Psicanalisi della musica
Per sentire la voce della Musica a volte bisogna fare silenzio. Così, le aule deserte dell’augusto Conservatorio “Verdi” di Milano -in attitudine pre-pasquale- hanno fornito il teatro silenzioso di questa peripazìa: per interrogare ancora una volta la “divina enigmaticità” della parola musicale abbiamo voluto confrontarci con l’esperienza -concretizzata di recente nella pubblicazione di Semeion/Tecmerion. Verso una psicanalisi della musica (Milano 2007)- di Fulvio Delli Pizzi, docente di Composizione nel conservatorio meneghino, laureato in Psicologia alla Sapienza di Roma. Questi due poli costituiscono il nesso principale nella ricerca del musicista abruzzese, fin dalla sua tesi di laurea. «È una storia che nasce dai tempi dell’università e dall’insegnamento del mio maestro di Composizione (Firmin Sifonia, Ginevra 1917-1995, ndr), il quale, ben prima del contributo di Nattiez[1], aveva sviluppato un sistema tabulare di comparazione paradigmatica fra un “soggetto” melodico e i suoi successivi sviluppi. Muovendo quindi all’interno del pensiero strutturalista, ho trovato nelle considerazioni di Molino una tripartizione utile del fatto musicale: oltre al livello neutro, che rappresenta in qualche modo il livello oggettivo del testo musicale, si possono rintracciare le strategie di produzione (poietica) che l’autore attua nella composizione e quelle di fruizione (estesica) che il ricevente accampa nella codificazione e quindi nella formulazione di un giudizio estetico. Ora, il livello neutro -come pure Nattiez ha successivamente compreso- è più che altro un “concetto”, non scevro da “contaminazioni estesiche”. Inoltre, grazie agli sviluppi sperimentali di psicologie come quella della Gestalt[2], sul livello estesico è stato detto abbastanza. Sul campo della poietica, invece, grava tuttora una certa afasia. Grazie anche ai miei studi di psicologia, potevo orientare la speculazione proprio su questo lato».
In effetti, considerando la mole di analisi -più spesso freddamente computazionali, protocollari- sedimentatesi approssimativamente da Shenker[3] in poi, è possibile avvertire la sensazione, da un lato, che l’interesse musicologico-analitico si sia polarizzato attorno ad una ermeneutica del “materiale” (il “pratico-inerte”, il “precipitato” del testo musicale) e una conseguente fenomenologia dei relativi meccanismi di percezione; dall’altro, che abbia fagocitato (a livello solo lateralmente psicanalitico) un morboso quanto aneddotico interesse attorno al profilo bio-psichico -più spesso patologico- del demiurgo.
«Sempre secondo Nattiez, tutto ciò che è la cultura, lo Zeitgeist, la formazione, gli intenti, l’influsso politico, sociale, economico, concorre a nutrire la dimensione poietica del compositore e del comporre; ma il criterio fondamentale per analizzarla è accettare che il testo -in definitiva- è un’altra cosa dall’autore, una “cosa in sé”. Quello che mi premeva, insomma, era denunciare come la diretta inferenza fra la vita psichica del musicista e quella simulata a sua volta dalla musica sia in pratica una scorciatoia del tutto fallace per l’indagine analitico-musicale: come ha lasciato intendere Freud -e come, in qualche modo, Erich Fromm ha potuto confermare[4]- spesso possono essere molti i simboli ma relativamente pochi gli oggetti simbolizzati». Al di là di più facili luoghi comuni (e.g. la sordità beethoveniana ecc.) questo vizio musicologico si è palesato spesso nella codificazione dell’intera opera di un artista o della sua prassi compositiva: viene da pensare -un esempio su tutti- alle presunte co-azioni a ripetere intraviste nelle “scatologie” mahleriane (come pure di Berg), la cui eziologia viene per solito fatta risalire a un presunto “trauma” infantile, disconoscendo così la portata culturale, coscientemente “memoriale” delle sue strategie».
Perciò, nel momento di analizzare queste strategie della produzione bisogna prendere in considerazione la morfogenesi[5]» -“anamorfismo”, nel caso di tanta musica “post-moderna”- «che si attua nel momento della creazione artistica, in alternativa al concetto di forma (secondo l’accezione corrente). È in questa frazione, questo sottile diaframma fra artista e arte, che si può risalire alla “persona”, rintracciando» -magari sondando quelle che Proust definiva le «intermittenze del cuore»- il “fluire di stati tensionali e distensionali, […] le pulsioni e i loro destini”». Provando a tradurre: il materiale è alieno dalla persona, ma indotto, interrogato, ci può dire qualcosa di interessante su di essa; e comunque non avrebbe alcun senso un’analisi incapace di dire almeno una “parola” intorno all’uomo e indirizzata ai suoi confronti.
Musica della psicanalisi
«L’ipertrofia -quando non l’abuso- di un’indagine di tipo “psicoterapeutico” intorno alla mitografia autoriale» -e il dibattito aperto sulle sorti e l’efficacia della stessa disciplina psicanalitica[6]- «possono oscurare il beneficio della sua semantica di base applicata al “decorso” musicale: tra il fisiologico e lo psichico, le pulsioni inscenano innegabilmente (“Eros e Thanatos”) una dialettica palpabile, ancora più palese nel gioco dinamico, “drammatico”, scatenato dalla musica. La musica infatti è l’arte più vicina a uno “psichismo”. E in particolare il comparto, il sotto-testo rappresentato dai segni “non-convenzionali”[7] (dinamica, timbro, modi di produzione del suono) è la parte che risponde di più al principio primario (accettando come innegabili moti tensivi/distensivi alcune peculiarità “fisiologiche” del materiale musicale, e.g. la curvatura dinamica del melos); mentre l’apparato delle convenzioni anche grafiche (frequenza, durata) governate in piena coscienza dall’autore assieme a tutti gli altri parametri creativi (incluso il “ritmo armonico”, specie relativamente alla musica “tonale”) incarna una dimensione più “malleabile”, dove improntare la carica “erotica”, effondere pure la propria dinamica psicologica interiore, dilazionare costantemente la scarica. È il processo secondario, e la Musica» -aldilà della querelle sulla sua specificità, sulla semanticità o meno del suo linguaggio- «ne è perfettamente capace. Mi riferisco soprattutto alla tonalità o tonicalità -intesa più come “struttura” possibile che non come “forma” prêsistente- perché in essa risulta particolarmente chiaro come rinviare la risoluzione cadenzale sul polo di attrazione dichiarato».
«Insomma, è dalla frizione di forze discordanti che nasce il “messaggio”, e rintracciare all’interno di una composizione le salienze dove le sottoparti testuali “lavorano” discordantemente significa giungere alla significazione di una specificità autoriale indiscussa: nei luoghi dove “qualcosa non va” (come ci si aspetta, come dovrebbe) risiede l’arte». […] Per questo motivo un’attenzione rinnovata alla traccia “soggettiva” -finanche “cronosensitiva”- impressa sul “materiale” (la peculiarità endosomatica del fenotesto sull’impersonale “rumore bianco” del genotesto[8]) può dire qualcosa di nuovo e interessante all’analisi musicologica, persino alla Storia dei generi, all’Estetica. «Tutto questo senza dimenticare, poi, la capacità simbolica, quasi maiuetica -quando non curativa- della Musica stessa: nella vita psichica simulata e quindi “rappresentata” dallo spartito i conflitti prodotti -alla fine- “possono essere ricomposti nel più desiderabile dei modi”».
«Nella seconda parte del mio libro, pur sapendo -come in questo caso- di rivolgermi a una platea composta non solo da musicisti, ho esemplificato schematicamente un prototipo di analisi “psico-musicale”, prendendo in esame un breve brano di Tchaikovsky (e non già un solo frammento): in queste poche battute, grazie alla preminenza dell’elemento melodico sulle altre componenti, ho potuto isolare prima una “sintomatologia” essenzialmente musicale e poi testimoniare, con l’ausilio di strumenti psicanalitici, tutte le sue peculiarità. Questo campione può testimoniare già a sufficienza i benefici di un sistema d’indagine siffatto, incoraggiando un approccio nuovo e diverso alla “partitura” ».
Destini della musica contemporanea Riferimenti bibliografici
Parlando di tonalità (e, per contro, pensando al rischio d’una certa inflazione “strutturalista” nel campo dell’analisi musicale -di sclerotizzazione ideologica e impersonalità) abbiamo sentito il desiderio di confrontarci pure sul delicato versante della musica cosiddetta “contemporanea”, ben sapendo di poter contare sull’esperienza e la liberalità intellettuale di Fulvio Delli Pizzi per offrire anche ai “non-addetti-ai-lavori” un punto di vista il più possibile equidistante sul panorama compositivo odierno. «Anche in questo caso l’esperienza psico-musicale può venirci incontro: il messaggio -o meglio la “comunicazione”- riesce a “passare” quando c’è un’evidenza da trasmettere e il medium, l’interprete che se ne incarica ne è convinto più che persuaso; tutto ciò può avvenire solo se la complessità» -non già la “complicazione”- «e l’originalità del pezzo (le “intermittenze” citate) vanno ad implementare solo parzialmente il testo musicale. Se tutti i parametri[9][9] risultano programmaticamente “sofisticati”, si torna al “rumore bianco” di prima: più che a una comunicazione, il messaggio si riduce a un’informazione anti-artistica, spesse volte solo grafica[10], e non c’è più alcuna necessità di rendere edotto il pubblico riguardo la tecnica o di “stupefarlo”, né di colpevolizzarlo se non la intende; basterebbe saper tornare a “stupirlo”.
Il problema (aldilà di residui ideologici che pure, con una certa lentezza, si stanno disperdendo) è aver creduto che la “procedura” fosse direttamente proporzionale alla riuscita del “prodotto”; ma lo scarto fra quello che faccio -o intendo fare- nell’atto compositivo e quello che poi alla fine riesce permane: a un dato momento il pezzo rivendica una sua precipua autonomia sull’autore». Se per Adorno la musica della seconda scuola viennese si faceva legittimamente “protocollo” di choc[11], sintomi della “malattia mortale” consumata sull’uomo “munchiano” della Crisi, la riproposizione costante, da un lato, di certi stilemi lateralmente “espressionisti” -oramai fuori luogo e tempo massimo- e dall’altro una sorta di resa “minimalista”, dis-impegnata a parodiare quei tic in piccole nevrosi, sembrano oggi -paradossalmente- “considerazioni inattuali” senza alcun legato storico né feconde prospettive future. È da tempo, oramai (come Baricco -sia pur con qualche affrettata semplificazione- ha saputo tempestivamente cogliere[12]) che certo tipo di musica, pur deplorando a ragione la facilità sospetta dei “sottogeneri” (leggi musica “leggera” ecc.), ha perso la capacità di intercettare il proprio tempo. «Questa “distanza” oramai è stata metabolizzata e la transizione dall’ideologia alla liberazione da sovrastrutture e imposizioni culturali sembra, al solo passare del tempo, fortunatamente indolore per la musica. Nessuno, comunque, potrebbe ancora formulare un giudizio estetico sul secolo musicale passato (operazione comunque rischiosissima, specie basandosi esclusivamente sul criterio della fruizione e del consenso popolare) e le prospettive future, oltre a denunciare il rischio di una deriva libertaria, parlano già (e lo dico da docente) di analfabetismo musicale di ritorno, di svalutazione del “mestiere”, di imperizia. La storia della musica ci fornisce esempi esaltanti non solo di “artigianato”, di “bottega” musicale, ma anche di tirocinio individuale: basti pensare a quello che significava il “contrappunto alla mente” cinquecentesco o la prassi improvvisativa degli strumentisti classici eppoi romantici; quelle che oggi possono sembrare esorbitanti qualità del genio individuale (vedi l’improvvisazione o anche il mito “romantico” dell’ispirazione) erano una volta conquiste accessibili, quasi basali nell’iter scolastico del provetto musicista. Per quanto riguarda le “classificazioni”, poi, posso ben dire che l’errore -specie per la cultura musicologica italiana, che ha spesso peccato di sudditanza psicologica nei confronti di altre lezioni- è stato proprio quello di collocare a priori il musicista prima di dare effettivamente un giudizio: scrivere qualcosa di nuovo significa prima di tutto inventarsi un nuovo modo di pensare, e questa novità -assieme alla qualità estetica estrinseca- saprà travalicare relativamente i confini del Tempo». Ancora una volta, più del temps espace è il temps durée di Henri Bergson a rappresentare una categoria salvifica di giudizio, come pure il sottrarsi alle comparazioni “di grado” a favore delle differenze “di genere” fra un insieme e l’altro delle “esistenze” musicali[13], senza per questo, massimalmente, perdere di vista il criterio dell’obiettività, soprattutto a livello del “lavoro” e della coerenza intellettuale che è dietro a ogni singola creazione. «In conclusione credo -come per il discorso analitico affrontato da principio- che oramai sia finito il tempo di fermarsi solo al “sintomo”: per tornare alla comunicazione, a dire con la Musica una parola significativa all’uomo, occorre ri-dimostrare con passione e competenza lo scrupolo, l’attitudine alla “prova”».
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[1] Jean-Jacques Nattiez (Amiens 1945), allievo di Mounin, Molino e Ruwet, assieme a Luise Hirbour Paquette e altri (Groupe de Recherches en Sémiologie Musicale dell’Università di Montréal) ha sistematicamente introdotto le conclusioni della semiologia linguistica nell’analisi del fatto musicale (cfr. J.J. NATTIEZ, Fondaments d’une semiologie de la musique, Union Générale d’Éditions, Parigi 1975). Nicolas Ruwet, sulla scia della linguistica “applicata” (partendo da De Saussure, Lévi-Strauss o da Jakobson), per primo si era servito di queste coordinate, considerando soprattutto le categorie del “tempo” e della comparazione (v. N. RUWET, Méthodes d’analyse en musicologie, 1966, rielaborato e ampliato in Langage, musique, poèsie, Seuil, Parigi 1972, tr. it. 1983). Le conquiste della semeiotica musicale francofona sono state tradotte in Italia da Gino Stefani con un'accezione più spiccatamente “sociologica”.
[2] Sui meccanismi della percezione e della ricezione v. R. FRANCÈS, La perception de la musique, Vrin, Parigi 1972.
[3] Heinrich Schenker (1868-1935), teorico della musica austriaco, ha fondato una linea di ricerca analitica (tuttora ampiamente diffusa e adottata specie nei paesi di lingua anglosassone) applicata esclusivamente alle dinamiche “energetiche” della musica tonale. «L’analisi schenkeriana ha un indubbio riferimento filosofico, la fenomenologia di Husserl […] al di sotto della pagina musicale […] sta sempre una struttura originaria a cui bisogna in qualche modo risalire» (E. FUBINI, Estetica della musica, Il Mulino, Bologna 2003, p. 150). Nel complesso delle varie proposte di analisi musicali -più spesso paradigmatiche- vanno citate le esperienze -fra gli altri- di Riemann (fraseologica), Reti (tematica), Lorenz (tabulare), quando non di Keller (o dello stesso Arnold Schönberg), di Forte, La Rue ecc.; fino alle più recenti applicazioni di linguistiche evolute (come quelle di Chomsky), ad es. in Lerdahl e Jackendoff. Un precedente di analisi “psico-musicale” si ha nell’opera pionieristica di Ernst Kurth. Per un’illustrazione generale del panorama musicale analitico si veda I. BENT, Analisi musicale, EDT, Torino 1990.
[4] Cfr. E. FROMM, Il linguaggio dimenticato, Bompiani, Milano 1971.
[5] Cfr. R. THOM, Parabole e catastrofi, Il Saggiatore, Milano 1980 e Stabilità strutturale e morfogenesi. Saggio di una teoria generale dei modelli, Einaudi, Torino 1980.
[6] A partire dalle critiche di Popper fino al corrosivo Le livre noir de la psychanalyse (Il Libro Nero della Psicoanalisi, Fazi, Roma 2006) di Catherine Meyer.
[7] Cfr. C. SEGRE, La gerarchia dei segni, in AA.VV., Psicanalisi e semiotica, Feltrinelli, Milano 1975. All’interno della “grammatica” musicale -o meglio dell’ortografia- i segni non-convenzionali, a dispetto di tutte le grafie più o meno quantizzabili come l’indicazione metrica e la stessa notazione, sono prescrizioni “inestese” come il crescendo e il diminuendo, l’accellerando e il ritardando, le “litteræ significativæ” rappresentate dal complesso innumerato delle diciture espressive (e.g. “dolce”, “cantabile”, “con anima” ecc…).
[8] Secondo la formulazione di Julia Kristeva (Sliven, Bulgaria, 1941), fatta proprio dal gruppo legato alla rivista letteraria francese Tel quel.
[9] «In ogni epoca sembra dominare una medesima tendenza: creare un equilibrio estetico tra complessità in una dimensione e semplicità nell’altra» (C. DAHLHAUS, Analisi musicale e giudizio estetico, Il Mulino, Bologna 1987, p. 59). Invece Schönberg «pensava che la musica […] dovesse svilupparsi allo stesso modo in tutte le dimensioni […] che ogni dimensione dell’oggetto musicale -melodica, contrappuntistica, armonica e ritmica- è legata strettamente e inscindibilmente a tutte le altre» (ivi, p. 61). Continuando, Dahlhaus specifica comunque che il caposcuola viennese non riuscì a protrarre l’emancipazione e il progresso di tutti i parametri, palesando (come pure seppe notare Adorno) una difformità tecnico-formale fra armonia e contrappunto nella formulazione dodecafonica (cfr. T.W. ADORNO, Filosofia della musica moderna, tr. it. di L. Rognoni, Einaudi, Torino 2002). «E non è un caso che sia stato Webern e non Schönberg a condurre il procedimento dodecafonico, negli ultimi decenni, a una fama in cui si mescolano […] tratti di popolarità e di esoterismo» (C. DAHLHAUS, Analisi musicale e giudizion estetico, cit., p. 60).
[10] «La tesi che la musica […] debba essere udita e compresa attraverso l’ascolto è un luogo comune in apparenza chiaro e banale, ma in realtà tutt’altro che ovvio. Lo si ripete comunque con tanta insistenza ed enfasi da far nascere il sospetto che la sua validità sia in pericolo e che la musica “da ascoltare” sia da un lato eclissata da una “musica da leggere”» (ivi, p. 62). Pur se a ragione si deve ammettere col Dahlhaus che «il criterio dell’udibilità […] non è una legge estetica naturale, ma un postulato di limitata portata storica» dovuto alla polemica del classicismo contro manierismo eppoi barocco, crediamo esserci una differenza di grado fra la considerazione estetica della percezione uditiva e quella -volendo- esclusivamente “grafica”, visiva, intellettuale. E comunque «gli oggetti materiali [i segni del testo musicale] sono […] per se stessi muti in riguardo ai nostri sensi» se poi non vengono «riprodotti, realizzati, ricreati» (E. FUBINI, L’estetica crociana e la critica musicale, in Analecta Musicologica - Band 12, Studien zur italienisch-deutschen Musikgeschichte VIII, hrsg. von Friedrich Lippmann, Köln: Volk Verlag 1973, p. 7; Fubini riporta in questo caso il pensiero di G.M. Gatti. Interessante, all’interno dello stesso contributo, l’accenno alla polemica che contrappose A. Parente a L. Dallapiccola). Anche Vladimir Jankélévitch, fra gli altri, ha saputo deplorare (meno anfibolicamente del solito, per verità) una certa deriva sofisticatrice: «La musica si fa complicata quando il musicista di quella musica non ha niente da dire […] non è un fenomeno grafico, ma un avvenimento uditivo; chiede di essere effettivamente ascoltata, e non di essere letta!» (dalla prefazione a J. JAROCINSKI, Debussy. Impressionisme et Symbolisme, Seuil, Parigi 1970, tr. it. 1980).
[11] «Le prime opere atonali sono […] protocolli onirico psicanalitici» (ADORNO, Filosofia della musica moderna, cit., p. 44); «Il linguaggio musicale si polarizza verso gli estremi: da una parte produce gesti di choc […] dall’altra trattiene in sé, vitreo, ciò che l’angoscia fa irrigidire» (ivi, p. 47).
[12] Cfr. A. BARICCO, L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin. Una riflessione su musica colta e modernità, Garzanti, Milano 2001.
[13] «Porsi il problema dell’esistenza “della” musica -al singolare- è un atteggiamento che tralascia di accertare se e quale senso “la” storia sia una realtà o una mera trama concettuale» (C. DAHLHAUS, H.H. EGGEBRECHT, Che cos’è la musica?, Il Mulino, Bologna 1988, p. 7). «Per questo motivo “la musica” non esiste -perlomeno nel senso universale, ma solo di ciò che è valido “per me”» (ivi, p. 13. La prima citazione è di Dahlhaus, la seconda di Eggebrecht).