(G.W.F. HEGEL, Estetica, III)
«Sebbene la sua formazione artistica sia avvenuta per intero entro il clima della rivoluzione […], nemmeno Shostakovich andò esente da aspre censure di natura ideologica, in particolare per l’opera Lady Macbeth di Mzensk (1934), il cui successo durò un anno, dal febbraio 1935 al 29 gennaio 1936, giorno in cui la “Pravda”, con un improvviso mutamento di rotta, accusò l’opera di “puro formalismo piccolo-borghese” […]. Il compositore ritirò allora la sua quarta Sinfonia che si stava provando, e con la quinta diede inizio alla sua seconda maniera, rispettosa delle prescrizioni di stato»[3].
Questo sunto implacabile di Massimo Mila
ci aiuta ad inquadrare e svolgere la storia della quinta Sinfonia, pure
senza indulgere troppo nella codificazione politica del musicista. I confini
precisi di tale coabitazione sono tutti da indagare a fondo ed esulano
ovviamente dagli intenti di questo intervento; ma la circostanza particolare
della stroncatura governativa (si pensa che dietro l’articolo della «Pravda»
ci fosse direttamente la mano di Stalin) e i suoi riflessi sulla
composizione della sinfonia sono particolarmente chiari e inequivocabili.
Shostakovich soffrì in modo del tutto singolare l’intervento diretto della
politica sulla sua musica, che andava pesantemente a offendere, in più, la
“gratuità” del suo servizio alla nazione (l’artista rimarrà in Unione Sovietica
nello stesso tempo in cui ad esempio Prokofiev, dal 1918 al '27, preferirà “fuggire” negli Stati Uniti[4]). Il
compositore, allora, viene totalmente investito dal “terrore” staliniano, tanto
da arrivare a vivere – come si dice – con una valigia sempre pronta in caso di
eventuale deportazione “notturna”; questo, dunque, il clima desolato che fa da
sfondo all’opera.
Lasciando da parte la dimensione
biografica, è possibile riflettere, in particolare, sul senso “esteriore”
dell’adeguamento ai moniti di regime. Le critiche mosse dall’articolo citato (Caos
invece che musica) si riferivano soprattutto alle «“dissonanze volute”, il
“confuso accavallarsi dei suoni” e soprattutto la deliberata “volontà di
allontanarsi quanto più possibile dall’opera classica”»[5]. È forse quest’ultima considerazione a muovere il lavoro di “riforma” per la
nuova sinfonia; difficilmente, infatti, l’artista poteva avallare un giudizio
così approssimato e ingerente, come quello sulle sue convinzioni armoniche. Da
qui, Shostakovich preferisce puntare su una riforma del “contesto”, piuttosto
che dei “contenuti”; in questo senso il “contenitore” sinfonico, col suo
intatto potenziale retorico, poteva essere facilmente piegato all’auspicato
intento celebrativo, parenetico del regime. Tutto questo non senza una punta di
sarcastica e svogliata accondiscendenza, laddove il senso dell’umorismo –
stavolta sì, pienamente illuministico di Shostakovich – diventa una sorta di
“voltairiana” arma di difesa nei confronti dell’illuminismo “deviato”
(«illuminismo stesso paralizzato dalla paura della verità»[6])
dell’ideologia sovietica. Per questo motivo le intenzioni celebrative si
risolvono in parodia e automatismo[7], ancora
prima che le controverse, “apocrife” memorie del compositore (raccolte da S.
Volkov), ce lo possano luminosamente confermare:
«Ritengo sia chiaro a tutti quel che “accade” nella Quinta. Il giubilo è forzato, è frutto di costrizione […]. È come se qualcuno ti picchiasse con un bastone e intanto ti ripetesse: “Il tuo dovere è giubilare, il tuo dovere è giubilare…”, e tu ti rialzi con le ossa rotte, tremante, e riprendi a marciare bofonchiando: “Il nostro dovere è giubilare, il nostro dovere è giubilare»[8].
Al di là della psicologia compositiva
(e, ancora una volta, della sfera propriamente personale), è comunque lecito
pensare ad un uso lateralmente “neo-classico” della “forma sinfonia”, adombrato
da Shostakovich proprio a partire dalla quinta. La traccia quadripartita è
seguita più o meno fedelmente: Moderato iniziale, preludiante, a cui fa
seguito lo scherzo, Allegretto (di solita ascendenza mahleriana),
anziché un più prevedibile Largo, traslocato al terzo movimento; quindi
perorazione finale con l’Allegro non troppo. Lo “strumentale” segue la
divisione a 3 dei legni (ott., cl. in Eb e controfagotto), ma senza troppe
concessioni “edonistiche” (eccettuando la celesta, e 34 bb. di piano). E
proprio un uso topico della percussione (emblematica, in questo senso, la
“marcetta” di metà I° movimento, sorta di pantomima “staliniana” di indubbio
sapore bandistico), come della “fanfara” (sempre in forme archètipe, vedi le
stravolte “quinte dei corni” nello scherzo), chiarifica la strategia nascosta –
quasi eversiva – delle formule di “ri-uso” [es. 1], tanto simili quanto
lontane dall’universo mahleriano[9]. La supposta
adesione (o approssimazione) ad un’idea generale di “opera classica” si
esplicita soprattutto in una imperterrita pulsazione della cadenza V-I (la
“cadenza perfetta”), dalla “marcetta” succitata alla fine del I° mov., dallo
“scherzo” ai timpani stranianti del finale, marcando la sinfonia con un sorta
di istitutiva “cifra” beethoveniana[10].
Estetica
L’analisi svolta fino ad ora ci ha come
tenuti all’interno di quelle “concessioni” formali – quasi una sorta di
dimensione impersonale, e quindi “falsata” – attraverso cui Shostakovich trovò
il modo di rapportarsi col mondo “esterno”, soprattutto a partire da questa
sinfonia. La spersonalizzazione obbligata, in risposta ai dettami ideologici
del regime, produce una scissione dolorosa (ma pure salvifica) fra verità
musicale e sovrastrutture accessorie, che domanda incessantemente di reperire
ancora, lungo la partitura, la “rivelazione” musicale im-mediata. E la voce del
musicista si dispiega davvero come un’epifania della verità nei momenti in cui
è inevitabile non sentire la forza dei contenuti, quasi depauperata nella
forma, farsi strada attraverso la musica (una “rappresentazione” totalmente
“altra” e “assoluta” della metafisica musicale, una musica, pure, che «ha preso
su di sé tutta la tenebra e la colpa del mondo»[11]).
In questi frangenti – crediamo – l’autore risolve positivamente la sua volontà
di adeguamento alla critiche formali della “Pravda”, ristabilendo una sorta di
ritorno all’archètipo, all’essenziale, ad un significante intelligibile che non
rinunci per questo al significato, ma anzi lo trascenda ascetizzandolo.
E la volontà si palesa nel principio
base della sinfonia, cioè quello di una polifonia essenzialmente “duale” (la
polifonia occidentale delle origini, degli organa e del contra-punctum,
ma anche delle invenzioni a due voci) o al massimo “ternaria” (il motetus di XIII e XIV secolo, come nelle sezioni iniziali del Largo), che permea
tutta la costruzione sinfonica, dall’incipit “canonico” alle strutture
armoniche del Moderato iniziale [es. 2] (l’armonia “melodica” di
viole e violoncelli/c.bassi sul primo cantabile; le risposte imitate,
rigorosamente a due voci, di corno e flauto); dal discantus fra violini
e viole (al di sopra del tenor dei bassi) nel Largo [es. 3]
alle “divisioni” in compagini, ancora duali/ternarie, del finale. Allo stesso
tempo, non si può negare che diverse sezioni accordali (o meglio un “senso”
armonico esteso) pervadano intere sezioni dell’opera, ma la matrice
contrappuntistica del disegno – in cui è davvero difficile “barare” – ne
costituisce essenzialmente la base. La disposizione armonica (una sorte di
scrittura a “parti late” anche per la fase acuta dell’orchestra) e soluzioni
accordali personalissime e moderne (l’accordo perfetto maggiore col basso di
seconda, su tutte [es. 4]) sono punti altrettanto chiari in cui la voce
intima di Shostakovich emerge in tutto il suo nitore “aereo”, algido, secco (il
suono “scarnificato” dell’ultimo Mahler, il colore “denutrito” di Grosz,
Kokosckha, Schiele).
La dignità musicale della quinta Sinfonia – in conclusione – ci ridona, al di là della sua vicenda storica, il profilo
altrettanto netto di un compositore fondamentale per il '900, un compendio e un
paradigma delle sue qualità particolari; un “testamento” altissimo della sua umanità
e della sua onestà intellettuale. Sempre nelle citate memorie di Volkov,
Shostakovich si riservava ancora il diritto/dovere di dire «tutto quello che
sento il bisogno di dire»[12]attraverso
la musica, e di farlo con coraggio:
«Ci occorre musica coraggiosa, e non uso questo aggettivo nel senso che le note debbano essere sostituite da dichiarazioni di principio, ma coraggiosa nel senso di veritiera. Una musica in cui il compositore esprima sinceramente i propri pensieri»[13].
Il richiamo a un servizio di “verità” da
adempiere nei confronti della musica è pure implicito (sempre lungo le
“memorie”) nei frequenti richiami alla moralità del “compositore” e del suo modus
operandi, lontano da qualsiasi edonistica “per-versione”, come pure da ogni
presunta velleità didascalica, entrambe non ascrivibili allo statuto
particolare della musica stessa. Di fronte alla tensione fra impegno politico e
sfacelo ideologico, fra musica rivelata e musica rivelatrice, fra etica ed
estetica, Shostakovich offre comunque la considerazione sconsolata,
“fortunatamente” inattuale del Largo: una riflessione musicale fra le
più alte del secolo, una miracolosa “musica della verità”.
[1] Per comodità grafica,
abbiamo preferito utilizzare (anche nelle citazioni) questa traslitterazione,
attualmente invalsa anche al di fuori dei paesi di lingua anglosassone dove di
norma è adottata.
[2] Campione, a sua volta, del teatro musicale, come pure del “momento” propriamente esecutivo, più che speculativo. Il binomio musica pura/impura è un’altra vexata quaestio musicologica; certo è che investe, con tutti i limiti del caso, due “categorie” critiche irrinunciabili.
[3] M. MILA, Breve storia della musica, Einaudi, Torino 1963, p. 402.
[4] Particolarmente interessante, in questo senso, la testimonianza di M. Rostropovich (allievo di Shostakovich al Conservatorio di Mosca) sulla opposta personalità dei due musicisti: «Shostakovich venerava Mahler […] e detestava Ciaikovskij. Prokofiev al contrario venerava Ciaikovskij e detestava Mahler» (The classic voice n. 32, Gennaio 2002, p. 48).
[5] M. MILA, Breve storia della musica, cit., p. 402.
[6] M. HORKHEIMER - T.W. ADORNO, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966, p. 6.
[7] A questo proposito si potrebbe ricordare Bergson: «Perché io ho dinanzi a me un meccanismo che funziona automaticamente; non è più la vita, è l’automatismo installato nella vita ed imitante la vita: è il comico» (H. BERGSON, Il riso, in Opere, UTET, Torino 1979, p. 24).
[8] S. VOLKOV, Testimonianza: le memorie di Dmitrij Shostakovich, Bompiani, Milano 1997, p. 281. Le memorie – secondo quanto afferma il giornalista russo che le ha raccolte – sono state redatte sulla base di bobine registrate in diversi colloqui avuti col musicista, quindi “approvati e sottoscritti” dallo stesso Shostakovich. Ma, al momento attuale, pesano ancora forti dubbi di autenticità. «È una rovente autobiografia che stride in modo clamoroso con l’ufficialità del personaggio. In un certo senso è un testo che saremmo lieti fosse stato veramente dettato o scritto dal musicista» (F. PULCINI, Shostakovich, EDT, Torino 1988, p. XVII).
[9] In Mahler, infatti, le formule di “ri-uso” (gli inserti popolari, infantili o “neo-classici”) rappresentano più un esito “patologico”, che non un’effettiva e programmatica volontà discorsiva.
[10] Simile all’uso “codificato” che lo stesso Shostakovich farà del motivo anacrusico di base (corrispondente alla lettera “V” dell’alfabeto Morse) nell’ultimo tempo della Sinfonia n°7, citando, forse, le celeberrime quattro note iniziali della quinta di Beethoven.
[11] T.W. ADORNO, Filosofia della musica moderna, Einaudi, Torino 1959, p. 130. Le parole di Adorno, in questo caso, sono riferite alla musica di Schönberg.
[12] S. VOLKOV, Testimonianza: le memorie di Dmitrij Shostakovich, cit., p. 296.
[13] Ivi, p. 297.