L'effetto delle narrazioni
Sul finire degli anni Settanta, una ricerca stabilì che i forti «consumatori» di televisione, invitati a considerare l'eventualità di trovarsi coinvolti come vittime in atti criminali nel proprio quartiere, le attribuivano una probabilità significativamente più alta rispetto a quella stimata da chi dichiarava di guardare poco la televisione e di non affidarsi ad essa come unico mezzo d'informazione. La probabilità stimata dai telespettatori abituali appariva inoltre sproporzionata rispetto all'effettiva frequenza degli episodi criminali rilevati nei rispettivi quartieri di riferimento[1], cosicché la ricerca arrivò a distinguere la «risposta televisiva» (television answer) dalla «scelta realistica» (reality choice).
L'ipotesi da saggiare consisteva nel ritenere che le credenze e le aspettative possano essere «coltivate» dalla televisione. DeFleur e Ball-Rokeach[2] osservano che la ricerca – concepita per evidenziare un «differenziale di coltivazione» tra cittadini esposti in misura differente al più influente tra i mass media – era esposta ad alcuni limiti metodologici, inerenti anzitutto all'uso della tecnica del sondaggio. Nonostante ciò, la ricerca segnala una circostanza su cui il dibattito è tuttora aperto: benché, infatti, sia ormai convinzione diffusa che i fruitori dei mass media non possano essere concepiti come bersagli sostanzialmente passivi dell'inoculazione di credenze da parte di professionisti della manipolazione, recenti ricerche ribadiscono il fatto che le emozioni e le narrazioni prevalenti incidono sulla formazione delle credenze, del consenso e delle scelte politiche. In altri termini: le narrazioni e persino le semplici combinazioni di parole, circolanti di bocca in bocca come slogan o sound bites", influiscono sul modo in cui si interpretano vicende e personaggi, veicolando frame e suggerendo rilevanze. Chi riesce a diffondere narrazioni e ad imporre frame – facendoli talvolta adottare, in modo inconsapevole, anche agli avversari – si garantirebbe perciò una sorta di vantaggio competitivo nella ricerca del consenso politico.
Manuel Castells, in un saggio dedicato al potere della comunicazione, cita studi che evidenziano «il ruolo degli appelli all'emotività presenti nelle campagne politiche» e le scoperte della neuroscienza e della psicologia cognitiva, che avrebbero dimostrato una stretta connessione tra emotività e pensiero finalizzato alla formazione della decisione politica[3]. Gli studi di Brader, in particolare, passando in rassegna centinaia di messaggi di pubblicità elettorale, hanno documentato la massiccia presenza di contenuti emozionali, individuando come frame prevalenti quelli associati alla paura e all'entusiasmo, le due tonalità emotive su cui, anche secondo altri studiosi, si gioca l'intreccio tra intelligenza affettiva e giudizio politico. Alcune ricerche documentano come i messaggi che suscitano entusiasmo siano particolarmente efficaci nel mobilitare e nel polarizzare le scelte, mentre i contenuti ed i toni orientati a suscitare paura o ansia contribuiscono a smobilitare i potenziali elettori degli avversari dell'emittente che, in generale, tenderà ad associare in modo più o meno diretto o allusivo gli eventi e le situazioni che suscitano paura con le scelte, o le omissioni, caratteristiche dei propri avversari[4].
Un altro aspetto interessante riguarda la resistenza delle narrazioni: qualora vengano escogitate dosando pregiudizi e aspettative diffuse, affinché appaiano verosimili, esse possono durare e continuare ad essere credute, e perciò influenti, nonostante le smentite. Non è solo questione di ignoranza, dunque, se può accadere quanto documentato da Bruce Ackerman e James Fishkin[5], ossia che poco prima delle elezioni del 2004 la metà degli Americani continuasse a credere che tra i dirottatori dell'11 settembre ci fossero degli Iracheni. Anche la narrazione circa il possesso di armi di distruzione di massa da parte di Saddam Hussein continua ad essere largamente creduta, nonostante le smentite e la pubblicizzazione delle relative inchieste: ciò fa ritenere, come sintetizza Castells, che «la gente tende a credere ciò che vuole credere»[6].
In tale dinamica, le narrazioni che veicolano paura possono svolgere un ruolo cruciale poiché spesso poggiano sui pregiudizi e li rinforzano, legittimando particolari frame (come quello che associa «sicurezza» a «misure di polizia»).
Secondo George Lakoff, che a questo proposito riprende le ipotesi di Antonio Damasio sui marcatori somatici, parole e narrazioni veicolano frames, generano associazioni e comportamenti, fissano credenze e preferenze[7]. Le principali posizioni democratiche e repubblicane, ad esempio, sarebbero tenute insieme da frames e grandi metafore contrapposte, come quella che vede nel Presidente degli Stati Uniti un padre severo e intransigente (versione repubblicana), o benevolo e premuroso (versione democratica). Tali «strutture drammatiche», ed altre analoghe attraverso cui interpretiamo inconsciamente il mondo, sarebbero radicate nell'attività del cervello: riprese e declinate di volta in volta in relazione ai personaggi, ai partiti e ai programmi in competizione per il consenso politico, esse presiederebbero alla costruzione di frames emotivamente coinvolgenti e persuasivi, inserendosi in una rete cerebrale che coinvolge il sistema limbico, «la parte più antica del cervello in termini di evoluzione», in cui si trovano due «percorsi emozionali con due differenti neurotrasmettitori», il circuito della dopamina e quello della norepinefrina, collegati rispettivamente alle sensazioni di felicità e soddisfazione e a quelle di paura, rabbia ed ansia[8].
Purtroppo nel suo saggio Lakoff liquida sbrigativamente la storia della filosofia, sostenendo che le scienze della mente contemporanee aprono scenari impensati a filosofi della politica come Platone, Aristotele, Hobbes, Marx e tanti altri[9]: il che, per certi versi, è un truismo, che tuttavia induce a trascurare il fatto che proprio quei filosofi hanno dato contributi non sottovalutabili al discorso che lo stesso Lakoff intende proporre, sul rapporto tra la corporeità ed una psiche composita, tra giudizio ed emozioni, tra verosimiglianza e persuasione.
Immaginazione e paura in Hobbes: un contributo dalla filosofia politica
La prima parte del Leviatano (1651) di Thomas Hobbes è dedicata all'uomo: di fatto, il filosofo antepone alla trattazione dei temi politici un'analisi della struttura e della fenomenologia corporea e psichica dell'essere umano, riferendosi a quanto poteva ricavare dalla scienza e dell'epistemologia del suo tempo.
Secondo Hobbes, l'«immaginazione è la prima origine interna di ogni movimento volontario»[10]: egli distingue più precisamente il conato, che designa quei «piccoli inizi di movimento all'interno del corpo umano», anteriori ad ogni manifestazione visibile, e la manifestazione attraverso cui il movimento reagisce alla propria causa, come appetito o avversione. La paura (fear), nel sesto capitolo della prima parte, è definita come avversione, «unita alla convinzione di un danno arrecato dall'oggetto»[11].
Nel terzo capitolo Hobbes aveva introdotto la distinzione tra «serie di immaginazioni» non guidate e serie guidate o regolate, come nel caso della rimembranza, della previsione, della congettura, del calcolo prudenziale. La paura può essere interpretata come «"passione universale" calcolatrice», distinta dal timore e dal terrore[12], capace di esercitare un ruolo orientante nelle serie di immaginazioni, che a loro volta si traducono in azioni e scelte. Passione ambigua, la paura, poiché interviene tanto nel perseguimento della pace quanto nella genesi della guerra, basandosi sull'immaginazione semplice, legata ad una qualche percezione, o sull'immaginazione composta, che può riguardare figure o entità non realmente percepite né esistenti, come il centauro.
Quello dell'immaginazione composta è un livello cruciale: le immagini a cui ci si riferisce sono fittizie, possono essere costruite ad arte, artificiosamente, combinando immagini collegate o scollegate da ciò che effettivamente è stato o può essere percepito. Attorno alle figure inesistenti così prodotte si possono svolgere solide serie di immaginazioni, intessere narrazioni, coltivare credenze. Secondo Hobbes, fu proprio l'«incapacità a distinguere i sogni e altre fantasie vivaci dalla visione e dalla sensazione» che diede origine alla maggior parte delle religioni dei Gentili. Guardando alla sua epoca, egli individuava la persistenza di quell'incapacità di distinzione, alla base dell'«opinione che le persone incolte hanno delle fate, degli spettri, degli gnomi e del potere delle streghe»[13].
Venendo al nesso tra serie di immaginazioni, paura e consenso, è cruciale il capitolo undicesimo su La differenza dei «costumi». Qui Hobbes sostiene anzitutto che gli uomini si dispongono «all'obbedienza nei confronti di un potere comune» tanto per il «desiderio di agi e di piaceri sensuali» quanto per «il timore della morte e delle ferite»[14]. Il filosofo inglese si sofferma sul ruolo della paura in relazione all'esercizio della sovranità, distinguendo quella per institutionem da quella per acquisitionem: la differenza tra i due casi riguarda l'orientamento della paura dei sudditi, poiché, come si legge nel capitolo XXVI del Leviatano, «gli uomini che scelgono il loro sovrano lo fanno per paura l'uno dell'altro e non di colui che istituiscono; mentre in questo caso [cioè nel caso del dominio dispotico per acquisitionem] si sottomettono a colui di cui hanno timore». La paura, in entrambi i casi, concorre alla genesi e al mantenimento dell'obbligazione all'obbedienza, come Hobbes precisa criticando la posizione di chi ritiene nulli i patti a cui si arrivi per paura di morte o di violenza.
Il riferimento al legame tra paura o desiderio ed obbedienza consente però di fare un discorso più generale e di distinguere, ad esempio, tra la paura nello stato di natura, prima di una qualunque sovranità, e la paura persistente nella società e nello Stato[15]. Si tratta allora di precisare che il secondo tipo di paura può essere strategicamente indotto, poiché essa è rivolta non tanto a cose già accadute, quanto a cose che potrebbero accadere, che si immagina possano accadere. Con ciò torniamo alla ricerca citata in apertura: le narrazioni e le immaginazioni «composte» a cui si è esposti si intrecciano in serie di immaginazioni, ed è rispetto a tali serie che il desiderio e la paura si manifestano, esprimendosi in azioni, in scelte, in propensioni all'obbedienza.
Consumo della paura e «populismo penale»
In un saggio sulla propaganda, Pratkanis ed Aronson[16] citano alcuni studi che evidenziano come la paura possa influenzare i consumi su più livelli, dal mercato dei prodotti sanitari a quello delle assicurazioni, e mostrano di condividere gli esiti di una ricerca di Dariusz Dolinski e Richard Nawrat, secondo cui a fini di persuasione la strategia migliore consiste nel combinare paura e rassicurazione. Più precisamente: «[...] il ricorso alla paura raggiunge il massimo dell'efficacia quando: 1) spaventa a morte la gente, 2) offre una raccomandazione specifica utile a vincere la minaccia che suscita spavento, 3) l'azione raccomandata è ritenuta utile per ridurre la minaccia e 4) colui che riceve il messaggio crede di essere in grado di realizzare l'azione raccomandata»[17].
Nelle democrazie contemporanee, l'utilizzo della paura come fonte di consenso elettorale rientra fra le strategie meno dichiarate e più ricorrenti del marketing politico e del political advertising. A questo proposito, scrivendo su Democrazia e paura, Luigi Ferrajoli approfondisce in particolare il caso del «populismo penale», evidenziando il persistente ruolo della televisione come «fabbrica della paura»[18]: anche dove il numero degli omicidi complessivi sta calando e dove quasi la metà avviene tra le mura domestiche per opera di padri e mariti[19], l'aumento dei servizi di cronaca nera, la loro selezione e l'enfasi su particolari categorie di criminali (immigrati irregolari, extracomunitari identificati per Paese di provenienza e altre figure della marginalità) fa sì che la quantità percepita degli episodi criminali aumenti. Il caso di studio proposto da Ferrajoli riguarda il periodo 2006-2007, durante il governo Prodi, quando si registrò un forte incremento dei servizi di cronaca nera nei principali telegiornali. Una ricerca mostra che nell'ottobre 2007 solo il 3,4% degli intervistati sa che gli episodi di criminalità a livello nazionale sono diminuiti, mentre l'88,2% ritiene che siano aumentati rispetto a cinque anni prima. È il primo passo per l'«uso demagogico del diritto penale»[20] e per favorire la diffusione di frame, slogan e sound bites, come quelli che associano «sicurezza» a misure di polizia e pubblica sicurezza anziché, ad esempio, alle «garanzie sociali».
In questo particolare capitolo del marketing politico e del political advertising, un caso tanto emblematico quanto famigerato è quello dello spot su Willie Horton, trasmesso dal 21 settembre al 4 ottobre 1988 durante la campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti. Lo spot fu ideato dai consulenti di George H. Bush e diffuso per iniziativa e responsabilità di un comitato di supporter, con lo scopo di delegittimare il candidato rivale, Michael Dukakis, associandogli un crimine ed una responsabilità gravi. Facendo riferimento ai permessi per il fine settimana che Dukakis aveva concesso ai carcerati, come governatore del Massachusetts, lo spot ricordava la vicenda di Willie Horton: detenuto per omicidio premeditato, approfittando di un permesso aveva sequestrato una coppia, uccidendo l'uomo e stuprando la donna. Drew Westen commenta: il «[...] messaggio esplicito era "Dukakis è debole con la criminalità", ma il [...] messaggio implicito era "Dukakis permette che negri spaventosi mettano a repentaglio la vostra sicurezza"»[21].
Molte ricerche convergono nel mostrare che le scelte elettorali non sono descrivibili come atti di una razionalità "purificata" da emozioni e passioni. Votare non è un atto argomentativo, mentre scegliere un partito e fidarsi di un leader, con piena o parziale convinzione, non equivale a trarre la conclusione da una serie di sillogismi più o meno complicati. L'argomentazione delle issues si svolge attraverso «serie di immaginazioni» contrassegnate da pesi emotivi: ciò accade anche perché il discorso politico non riguarda soltanto il passato, inteso come l'insieme di quelli che genericamente potremmo denominare fatti; esso riguarda costitutivamente l'interpretazione dei fatti e, soprattutto, le promesse, gli annunci, le ipotesi sul futuro, l'intreccio tra i valori dichiarati e gli scenari immaginati come possibili. È il dominio del verosimile. Se la comunicazione di tali valori e scenari è consegnata nella sua sostanza alle tecniche della comunicazione pubblicitaria, la natura della sfera pubblica democratica subisce una sorta di mutazione genetica, a causa della quale il reciproco rimando tra consenso e legittimazione può produrre esiti inquietanti, dai tratti antidemocratici[22].
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