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Una riflessione sulla Protezione civile in Italia

Roberto Oreficini Rosi
Intervista a cura della redazione

Il Servizio di Protezione civile, istituito in Italia come servizio nazionale, ha il compito di «tutelare l'integrità della vita, i beni, gli insediamenti e l'ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi e da altri eventi calamitosi»[1]. Naturalmente, perché questo possa essere reso effettuale, è necessario far ricorso a differenti competenze in grado di supportare l'attività operativa della Protezione civile con i dati derivanti da un adeguato monitoraggio del territorio e con una valutazione dei principali fattori di rischio che sia sottoposta a continui aggiornamenti. Ad oggi, è sufficiente l'integrazione di tali competenze?

In questi ultimi dieci anni le attività di protezione civile si sono notevolmente espanse. Mentre all’inizio ci si occupava esclusivamente delle calamità naturali di carattere straordinario, attualmente non esiste alcun ambito della organizzazione pubblica e privata (si pensi alle società private che erogano servizi pubblici essenziali) che possa non comprendere al suo interno una funzione di protezione civile.
In tale contesto, la conoscenza scientifica e tecnica delle varie ipotesi di rischio è strategica per garantire la efficacia del sistema di protezione civile.
Naturalmente, molti degli scenari sono valutabili all’interno dei percorsi di ricerca svolti nelle Università.
I soggetti titolari delle funzioni di protezione civile debbono essere capaci di conoscere ed utilizzare tutte queste competenze.

Mentre la capacità di previsione, orientata all'individuazione dei possibili rischi, oltre che alla ricerca delle cause delle calamità naturali, appare necessariamente esposta ad un margine di imprevedibilità, la prevenzione riguarda piuttosto il versante delle attività in grado di arginare quanto più possibile gli effetti derivanti da ciò che non si è in grado di prevedere, o comunque di impedire. Una insistenza eccessiva sulle difficoltà legate alla possibilità di prevedere certi eventi non corre il rischio, a suo avviso, di sminuire il ruolo decisivo che può essere svolto delle attività volte alla prevenzione?

Credo proprio di si. Oramai è possibile disporre di quadri previsionali attendibili per quasi tutti gli scenari di rischio. Fanno eccezione le crisi sismiche e tutti i fenomeni ad esse collegati.
Proprio laddove la previsione è meno accurata, è necessario accrescere di più la prevenzione per mitigare gli effetti del rischio sismico, occorrono risorse ingentissime sia di carattere privato sia, soprattutto, di carattere pubblico.
Perciò è necessario predisporre un piano pluriennale di medio-lungo periodo, che preveda in primo luogo la messa in sicurezza degli edifici pubblici strategici.

Sotto questo profilo, è certamente cruciale lo sviluppo di una cultura della prevenzione, a partire in primo luogo, ma non soltanto, dalle istituzioni scolastiche. Elementi essenziali per la diffusione di una cultura della sicurezza sono, fra le altre, le campagne informative e di sensibilizzazione al problema della prevenzione, le opportune esercitazioni e, in generale, tutte le iniziative di formazione rivolte alla cittadinanza. Ritiene che il nostro paese abbia investito sufficienti risorse, anche finanziarie, in tal senso o che resti ancora molto da fare in questa direzione?

Purtroppo la nostra cultura tende ad emarginare l’idea del rischio e della autotutela. Ciò vale per la sicurezza stradale, per quella sui luoghi di lavoro e, ancor di più, per quella legata ad emergenze di protezione civile che, statisticamente, appaiono meno probabili.
Anche se da ormai venti anni sono moltissimi i programmi formativi ed informativi svolti con risultati ampiamente soddisfacenti, si è invece persa totalmente la cultura della gestione del territorio e della difesa del suolo collegate alla pratica agricola.
Per questo, quasi ogni pioggia che ecceda la normalità rischia di trasformarsi in emergenza, con gravi ripercussioni sulla erogazione dei servizi e sulla circolazione delle persone.

Nell'organizzazione delle attività di protezione civile, gli enti locali sono direttamente coinvolti, nei limiti delle proprie competenze, sia sul versante della raccolta dei dati, data la conoscenza del territorio e dei possibili elementi di rischio, sia su quello riguardante il necessario supporto nella pianificazione delle emergenze. In quali forme si esplica questa cooperazione e quali sono, eventualmente, le principali difficoltà che emergono?

Rispetto a quanto era previsto nella Legge 225 del 1992, dal 1998 ad oggi si è assistito ad una modifica integrale dell’assetto istituzionale della protezione civile.
Essa da materia di competenza dello Stato è diventata materia a competenza “concorrente” e quindi le Regioni e gli Enti locali hanno assunto un ruolo determinante in questo delicato settore di attività.
Credo che la buona organizzazione assunta dalla Protezione civile in questi ultimi anni sia legata proprio a questo processo dinamico, che ha reso i Sindaci protagonisti della sicurezza del loro territorio e della loro popolazione.
Occorre fare attenzione, perché di tanto in tanto riaffiorano tendenze neocentraliste che, se assecondate, provocherebbero una sicura involuzione del sistema.

Il mancato rispetto delle normative previste (ad esempio in materia antisismica) o lo sfruttamento indiscriminato del territorio e delle sue risorse sono solo alcuni degli elementi che dovrebbero indurci ad operare una seria riflessione sui rischi legati all'illegalità. Quali sono le principali conseguenze e quali i compiti e le responsabilità del mondo politico?

Il rispetto della legalità è garanzia di democrazia e di giustizia e quindi deve essere perseguito con ogni mezzo.
Credo poi che si debba operare per allargare il concetto di “difesa della vita”, che dovrebbe comprendere tutte le fasi del vivere umano, sia come singolo, sia come collettività.
Se ciò fosse possibile, anche certe norme a tutela dell’ambiente non apparirebbero più come protezione di qualcosa di astratto e lontano, ma verrebbero lette come strumento per assicurare direttamente od indirettamente la salubrità dell’esistenza di ognuno di noi.
Il mondo politico deve perciò porsi su un piano diverso da quello del consenso immediato e dovrebbe invece farsi carico del futuro a medio-lungo periodo, anche se i frutti di questa attività saranno ovviamente raccolti da altri.

Se si guarda alle calamità che in passato hanno colpito il nostro paese e si analizzano le differenti modalità in cui di volta in volta si è fatto fronte a situazioni di emergenza, quali “modelli” in positivo possono, a suo avviso, essere individuati come importanti riferimenti ai quali guardare anche in vista del presente? Quali elementi hanno differenziato quelle esperienze da altre in cui non è stato raggiunto lo stesso grado di efficienza?

Possiamo dire che la protezione civile secondo la accezione moderna del termine è nata nel nostro paese circa 25 anni fa. Prima di allora si parlava di soccorso e di assistenza, concetti che non comprendevano la previsione e la prevenzione.
Credo che le tre emergenze che hanno contribuito alla nascita ed alla evoluzione di questo modello efficace ed originale di protezione civile siano state l’alluvione di Firenze del 1966, il terremoto di Ancona del 1972, il terremoto del Friuli del 1976, il terremoto Marche-Umbria del 1997 e la Giornata Mondiale della Gioventù del 2000 a Roma.
In queste emergenze la caratteristica dominante è stata il coinvolgimento delle comunità locali e delle loro espressioni politico–amministrative, con lo Stato che ha svolto un ruolo di sostegno ed accompagnamento, ma mai di imposizione direttiva.
Sono anche le esperienze dalle quali è sorta e maturata la funzione strategica del volontariato, che rappresenta oramai con la sua organizzazione e le sue competenze la colonna portante del nostro sistema di sicurezza partecipata.

Da un'analisi comparativa con esperienze di altri paesi, non solo europei, quale bilancio complessivo possiamo tracciare relativamente alla situazione italiana?

Credo che in questo momento il nostro Paese sia un punto di riferimento a livello mondiale per la gestione delle attività di protezione civile.
Purtroppo però siamo molto considerati per la previsione e per la gestione delle emergenze e dei grandi eventi, mentre invece non facciamo scuola per la prevenzione.
Occorre ricordare, però, che la prevenzione è una attività di protezione civile che non è svolta della Protezione civile stessa, ma bensì da tutti gli enti che sono titolari delle varie competenze in via ordinaria (ad es. pianificazione urbanistica, programmazione industriale, realizzazioni infrastrutturali, ecc.).
In ogni caso lo scambio di esperienze tra paesi è importante per il reciproco arricchimento di sistema.

Intervista effettuata nel maggio 2009

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[1] È quanto sancito nell' art. 1 – Servizio nazionale della protezione civile – della legge n. 225 del 24 febbraio 1992.
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