cosmopolis rivista di filosofia e politica
Cosmopolis menu cosmopolis rivista di filosofia e teoria politica

Editoriale

Informazione e potere. Quali rischi per la democrazia?

La libertà della penna
– tenuta nei limiti del rispetto
e dell’amore per la costituzione sotto la quale si vive
dai sentimenti liberali che ispirano i sudditi […] –
è l’unico palladio dei diritti del popolo»
(I. Kant)

Come è noto, nello scritto Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? Kant rilevava che «il pubblico uso della propria ragione» – inteso come «l’uso che uno ne fa come studioso davanti all’intero pubblico dei lettori» – «deve essere libero in ogni tempo» poiché soltanto per mezzo di esso diviene possibile «attuare l’illuminismo fra gli uomini», cioè consentire l’uscita da «quello stato di minorità» che risiede nell’«incapacità di valersi del proprio intelletto». In tal modo, ciò che sarebbe difficilmente perseguibile «per ogni singolo uomo» diviene non soltanto accessibile per il pubblico ma, in condizioni di libertà, addirittura «inevitabile». L’uso pubblico della ragione si traduce anche nella possibilità di «esporre pubblicamente […] le idee sopra una migliore costituzione, criticando liberamente quella esistente». Il discorso kantiano si configura di certo quale momento determinante ai fini della posizione del nesso fra opinione pubblica e visibilità del potere; la «forma della pubblicità», espressa nella formula trascendentale del diritto pubblico e contenuta nella seconda Appendice alla Pace perpetua, considera infatti «ingiuste» tutte quelle «azioni relative al diritto di altri uomini la cui massima non è conciliabile con la pubblicità».
L’ideale della trasparenza e della visibilità del potere costituisce un elemento fondante per le società democratiche contemporanee. Uno degli assunti fondamentali dei regimi democratici infatti è l’idea che vi sia la possibilità da parte dei governati di esercitare una funzione di controllo sui governanti, il che – come è ovvio – presuppone che il potere si renda visibile. In questo senso, risulta esemplare la definizione di Norberto Bobbio della democrazia come «governo del potere pubblico in pubblico» nel duplice – e non sovrapponibile – significato di ciò che è «appartenente alla “cosa pubblica”» e, allo stesso tempo, appare come «“manifesto”, “palese”, per l’appunto “visibile”».
Strettamente correlato a questo ideale, nelle società democratiche contemporanee, vi è la convinzione che i mezzi di informazione debbano svolgere la loro funzione in condizioni di trasparenza, e quindi di indipendenza dal potere politico, dato il ruolo essenziale che essi sono chiamati a svolgere nel fornire quelle informazioni senza le quali l’opinione pubblica non potrebbe esercitare un effettivo controllo dei processi politici. Sotto questo profilo, la libertà di stampa e di informazione – che pur appare quale fine avente valore intrinseco, e quindi autonomo, rispetto ai limiti di qualsiasi visione meramente strumentalista o funzionalista – troverebbe, in ogni caso, anche una difesa funzionale in quanto mezzo indispensabile per consentire il corretto e vitale articolarsi di un sistema politico libero: una democrazia in cui la libertà di opinione non fosse intesa quale conditio sine qua non della propria esistenza infatti finirebbe per mettere seriamente in discussione se stessa. Se la democrazia costituisce quell’insieme di condizioni, non soltanto giuridiche, per la tutela e il corretto funzionamento delle quali la libera formazione dell’opinione pubblica costituisce un dato cruciale, l’importanza dell’autonomia dei flussi informativi dovrebbe apparire comprovata dalla necessità di verificare che le opinioni presenti nel pubblico riflettano anche le opinioni del pubblico.
In un regime democratico quindi l’opinione pubblica è chiamata a svolgere una imprescindibile funzione di controllo ma ciò non esclude, in via di principio, che il potere non tenti a sua volta di esercitare su di essa un’influenza al fine di costruire ed organizzare un consenso che risulti funzionale al proprio mantenimento ed esercizio. Operando un confronto fra l’ideale e la realtà, emerge in tal modo che neppure un regime politico saldamente legato all’idea della visibilità del potere quale quello democratico è in grado di prescindere completamente da forme ideologiche o di occultamento; in altri termini, affiora la consapevolezza che la pubblicità del potere non costituisce di per sé un elemento sufficiente a garantire lo svolgersi di un autonomo processo di formazione dell’opinione pubblica.
Ma cosa accade se l’informazione non è più in grado di svolgere il proprio ruolo? E quali conseguenze ne derivano sul piano del mantenimento in vita delle istituzioni democratiche? Credo si potrebbe affermare che è proprio su questo scacchiere che si gioca la partita decisiva. Per difendere loro stesse da ogni tentativo di operarne una sostanziale neutralizzazione, le democrazie contemporanee sono infatti chiamate a far fronte alla necessità di smascherare le strategie di occultamento messe in atto dal potere.
Il tema della necessità di una difesa dell’autonomia e della libertà di informazione – perfino in quelle società che, almeno formalmente, parrebbero poggiare su tali presupposti – coinvolge anche la situazione del nostro paese. Dall'ultimo dei rapporti sulla libertà di stampa nel mondo, pubblicati annualmente da Reporters sans frontières, si evince che nella classifica dei 169 paesi esaminati l’Italia occupa la 35a posizione. Nonostante la crescita rispetto alla graduatoria stilata nel 2006 che vedeva l’Italia al 40° posto, non si tratta di certo di un dato particolarmente incoraggiante. Inoltre, la difficoltà della situazione del nostro paese appare decisamente più evidente se si getta un rapido sguardo ai dati che emergono da altri rapporti internazionali quali le relazioni annuali della Freedom House sulla libertà di stampa e di informazione. È solo nel 2007 infatti che l’Italia riesce a rientrare, dopo ben tre anni di assenza, nel novero delle nazioni che possono godere di un’informazione libera, uscendo dall’elenco dei paesi considerati parzialmente liberi («partly free») in cui era scivolata – unico fra tutti gli Stati membri dell’Unione europea se si eccettuano Romania e Bulgaria che faranno il loro ingresso nell’Unione soltanto il 1° gennaio 2007. Le ragioni di tale preoccupante valutazione trovavano la propria origine nel problema delle concentrazioni mediatiche. Il rapporto del 2006 infatti metteva in evidenza come, nonostante le libertà di parola e di stampa fossero formalmente garantite dalla Costituzione, la reale autonomia dei mezzi di informazione fosse limitata, di fatto, da una concentrazione del potere dei media incompatibile con la possibilità di un pluralismo informativo.
Il dibattito sulla libertà di informazione – e, conseguentemente, sullo “stato di salute” della professione giornalistica – va ben oltre la portata degli avvenimenti del nostro recente passato poiché induce ad una riflessione più generale e più estesa sui pericoli che ne derivano per la stessa sopravvivenza di una democrazia in cui l’informazione appare stretta, come già in precedenza si ricordava, fra pressioni del potere volte a determinare, per suo tramite, una formazione/manipolazione del consenso da un lato e la sua aspirazione ideale ad una crescente autonomia e qualità dall’altro. Si tratta di una specifica e particolare declinazione all’interno del più ampio discorso sul rapporto fra poteri e saperi a cui Cosmopolis dedica, in questo numero, la sezione di apertura analizzando le nuove forme di sapere e di potere che si originano e sviluppano in risposta alle sollecitazioni poste dalla crescita dell’interdipendenza e, più in generale, dai cambiamenti in atto osservabili su scala globale.
Tornando al tema della libertà di informazione e guardando il problema da una diversa angolazione però, emerge non solo la pressione del potere sugli organi di informazione, ma anche la difficoltà, se non l’incapacità, del sistema mediatico di continuare a svolgere il proprio ruolo in quella che, paradossalmente, viene definita proprio l’era della comunicazione globale. Oltre ai fiumi di inchiostro versati per criticare l’attuale tendenza all’eccessiva semplificazione dei temi affrontati, l’inclinazione alla spettacolarizzazione non solo della politica (con l’evidente impoverimento del dibattito che ne consegue) ma della stessa guerra, la compressione degli spazi di approfondimento che deriva dallo stesso processo di “mediatizzazione della politica” denunciato da più parti, si evidenzia una crisi più generale della professione giornalistica che ha indotto recentemente a parlare di «post giornalismo».
Notizie manipolate fin dalla loro origine, evidenziate o sepolte a seconda del loro contenuto e della loro utilità, fatte sparire improvvisamente dai canali informativi o riproposte incessantemente anche se poggiate su fondamenta fragili, se non quasi inconsistenti. Come non ricordare, a così poca distanza dalla sua scomparsa, l’appello di Enzo Biagi a rimanere ancorati ai fatti, alla loro «logica ineluttabile», senza omissioni, nella piena consapevolezza della inevitabile parzialità di qualsiasi resoconto, ma anche della funzione di mediatore che il giornalista è chiamato a svolgere; una funzione che deve essere guidata dall’ideale regolativo della verità, il solo in grado di preservare da qualunque tendenza alla faziosità. Si pensi, ad esempio, alla discussa nozione di «giornalista embedded», con la quale vengono indicati i cronisti al seguito delle truppe ufficiali: in qualche modo ad esse “incorporati”. Se tale fenomeno rende indubbiamente ragione della difficoltà di raggiungere i teatri di guerra più lontani e testimonia, allo stesso tempo, la coraggiosa volontà di raccontare ciò che rimarrebbe inevitabilmente sottratto allo sguardo del pubblico, pare difficile non rilevare come la protezione che in questo modo viene accordata al giornalista non finisca per implicare una distorsione, più o meno consapevole, più o meno intenzionale, del resoconto operato. Il rapporto problematico fra verità, conoscenza e potere è ovviamente al centro anche dei contributi ospitati in questo numero di Cosmopolis nella consapevolezza della difficoltà intrinseca ad ogni tentativo di separare verità e conoscenza da un certo grado di coinvolgimento in rapporti di forza non soltanto per la tendenza del potere ad utilizzare strumentalmente il sapere, quanto piuttosto – e ben più radicalmente – per la costitutiva implicazione di quest’ultimo all’interno di relazioni di potere.
La difficoltà attraversata dal sistema mediatico in atto nelle società occidentali comunque suona paradossale proprio perché ha luogo nell’era in cui il flusso informativo non soltanto conosce un’espansione senza precedenti, ma si configura anche quale bene facilmente accessibile per una parte sempre più consistente dell’opinione pubblica. Questo sollecita una serie di ulteriori riflessioni a margine del problema alle quali, in questa sede, è possibile naturalmente soltanto accennare. Una prima, ormai quasi ovvia, constatazione consente di rilevare come l’aumento delle informazioni non sia in grado di assicurare, di per sé, una effettiva conoscenza delle questioni di pubblico interesse né, tanto meno, una accresciuta competenza su di esse, poiché l’incremento sul piano quantitativo può non essere accompagnato – e spesso non lo è – da una pari crescita sotto il profilo qualitativo. Inoltre, in un contesto saturo di informazioni, può venir meno ogni incentivo ad andare alla ricerca di altre fonti o di altri spazi e luoghi di ulteriore approfondimento critico. Se paragoniamo il reperimento di notizie ad una qualsiasi attività che comporta un dispendio di energie e risorse – inevitabilmente sottratte ad altre possibili attività alternative – è evidente che parte dell’opinione pubblica può decidere, per non impiegare risorse aggiuntive, di limitarsi a scegliere all’interno dell’offerta informativa già data e più facilmente accessibile, al pari di qualsiasi altro consumatore. In aggiunta, pare osservabile una sostanziale rassegnazione all’idea che l’informazione sia in qualche modo viziata da interferenze e da forme variamente manipolatorie esercitate dal potere o da gruppi di pressione: in tal caso però, la libertà dell’opinione pubblica finirebbe per risolversi in una mera facoltà di scelta fra notizie alternative, optando per quelle che si ritengono maggiormente attendibili o, peggio, per quelle che provengono da fonti che si attestano su posizioni teoriche o ideologiche più affini alle proprie.
Nello scenario attuale appare indispensabile tornare ad interrogarsi sulla qualità delle informazioni di cui si dispone così come sull’importanza di operare una selezione al loro interno. È proprio nel momento in cui la funzione specifica del giornalista professionista sembrerebbe non essere più avvertita, data la grande accessibilità all’informazione, che il suo contributo si rende in realtà più urgente. Un Occidente che vuole presentarsi come il luogo in cui democrazia e libertà hanno storicamente trovato la loro più significativa attuazione non può infatti permettersi di dimenticare quella differenza fra libera informazione e mera propaganda senza la quale si rischia di non poter più distinguere neppure tra democrazia e ciò che non può dirsi tale.

Brenda Biagiotti


IN QUESTO NUMERO

Il quarto numero di Cosmopolis si apre con una sezione dedicata ad un problema centrale nella nostra epoca scientifico-tecnologica: il rapporto tra sapere e potere. Marcello Cini, affrontando il tema dello statuto dei nuovi saperi, si chiede quale significato abbia oggi, nell’era della globalizzazione, la parola “sapere”. Distinguendo tra una globalizzazione dall’alto e una globalizzazione dal basso nel campo del sapere, Cini si propone di spiegare come sia realizzabile questo secondo tipo di cultura. Luigi Alfieri, invece, interpreta il problema del nuovo statuto del sapere da un altro punto di vista, cioè dalla prospettiva del rapporto con la guerra. La scienza ha avuto sempre un ruolo di primo piano nella ricerca e nella produzione di nuove armi e su questo riflette anche l’articolo di Vito Francesco Polcaro: in Oriente come in Occidente la storia della scienza dimostra come anche personalità note per il loro spessore morale abbiano comunque contribuito, magari per la difesa della propria patria, alla ricerca finalizzata al progresso degli armamenti. Gli intellettuali hanno sempre avuto un ruolo fondamentale all’interno del sistema di potere, su questo riflette anche Angelo d’Orsi. Questa prima sezione ha tuttavia come punto di riferimento tematico quello della globalizzazione e del suo rapporto con le nuove forme non solo del sapere ma anche del potere. Fabio Merlini riflette appunto sui media e sul futuro della società globalizzata della comunicazione, cercando di delineare alcuni tratti assunti dalla cultura in questo panorama e chiedendosi se sia possibile sottrarsi al funzionalismo oggi dominante. Dell’inarrestabile crescita della varietà del mondo in cui viviamo tratta il saggio di Enzo Rullani, il quale si domanda che cosa faccia oggi la scienza per controllare e guidare tale aumento di complessità. Maria Chiara Pievatolo si interroga, invece, sul rapporto ancora oggi problematico tra pubblico e privato nel campo del sapere, tema questo reso ancora più urgente dalla possibilità di una diffusione universale e in tempo reale delle informazioni. Giovanni Pizza ci parla poi della delicata questione del “non dire e non sapere” nel campo della medicina quando di mezzo c’è la nostra salute oppure il dovere morale di comunicare una malattia grave a qualcuno che ci sta vicino. Infine abbiamo un’intervista a Naomi Zack, a cura di Massimo Gelardi, sul rapporto tra forme di conoscenza e discriminazione razziale.
La seconda sezione è dedicata al rapporto tra forme del sapere e modelli di università. In apertura, una tavola rotonda sullo stato attuale e sulle prospettive future dell’università italiana, che vede la partecipazione di Claudio Gentili, Carlo Cirotto, Andrea Lenzi e Luciano Modica. Andrea Cammelli analizza, invece, il rapporto AlmaLaurea nell’intento di comprendere obiettivi e implicazioni della riforma universitaria nata nel contesto della rifondazione europea del sistema didattico. Luca Raffini e Luca Alteri tentano poi di dare un loro bilancio sul progetto Erasmus, negli ultimi anni divenuto un’esperienza così diffusa da raggiungere la quota di 1.500.000 partecipanti. Maria de Lourdes Alves Borges si sofferma sulle “sfide” a cui è chiamata l’università brasiliana, che negli ultimi cinque anni, grazie soprattutto ai cambiamenti politici, ha subito significative trasformazioni soprattutto per quanto riguarda l’accessibilità di questa da parte della popolazione a basso reddito. La sezione ospita poi due interviste a Henry Giroux e Philip G. Altbach sulle finalità formative e civili dell’università, con particolare riguardo alla situazione statunitense, mentre Laura De Giorgi si sofferma sulle grandi trasformazioni che in questo momento investono l’università in Cina. Yadollah Mehralizadeh, in un’intervista a cura di Elahe Zomorodi, offre un accurato quadro relativo alla storia e all’attuale organizzazione del sistema universitario iraniano. Infine, Rawdha Razgallah riflette sulla necessaria correlazione tra apertura globale e radicamento territoriale della ricerca e dell’insegnamento universitari.
Utopia e distopia tecno-scientifica è il titolo della terza sezione. Galliano Crinella ripensa le utopie dell’età moderna, analizzando la nascita del concetto di utopia proprio nella modernità, legandolo alla trasformazione che in quest’epoca avviene dell’uomo contemplativo in homo faber: il sapere non cessa di essere legato al potere dell’uomo, cambia semplicemente forma e diviene finalizzato all’azione. Laura Tundo Ferente dedica un saggio alla razionalità dell’utopia e al rapporto di tale razionalità con l’agire scientifico-tecnologico. In questo contesto l’utopia indica il progetto di un’ideale di giustizia sulla base del quale agire, ma che deve fare anche i conti con le nuove scoperte scientifiche e tecnologiche. Segue un saggio di Jon Turney sul sogno dell’“immortalità” correlato ai progressi delle scienze della vita. Chiude la sezione un dialogo, curato da Andrea Fioravanti e Alessandro Poli, con Terry Gilliam.
L’ultima sezione Fra le righe presenta, infine, una riflessione di Valter Coralluzzo, sulla connessione tra globalizzazione e frammentazione del sapere, un articolo di Stella Carnevali sulla riproducibilità e diffusione delle opere d’arte ed, infine, un saggio di Marco Milella che affronta il tema dello stretto legame che unisce formazione e sofferenza, evidenziando la necessità di trattare in modo diverso tale rapporto, e cioè da una prospettiva pedagogica che formi all’interdipendenza.

Chiara Nucci
torna su