Premessa
Agli inizi del terzo millennio una serie di segnali legati all’ambiente, all’economia, ai conflitti mondiali, ai comportamenti individuali, alle crisi di rappresentatività delle democrazie occidentali, richiedono una riflessione accurata sui modelli che la cultura occidentale ha messo a punto a partire dalla rivoluzione scientifica, tecnologica ed industriale che ha preso avvio agli inizi del XVI secolo e culminata nel XX.
Un periodo certamente fecondo di sviluppi positivi che hanno permesso di debellare secolari nemici dell’umanità come la fame, la fatica fisica, molte malattie, l’analfabetismo, la mancanza di partecipazione delle masse alle decisioni politiche. Il modello sviluppato si basava su alcune assunzioni di base: che le risorse naturali siano praticamente illimitate, che l’uomo attraverso le conoscenze scientifiche e tecnologiche possa usare a piacimento i processi naturali, che tutto venga regolato automaticamente dall’economia di mercato e dunque dai prezzi delle merci e dei servizi, che il suffragio universale risolva tutti i problemi di partecipazione alla vita pubblica. Molte di tali assunzioni, alla luce dei fenomeni che hanno avuto luogo nell’ultima metà dello scorso secolo, devono probabilmente essere riviste con un processo simile a quello che ebbe luogo durante il Rinascimento e fino a tutto il XVII secolo, ossia un dibattito da parte degli intellettuali sui principi fondanti il modello o i modelli di società verso i quali tendere. Una difficoltà ad affrontare tali problematiche risiede nel processo di specializzazione del pensiero che si è andato affermando dall’illuminismo ad oggi: infatti il sorgere di discipline specialistiche, per cui l’economista è abilitato a parlare solo di economia, il fisico solo di fisica, il sociologo solo di sociologia, etc., rappresenta una reale difficoltà ad affrontare i problemi in una visione globale al cui centro sia l’uomo nei suoi rapporti sia con il mondo della natura sia con la sua componente spirituale. Se riteniamo che si sia di fronte ad una serie di sfide fondamentali per la sopravvivenza stessa dell’umanità e del pianeta, deve essere fatto uno sforzo per superare questo limite. Delle società del passato prescientifico dobbiamo recuperare la capacità di vedere il mondo come un tutto unico, capacità evidente nello sviluppo del pensiero religioso che tende a disegnare delle cosmologie nelle quali le parti si collocano in un armonioso equilibrio del tutto. Questo naturalmente non deve far dimenticare il percorso fatto dalla ragione cercando di conciliare una visione pragmatica del mondo, quale quella maturata con il positivismo, con una visione che tenga presenti gli innumerevoli altri aspetti che regolano la vita degli uomini e del cosmo.
I cambiamenti globali
Il primo segnale globale dell’effetto delle attività umane sul pianeta è quello legato ai cambiamenti climatici. L’uomo, dalla sua comparsa sulla terra nella forma di homo sapiens fino a duecento anni fa circa, poteva considerarsi almeno in parte come un elemento della catena naturale: infatti, sia in termini numerici sia in termini di occupazione della superficie del pianeta, la sua presenza e le sue attività per ragioni “quantitative” non avevano un impatto complessivo sugli equilibri “planetari” . Localmente, di volta in volta, le sue attività potevano anche causare disastri e degradi ambientali: è il caso, per esempio, delle antiche civiltà mesopotamiche, la cui scomparsa fu dovuta in parte all’eccessiva coltivazione delle pianure fra il Tigri e l’Eufrate che dette origine ad una erosione eolica importante che a sua volta ridusse molto la capacità di quelle terre di sostenere una popolazione cresciuta considerevolmente. Molti altri casi si potrebbero citare, ma tutti si riferiscono ad aree limitate del pianeta e gli effetti furono per lo più locali, anche se responsabili della fine di civiltà importanti.
È il processo filosofico, scientifico e politico-sociale iniziato con il Rinascimento e culminato nella rivoluzione francese e parallelamente nella rivoluzione industriale dell’‘800, a mettere in discussione per la prima volta tale assetto planetario. Prima le attività umane erano caratterizzate dall’uso modesto di energia sia nel coltivare la terra sia nelle attività manifatturiere sia nei trasporti. In sostanza l’energia adottata era totalmente di origine solare: quando infatti questa era fornita dall’uomo o dagli animali veniva dal cibo, a sua volta trasformazione dell’energia solare, o quando veniva utilizzata per azionare macchine (come per esempio i mulini, le segherie, etc.) era fornita dal vento o dai salti d’acqua e quindi ancora dal sole che mette in moto questi fenomeni naturali. Infine l’energia usata per riscaldarsi, cucinare o per attività manifatturiere come la fusione dei metalli o la cottura delle stoviglie veniva dalla combustione di materiale vegetale e quindi ancora dal sole. Dunque l’energia consumata per le varie attività a livello planetario non modificava l’equilibrio energetico del pianeta sul quale si fonda il sistema climatico del globo.
Con l’avvento delle macchine e dei processi industriali, che fanno uso intensivo dell’energia, sia sotto forma di combustibile che di energia elettrica, la situazione è mutata radicalmente. I prodotti della combustione come l’anidride carbonica hanno modificato drasticamente l’atmosfera e questo sta incidendo sul bilancio energetico terrestre e quindi su quello termico (Fig. 1).
Conclusione il pianeta si sta riscaldando.
La quantità di energia riemessa dalla superficie terrestre verso lo spazio, a causa dell’effetto di schermo dell’atmosfera alla radiazione infrarossa, non è più equivalente a quella solare che giunge in un certo periodo di tempo. La conseguenza è il riscaldamento del pianeta che, inoltre, avviene in modo sbilanciato perché a causa del ciclo annuo del sole e della forma della terra è più accentuato nella zona intertropicale e quindi ha come conseguenza il riscaldamento degli oceani compresi in tale fascia.
Il sistema climatico terrestre, “la macchina del clima”, dipende dal ciclo annuo del sole e dalla distribuzione dei centri di alta e bassa pressione, che a loro volta dipendono dal bilancio radiativo, e che mettono in moto la grande circolazione atmosferica e quella oceanica: la modifica di questo bilancio dunque cambia sostanzialmente la grande circolazione atmosferica, come avviene ad esempio per la cella di Hadley (Fig. 2), e di conseguenza la distribuzione dei climi sul pianeta.
Le conseguenze di questi fenomeni si sono cominciate a vedere a partire dagli anni ‘90 con un aumento su tutto il pianeta della frequenza e dell’intensità dei fenomeni estremi sia in termini di aumento di piogge intense dovute a cicloni extratropicali (Fig. 3), con conseguente effetto su fenomeni locali (Fig. 4), sia in termini di diminuzione di piogge invernali (Fig. 5) a causa della modifica della traiettoria delle perturbazioni legate ad un NAO sempre più positivo (Fig. 6).
Dunque il cambiamento del clima in atto è uno dei primi fenomeni dovuti all’impatto dell’uomo a scala globale, ma naturalmente non è l’unico.
Tale impatto ha già evidenti effetti sul comportamento degli ecosistemi, ad esempio gli sfasamenti stagionali modificano sensibilmente i ritmi delle piante (Fig. 7) e degli animali.
Così come per l’energia, anche la tipologia di materiali utilizzati rappresenta un problema sempre più globale. Infatti l’uso di manufatti prodotti con materie prime di origine fossile, come la maggior parte degli oggetti di uso comune (dalle fibre sintetiche per l’abbigliamento a quelle per l’imballaggio, dai recipienti ai telai delle macchine, dagli attrezzi ai componenti elettronici), fa aumentare in modo esponenziale i rifiuti con fenomeni di impatto diretti ed indiretti. I fenomeni diretti si riferiscono a problemi per la salute dell’uomo, degli animali e delle piante, messa a rischio da una quantità infinita di molecole nuove in circolazione nell’ambiente, e dunque anche nell’acqua e negli alimenti. Molecole che gli organismi non sono abituati geneticamente a metabolizzare: questo ha spesso effetti sulla insorgenza di patologie gravi come i tumori. I fenomeni indiretti, come succede per l’energia, sono legati all’accumulo di materiali che altera completamente l’equilibrio dei cicli naturali con conseguenze difficilmente prevedibili nel lungo periodo, tenuto conto che la nostra esperienza temporale è estremamente limitata. Nel passato, invece, la catena di produzione di sostanze organiche – come, ad esempio, il legno, che con il tempo subisce un degrado tornando in circolazione – e per le quantità in gioco e per i processi di degrado, permetteva, in un certo periodo di tempo, un sostanziale equilibrio del ciclo.
Dalla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 è andata crescendo la consapevolezza sia dei governi che dell’opinione pubblica delle problematiche ambientali ed in particolare di quelle legate ai cambiamenti del clima. Nel 1997 venne steso il protocollo di Kyoto, che entra in vigore quasi dieci anni più tardi, mentre l’opinione pubblica ed in particolare i mezzi di informazione sono sempre più attenti ai problemi dei cambiamenti globali e cresce la preoccupazione per le loro implicazioni economiche. Infatti contemporaneamente all’ultima conferenza dell’IPCC a Parigi, si teneva a Davos la riunione annuale dei maggiori attori dell’economia mondiale, quest’anno dedicata proprio al tema economia e ambiente. Tale riunione segna una tappa importante: è la prima volta che il mondo economico che conta ammette che esiste un problema di sostenibilità del quale discutere.
Il modello dell'economia globale
Il modello economico globale, caratterizzato da divisioni internazionali nella qualità delle produzioni e da uno sviluppo sempre più massiccio dei trasporti delle materie prime e dei prodotti, è il risultato di quel processo che ha preso avvio agli inizi del ‘600 in Europa con la rivoluzione scientifica, tecnologica ed industriale. Quel modello ha avuto indubbi meriti, come già detto inizialmente.
Dopo la grande crisi degli anni trenta Keynes mise a punto una analisi macroeconomica con la quale si fornivano una serie di indicatori a livello globale utili per monitorare l’andamento dell’economia: tra questi il più importante è il PIL, Prodotto Interno Lordo. Dopo quasi un secolo, alla luce degli impatti che il modello economico della società industriale ha avuto sul pianeta ed in considerazione di quanto a breve potrebbe succedere con l’adeguarsi di circa 2 miliardi di persone a tale modello, è necessario chiedersi se tali indicatori siano ancora adeguati.
Il secolo scorso ha visto crescere in parallelo l’impiego del petrolio (Fig. 8), il PIL ed i consumi.
La crescita dell’impiego dei combustibili fossili è la principale responsabile dei danni ambientali che oggi registriamo: si viola infatti un equilibrio fra l’energia che raggiunge il pianeta dal sole e quella che le attività umane utilizzano, tenuto conto che attualmente bruciamo in un anno circa 400 anni di combustibili fossili accumulati in ere geologiche con l’emissione di quei gas che sono attualmente responsabili dell’effetto serra. Il modello economico utilizzato fino ad oggi assume uno sviluppo continuo ed un uso illimitato delle risorse: questa assunzione è evidentemente errata, essendo il pianeta finito, e quindi è necessario cominciare una riflessione seria sul modello medesimo.
In effetti già a partire dagli inizi degli anni ‘90 si è avviato nel mondo dei macroeconomisti una discussione sui modelli economici, e di conseguenza sugli indicatori che meglio si adattano a descrivere le performance delle società. A questo proposito sono stati proposti una serie di indici che tengono conto di parametri diversi da quelli strettamente monetari e riconducono il concetto di sviluppo a quello di qualità della vita. Se confrontiamo uno di questi indici, il GPI (Genuine Progress Index - che tradurrei in Indice di Progresso Vero), con il GNDP (cioè il PIL) si vede che, mentre quest’ultimo continua a crescere con lo stesso ritmo dei consumi del petrolio, il GPI, a partire dagli anni ’70, comincia a declinare (Fig. 9).
Tale comportamento si riscontra per quasi tutti gli indici messi a punto per valutare lo stato di salute del pianeta o la qualità della vita (Fig. 10).
L’analisi di questi indicatori insieme con le proiezioni relative ai consumi di petrolio nei prossimi venti anni (Fig. 11) ed alle emissioni conseguenti (Fig. 12), oltre che a tutti i danni collaterali di un modello nel quale i trasporti su lunghissima distanza diventano il nodo centrale dello sviluppo, mette in evidenza come non sia sufficiente pensare a palliativi tecnologici o ad interventi puramente normativi come le convenzioni internazionali, ma sia necessario cominciare a ridiscutere il modello di economia globale ed i concetti legati ai parametri per definire la qualità della vita.