’animo […] e infine tutte le sensazioni […] » (ivi, I, 48, in Descartes 2009, pp.1743-45). Bisogna allora pensare appetiti, passioni dell’anima e sensazioni come modi, e lasciar valere la unio (mentis cum corpore) proprio come una (terza!) sostanza, cui essi ineriscono? In tal caso l’uomo, come unio substantialis, non costituirebbe semplicemente una sintesi (né tantomeno una giustapposizione) della sostanza pensante e dell’estesa, ma sarebbe un concetto primitivo unitario, avente valore fondativo rispetto ad appetiti, passioni e sensazioni, che da esso soltanto potrebbero venir derivati.
In conclusione, la unio substantialis mentis cum corpore resta, da un lato, concetto mai ben chiarito; dall’altro, sembra prefigurare un luogo logico di rinvio reciproco immanente tra mente e corpo, in quanto punto di coincidenza delle due res. Infatti, se si parte dalla unio, o meglio da quei suoi “modi” che sono appetiti passioni e sensazioni, allora si pensa anche la mens-cogitatio come dotata in se stessa di riferimento corporeo, o corporeità; e il corpus-extensio, come immanentemente riferentesi al principio cogitativo-coscienziale. E infatti proprio da questa nozione di unio, insiste Descartes con Elisabetta, «dipende quella della forza che l’anima ha di muovere il corpo, e il corpo di agire sull’anima, causandone sentimenti e passioni» (21.5.1643, cit.). Il che, se fosse più chiaramente fondato, potrebbe modificare o addirittura dissolvere la difficoltà logica connessa all’idea d’interazione tra sostanze diverse. In un tal quadro, inoltre, l’applicazione del determinismo fisico-meccanico al soggetto umano (radicalizzabile e radicalizzata, in seguito, fino all’idea dell’uomo-macchina) risulterebbe disagevole, per non dire impossibile. Ma offre Descartes un’effettiva chiara fondazione per un simile quadro concettuale?
Res cogitans e homo integrus
In realtà, l’idea del soggetto finito rivela in Descartes una duplice fondazione. Va ricordato infatti che, stando alle Meditazioni, il quadro sopra rappresentato appare formulabile solo al termine del percorso fondativo cartesiano – perché pensare l’uomo come unio di una mens e di un corpus (e, di qui, delineare una vera e propria antropologia) è possibile solo se è dimostrata l’esistenza reale del mondo dei corpi. Ma tale dimostrazione non compare che nella Meditatio sexta, mentre assai prima di questo passaggio, già nella Meditatio secunda, Descartes assicura la certezza inconcussa del proprio essere, intendendolo come sola res cogitans, ed entro l’ipotesi che «corpus, figura, extensio, motus locusque sunt chimerae» (Descartes 1996, VII, p.24). Dunque, l’emergenza del cogito su qualunque dubbio o inganno, sensibile o intellettivo, stabilisce da subito il primato e l’indipendenza sovrana del soggetto finito, inteso come ego cogitans, rispetto alla possibile formulazione di una nozione completa di homo – cioè di quello homo integrus che la già richiamata risposta ad Arnauld dichiara invece non riducibile alla sola “cosa pensante” (l’uomo non è «soltanto un animo che si serve di un corpo»: Quarte risposte, in Descartes 2009, pp.987-89).
Si deve allora ammettere che nel percorso cartesiano una teoria del soggetto (finito), intesa come concetto dell’io, è precedente e indipendente rispetto a una teoria antropologica in senso proprio. Ma la priorità nell’”ordine delle ragioni” esprime anche un intrinseco primato fondativo del cogito, che risulta infatti svincolato dalla “confusa” idea comune di homo, che Descartes ammette di aver seguito prima di compiere il proprio percorso meditativo (Meditatio secunda, in Descartes 1996,VII, pp.25-26). La situazione è dunque complessa, perché il chiaro primato del cogito non spiega di per sé chi o che cosa sia propriamente da intendersi come il soggetto finito: l’ego cogitans o lo homo integrus?
Comunque qui si risponda, va rilevato che l’autosufficienza concettuale del cogito, sebbene solo epistemica e non anche ontologica, stabilisce comunque anche una irrevocabile centralità ontologica del soggetto-io. Si può dire che se l’ego, proprio in quanto cogitans (mimesi epistemica dell’assoluta causa sui ontologica), garantisce da sé la certezza della propria e di ogni altra esistenza, ciò costituisce il prodromo, se non l’atto di nascita, del soggetto moderno, inteso almeno come egoità libera dai vincoli di qualsiasi “natura umana” precostituita. Esso abbisogna ancora della sola assolutezza o infinità della voluntas, che verrà assicurata per la prima volta nella Meditatio quarta, per farsi “maître de soi même” (Passions de l’âme, III,152, in Descartes 1996, XI, p.445) e quasi “pareil à Dieu”. Allora è veramente Descartes a tracciare, prima ancora di qualsiasi teoria sull’argomento, il perimetro metafisico entro cui resta, consapevolmente o meno, ogni visione moderna dell’homo faber, forza produttrice di sé (del proprio destino) e plasmatrice del mondo.
Ma su ciò torneremo. Notiamo intanto che l’immagine del soggetto umano, scissa dapprima nelle sue due componenti e ricomposta nel suo statuto di unità substantialis, presenta poi una sorta di nuova scissione nella distinzione ineludibile tra “io” e “uomo”. In proposito, vale insistere sul fatto che l’io fondativo di ogni certezza, e non ancora homo, si coglie dapprima solo come atto (indubitabile) di autoriferimento intellettivo e che, per così attingersi, deve liberarsi da ogni contaminazione di contenuti, legati alla sensibilità o ai fantasmi della imaginatio (Meditatio secunda, in Descartes 1996,VII, p.28). Per inciso: sotto questo aspetto, già qui si costituisce un orizzonte per la possibilità di una futura fondazione trascendentale del sapere – ma anche e soprattutto per quell’idea d’intuizione intellettuale che allontanerà il pensiero di Fichte da quello kantiano.
Ma, chiusa questa parentesi, torniamo a chiederci in cosa Descartes si riconosca primariamente in quanto soggetto finito. La Meditatio secunda è perentoria: «sono soltanto una cosa pensante», ovvero «res cogitans, id est, mens, sive animus, sive intellectus, sive ratio» (ivi, p.27). E la fermezza di questo enunciato è costante a partire dal Discours (cfr. Discours, IV, in Descartes 2009, p.61) fino ai Principia:; è perspicuo «che alla nostra natura non appartiene estensione alcuna, né figura […]; ma che le appartiene il solo pensiero».(Principia Philosophiae,I,8, ivi, p.1717) Considerando che l’autoidentificazione con la sola cogitatio è ribadita nella stessa risposta ad Arnauld in cui lo homo integrus è dichiarato invece irriducibile alla sola res cogitans, si deve constatare che Descartes si vuole ad un tempo ego cogitans (o mens) e homo integrus (unio mentis cum corpore) – ma le due espressioni, anziché sinonime, sembrano reciprocamente esclusive.
Dall’ego cogitans all’uomo
Tuttavia, anche questa scissione trova nel pensiero cartesiano una ricomposizione, e per una via logicamente più solida rispetto all’insufficiente chiarificazione della unio substantialis. Infatti, all’inconcussa certezza dell’«ego sum, ego existo» segue immediatamente la domanda su «chi mai sia io, che pure necessariamente sono» (Meditatio secunda,in Descartes 1996,VII, p.25, trad. mia). E qui l’originaria autointellezione, già sostanzializzata in res, viene a riempirsi di una molteplicità di modi che qualificandola, ovvero determinandola, ne limitano l’apparente assolutezza: «Res cogitans. Quid est hoc? Nempe dubitans, intelligens, affirmans, negans, volens, nolens, imaginans quoque, et sentiens» (ivi, p.28).
All’analisi interna la cogitatio rivela dunque una ricchezza di modi che predetermina il successivo svolgimento del pensiero cartesiano. E in particolare, per quanto riguarda la nostra indagine:
Da un canto abbiamo con ciò il modus propriamente intellettivo che, distinguendosi e separandosi dai volitivi (dubitare, affirmare, negare, velle, nolle), consentirà di opporre nel soggetto all’infinità della voluntas (qualitativamente pari a quella divina, come chiarirà la Meditatio quarta) un lato di insuperabile passività/finitezza (non posso produrre io stesso quelle verità, compreso l’inconcusso ego sum, ego existo, che al contrario s’impongono come necessarie al mio intelligere). In questo caso la nuova scissione interna al soggetto finito, quella tra l’intendere e il volere e/o porre (termini sinonimi, quando la volontà è intesa come potente) non sarà mai ricomposta, né dovrà esserlo. Essa vale infatti a mantenere un equilibrio necessario sotto due rispetti: a) traccia una linea di demarcazione chiara e irrefutabile tra la res cogitans finita e quella infinita, o Dio – la cui infinità consiste precisamente nell’unità assoluta dell’intendere e del volere/porre, per la quale Egli, non come noi «mediante delle operazioni in qualche modo distinte», ma «mediante un’unica, sempre identica e semplicissima azione intende, vuole e opera simultaneamente tutto» ( Principia Philosophiae, I, 23, in Descartes 1996,VIII-1, p.14; trad. mia); questo è del resto il principio esplicativo dell’assoluta autocausazione divina (produzione dell’essere immediatamente identica con l’atto del pensarlo), preclusa all’autoriferimento solamente epistemico (autointellezione) costitutivo del cogito; b) consente per la prima volta di pensare in termini rigorosi la costituzione dell’io, atto cogitativo che autooggettivandosi ri-produce se stesso come sintesi di finitezza e infinità – secondo una linea che agirà nel pensiero successivo fino a Hegel, ed oltre. Si tratta in ogni caso di una posizione che tempera le velleità di autoassolutizzazione dell’ego, presentando alla riflessione moderna l’immagine di un soggetto che non può attingere un dominio totale su se stesso, ma neppure si avvia alla propria dissoluzione e anzi conserva la propria centralità nel mondo, assicuratagli dall’intrascendibilità e dal primato dell’autoconsapevolezza soggettiva rispetto ad ogni nozione oggettiva.
D’altro canto, qui Descartes rinviene nel cuore del cogito stesso ovvero dell’io assunto nella sua purezza – indipendentemente cioè dalla reale esistenza di corpi fisici nonché dalla propria stessa intima et arcta unio con uno di essi (il corpo proprio) – quei modi dell’ immaginare e del sentire che costituiscono un vero e proprio rinvio interno della cogitatio all’altro da sé, cioè alla dimensione della extensio. Infatti, quand’anche nessuna cosa immaginata, oppure percepita «tamquam per sensus», esista realmente, tuttavia la vis imaginandi «revera existit, et cogitationis meae partem facit»; così come realmente «ego sum qui sentio» (Meditatio secunda, in Descartes 1996,VII, p.29), perché sentire è cogitare, cioè essere coscienti di sentire: io sento il dolore nella mano trafitta da una lama, e non la mano (reale o immaginaria). E’ da qui che il soggetto inteso come pura mens, ovvero identificato con il solo cogitare, si avvia da se stesso, quindi in modo davvero immanente, a incontrare, fino a identificarvisi, quello homo integrus che appariva difficile da pensare attraverso il malcerto concetto della unio substantialis. E per questo aspetto anche l’opposizione tra “io” e “uomo” può e deve ora essere ricomposta.
Su questo punto cruciale sono però necessari maggiori chiarimenti. Anzitutto, sensibilità e immaginazione non sono per Descartes modalità della voluntas (lato attivo e infinito del soggetto), ma appartengono entrambi alla sfera necessariamente passiva, perché affètta dal proprio oggetto e non produttiva di esso, della «perceptio», (Passions de l’âme, I, XVII, in Descartes 1996, XI, p.342). «Infatti il sentire, l’immaginare e il puro intendere non sono nient’altro che diversi modi di percepire (modi percipiendi)», e percipere è a sua volta «operazione dell’intelletto» come stabiliscono i Principia Philosophiae in I, 32 (Descartes 2009, pp.1733-35). E qui si potrebbe notare come immaginazione e senso (entrambi strutturati formalmente secondo estensione, o meglio figura grandezza, luogo e movimento), in quanto attribuiti alla costituzione universale della mens finita come tale, ovvero alla struttura della res cogitans, anticipano ancora una volta la trascendentalità (il carattere universalmente soggettivo, “puro” e passivo/ricettivo) che sarà propria delle coordinate spazio-temporali nell’estetica trascendentale kantiana.
Ma a parte ciò, immaginazione e sensibilità stabiliscono, accanto all’intendere, un secondo ambito di limitazione del soggetto finito, istituito dal suo stesso interno. E da un lato questo limite, integrato dalla successiva dimostrazione dell’esistenza reale dei corpi materiali (il corpo proprio e quelli esterni), chiuderà il circolo della riflessione metafisica cartesiana passando senza soluzione logica di continuità dalla pura mens o ego cogitans all’uomo integrale, alla “intima e strettissima” unione mens/corpus. D’altro lato, anche l’io-cogito della seconda meditazione, sola mens ancor priva per così dire di corpo, conterrà l’avvertimento di un limite, cioè di un esterno, percepito come mondo fisico. Sicché il soggetto finito, ego cogitans o homo integrus, apparirà comunque come sottoposto alle deterministiche leggi meccaniche, secondo cui quel mondo è pensato, come mostra la passività implicita in impulsi e affezioni che noi potremmo definire psichico-somatici e che Descartes può rubricare come passioni dell’anima. Nello stesso tempo, però, e per le stesse ragioni, la passività rispetto al meccanismo del mondo fisico deve necessariamente, attraverso la mediazione di sensibilità e immaginazione, passare dal corpus alla dimensione irriducibilmente coscienziale della perceptio mentis, ovvero della operatio intellectus, che non deriva dalla extensio e non può perciò essere determinata dalle sue leggi. Ed è proprio tale dimensione a escludere assolutamente, o de iure, la possibile riduzione dell’uomo cartesiano a meccanismo, secondo un modello applicabile invece all’animale: quest’ultimo è infatti inteso da Descartes come macchina proprio e solo perché ente a-coscienziale, ossia privo di animus, sive mens – privo, in termini cartesiani, di quella cogitatio-ego che, come tale, rimane il fundamentum inconcussum, più certo di ogni altra nozione.
Da quanto detto risulta possibile riscontrare affezioni identiche, in quanto derivanti dal corpo (proprio o esterno), nell’uomo e nel bruto: ma nel bruto queste rimarranno passioni del corpo – dotate come tali di immediata efficacia causale (per Descartes, che ignora il modello organico e quello psichico, secondo le sole leggi meccaniche del mondo fisico); mentre nell’uomo, in quanto necessariamente coscienzializzate dalla mens, esse si tradurranno in ciò che definiamo propriamente passioni dell’anima. E quelle passions così prodotte, inerendo necessariamente all’uomo costituito come unio substantialis, dovranno sottostare all’articolazione tra la passività del percipere e l’attività incondizionata del velle, venendo mediate dalla consapevolezza riflessa (perceptio chiara e distinta dell’intelletto) e gestite dall’intervento, reso a questo livello possibile, della voluntas. Verranno pertanto private dell’ efficacia causale immediata.
Per attenersi a un esempio cartesiano (Quartae responsiones, Descartes 1996, VII, p.230), la pecora non può avere propriamente parlando paura del lupo, perché tra visione del predatore e fuga c’è un nesso causale immediato, ovvero una sequenza senza soluzione di continuità che fa dei due eventi, per così dire, un tutt’uno; mentre in senso proprio paura designa un evento coscienziale o sentimento consaputo (“provare paura” è sapere la paura provata e riferirla all’io); e tale consapevole autoascrizione s’inserisce entro l’immediatezza del plesso causa-effetto (o stimolo-risposta, o quel che sia) spezzandone l’unità, e consentendo con ciò l’introduzione in esso della actio voluntatis. E infatti l’umana mens, che a sua volta non può agire per causalità immediata sul corpo (cfr. Passions de l’âme, I, XLI, in Descartes 1996, XI, pp.359-60), può però proporsi di (= pensare di) resistere all’impulso di fuga – cosa semplicemente inimmaginabile per l’animale, macchina appunto perché ente a-coscienziale. A partire da qui, inoltre, la cogitatio può mettere in campo il proprio lato attivo, la voluntas, che elabora le strategie mentali indirette atte a contrastare o assecondare (depotenziare o inibire, oppure incanalare e guidare nella direzione desiderata) la forza impulsiva della passio. E qui occorre notare che tutto ciò, mentre evidenzia una libertà possibile dell’uomo integrus, o unità mens/corpus, a dispetto della propria finitezza e rispetto al determinismo fisico, presuppone e manifesta anche l’infinita potenza di autodeterminazione costituente la voluntas, come tale – un altro pilastro della metafisica cartesiana.
Voluntas/libertas: antropo-teocentrismo
Quest’ultimo punto esige che sia chiarita la costituzione della volontà, sinonimo per Descartes di libertas arbitrii – non intesa, a sua volta, come mera libertas indifferentiae, bensì come autodeterminazione, cioè produzione di una actio da parte della volontà, che nell’affermare o negare, perseguire o fuggire un qualsiasi oggetto, si riconosce non determinata da alcuna forza esterna a se stessa (Meditatio quarta, Descartes 1996,VII, p.57). Quello di autodeterminazione, così delineato, non è, come evidenziano altre sue formulazioni, concetto semplicemente negativo: scrivendo a Mesland, Descartes concorda che la libertà non consiste «dans l’indifférence précisément, mais dans une puissance réelle et positive de se determiner» (2 maggio 1644, ivi, IV, p.116); e l’idea d’indifferenza è valida solo se con essa «intelligitur positiva facultas se determinandi» (a Mesland, 9 febbraio 1645, ivi, IV, p.173). Un punto cruciale, perché l’idea di una volontà iniziante da se stessa la propria actio è ciò che spiega, nella Meditatio quarta, l’audace ma consequenziale attribuzione di assolutezza o infinità alla volontà umana: la voluntas divina eccede la mia per la potenza conferitale dall’unità con l’intelletto, che le consente di estendersi efficacemente a qualsiasi oggetto (= di tutto conoscere, e tutto produrre con il pensarlo stesso); ma, «considerata in sé, formalmente e precisamente, non appare maggiore» (ivi, VII, p.57). Ed è chiaro: l’autodeterminazione, o autocominciamento della actio voluntatis, è assolutamente tale o non è.
Ne segue però che, essendo la volontà/libertà dell’uomo formaliter infinita, ovvero ab-soluta, si determina qui una nuova duplicazione che sembra fare del soggetto finito (per questo aspetto) il cardine di se stesso, perfino in possibile opposizione a Dio e al suo volere. Ancora una volta il soggetto cartesiano mostra, metafisicamente, un volto antropocentrico ed uno teocentrico. Da un lato, l’infinità del volere implicherà una valorizzazione dell’esercizio della actio libertatis come tale, indipendentemente da ogni tèlos ulteriore, perché dalla sua assolutezza sembra seguire un’autosufficienza anche assiologica. Poiché però, al contempo, l’unico possibile oggetto della volontà è quello propostole da un intelletto finito, che pur entro i propri limiti le indica un vero e un bene da perseguire come tali, la libertà stessa vorrà autodeterminarsi a ciò che supera e trascende la finitezza dell’uomo quale unio mes/corpus. Per questo aspetto, la volontà assume una modestia che sembra antiilluministica e a tratti perfino antiumanistica, subordinandosi ad alcune «verità» fondamentali (a Elisabetta, 15 settembre 1645, ivi, IV, pp.290-96): l’accettazione di quanto procede dalla volontà divina ed eccede i nostri poteri; il distacco affettivo da quanto, nel mondo, è in potere della “fortuna”; e, soprattutto, il valore relativo della nostra vita terrena rispetto all’immensità dell’universo e dei consigli divini che lo guidano (ibidem). D’altra parte un volere di per sé assoluto, così “orientato”, genera la virtù, che è causa di “felicità” (Passions de l’âme , III, 148; ivi, XI, p. 442) conseguente alla stima di se stessi (III, 152, ivi, p.445) – ovvero, al fatto di «connaître sa perfection» (ivi, p. 442). Il che sembra concedere di nuovo all’uomo dignità di valore finale.
Ancora un quadro bifronte, dunque, cui però Descartes conferisce nuovamente un esito unitario. Interrogato da Cristina di Svezia sul problema morale per eccellenza, quello del “sommo bene”, egli risponde anzitutto (20 novembre 1647, ivi, V, pp.81-86): in se stesso, «è evidente che Dio è il Sommo Bene» (Descartes 2005, p.2485) in ragione della sua perfezione. Ma possiamo anche riferire il concetto a noi stessi, intendendolo come realizzazione della nostra natura o essenza, ovvero considerando come bene «ciò che ci appartiene in qualche modo ed è tale che l’averlo costituisce per noi una perfezione» (ibidem). Vi è dunque del bene supremo un concetto assoluto ed uno relativo alla natura del soggetto umano; e nel secondo caso, ci dicono le Passions de l’âme, III, 152, si tratta dell’«uso del libero arbitrio e del dominio che abbiamo sulle nostre volontà» (Descartes 2009, p.2475). Perché questo, come conferma la lettera a Cristina appena citata, «oltre ad essere di per sé la cosa più nobile che possa esserci in noi, in quanto ci rende in qualche modo pari a Dio et semble nous exempter de lui être sujets […] il est aussi celui qui est le plus proprement nôtre et qui nous importe le plus» (Descartes 2005, pp.2486-2487). Sembra dunque che, grazie all’assolutezza della actio volitiva, il supremo bene “relativo” reduplichi quello assoluto, potendo addirittura divergere da esso – proprio questa possibilità è infatti la caratteristica della libertà umana, voluta del resto da Dio stesso e in virtù della quale, come recitava la lettera a Mesland del 9 febbraio 1645, possiamo sempre respingere un bene chiaramente conosciuto o una verità evidente, «purché soltanto pensiamo come un bene che con ciò sia attestata la libertà del nostro arbitrio» (Descartes 1996, IV, p.173; trad. mia). Dunque l’esercizio del libero arbitrio costituisce un bene anche nel possibile rifiuto del bene/vero istituito da Dio, perché attesta a sua volta il valore di un’assolutezza. Come comporre questa nuova scissione, che prefigura una dualità, se non un’antitesi, tra teocentrismo e umanesimo?
Anche qui, Descartes tiene presente la natura finita/infinita della soggettività, autodeterminantesi e quindi ab-soluta nella sfera pratica, e tuttavia posta come tale perché ontologicamente dipendente (= creata, non autoponentesi). Il contrassegno di ciò è proprio la scissione tra volontà infinita e intelletto finito, implicante anche che ogni atto dell’arbitrio respingente il bene ed il vero chiaramente intesi, mentre si afferma con ciò come incondizionato o infinito, allarga al contempo la divaricazione tra sé e l’intelletto – riconfermando l’insuperabilità della nostra condizione di finitezza. In altre parole: la volontà umana, formaliter infinita e perciò assoluta, non può però porre con il proprio atto anche una propria verità, né darsi i propri valori. Solo la riduzione della divaricazione tra volontà e intelletto guida perciò il soggetto finito, almeno intenzionalmente, in direzione di quella perfezione avente come espressione assoluta l’unità della res cogitans infinita. Così, se è sommo bene “relativo” l’esercizio di libero arbitrio come tale, questo bene si potenzia però, fino alla propria pienezza, conformandosi a quello assoluto nel seguire, anziché fuggire, ciò che l’intelletto indica (per quanto può conoscerne) come il bene/vero da Dio istituito: il valore dell’uso del libero arbitrio confluisce così in quello, superiore, del buon uso di esso: «son bon usage est le plus grand de tous nos biens» (a Cristina, 20.11.1647, ivi, V, p.85). E questo buon uso è appunto la ferma e costante volontà del bene, ossia di «far sempre il proprio meglio, tanto per conoscere il bene che per acquisirlo» (ibidem, trad. mia).
E’ così che Descartes, ricomponendo il duplice piano del “souverain bien”, dà fondata ragione della necessità di ritrovare una convergenza tra i due concetti (umanistico e teocentrico) di bene. E ciò impone di nuovo una contestualizzazione dell'infinita potenza della voluntas/libertas umana – che si tradurrebbe altrimenti, sul piano fenomenologico, in valorizzazione incondizionata dell’auto-assolutizzazione umana, e con ciò anche di una virtualmente illimitata progettualità intramondana.
A questo punto ben si vede come l’immagine cartesiana dell’uomo, generata dalla sottile e continuamente riemergente dialettica di unità e scissioni, propone un equilibrio affatto nuovo tra i limiti riconosciuti di una “natura umana” data (= posta come homo) e l’urgenza tipicamente moderna di un autocentrismo emancipativo tutto fondato sulla dimensione autocoscienziale, o egoica, propria ed esclusiva della soggettività (sia pure finita).
Riferimenti bibliografici
Descartes, René (1996) Oeuvres de Descartes, publiées par Ch. Adam et P. Tannery, XI voll., librairie philosophique J.Vrin,, Paris;
(2005) René Descartes, Tutte le lettere 1619-1650, a cura di G. Belgioioso, Bompiani, Milano;
(2009) René Descartes, Opere 1637-1649, a cura di G. Belgioioso, Bompiani, Milano.