Pensare al futuro
Il 24 luglio del 1975, a pochi mesi dalla sua uccisione, Pasolini scriveva sul Corriere della Sera: «In realtà l’Italia è un luogo orribile: basta andare qualche giorno all’estero e poi ritornare». Parole esagerate, si dirà, di un intellettuale non alieno da un certo radicalismo astratto. È vero. Eppure l’angoscia e il senso di frustrazione che attraversano le pagine dell’ultimo Pasolini credo che non siano estranee a molti di noi che sentono di vivere in un paese che fanno sempre più fatica ad amare e, dunque, a pensare come il luogo nel quale i propri figli cresceranno, faranno esperienza del mondo, studieranno, cercheranno un lavoro dignitoso e possibilmente interessante, ameranno e magari metteranno su famiglia, affronteranno le malattie e cresceranno forse, a loro volta, dei bambini.
Nelle Lettere luterane, una sofferta riflessione sull’Italia dell’epoca, Pasolini presenta quello che definisce un “trattatello pedagogico” rivolgendosi ad un ragazzo, Gennariello. Le ragioni di questa scelta retorica sono sintetizzate nell’incipit: «Uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri». Ogni sguardo presuppone una posizione prospettica. Pasolini esplicita con molta chiarezza la sua: è quella di chi ha «dovuto ammettere di appartenere senza scampo alla generazione dei padri». Le sue considerazioni e i suoi giudizi sono quelli non di un osservatore disinteressato, ma di chi parte da un’assunzione di responsabilità, della più grande e impegnativa responsabilità: quella del genitore nei confronti del figlio. L’Italia che egli descrive è il paese che lui, “padre”, ha concorso, insieme agli altri adulti, a consegnare ai ragazzi, suoi “figli”, che egli non esita a definire “quasi tutti dei mostri”, ma della cui mostruosità si riconosce colpevole.
Non mi interessa discutere le posizioni di Pasolini, che ritengo in parte non condivisibili. È il suo atteggiamento intellettuale e civile, che credo dovrebbe indurci a riflettere. Non solo per il coraggio con cui, nella sua attività di intellettuale critico, si è esposto in prima persona, fisicamente, sulla scena pubblica; ma anche, e in questo frangente soprattutto, per l’ottica dalla quale egli guarda all’Italia: quella di un adulto-padre che si pone il problema di come sia il paese che accoglie i propri figli. È uno sguardo serio, che ha una forte valenza emotiva, non accademico, perché da quel paese, dal suo sistema politico ed economico, dai suoi valori e dai suoi costumi dominanti, dipendono in buona parte le opportunità e gli ostacoli che i propri figli si troveranno davanti nel costruire la loro vita.
È con spirito analogo, mi pare, che Pier Luigi Celli, direttore generale della Luiss, in una lettera pubblicata sul quotidiano La Repubblica il 30 novembre 2009, parla dell’Italia rivolgendosi al figlio. Una lettera in cui Celli afferma che l’Italia «non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio» e definisce la nostra società «divisa, rissosa, fortemente individualista, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e di onestà, in cambio di un riconoscimento degli interessi personali, di prebende discutibili; di carriere feroci fatte su meriti inesistenti. A meno che non sia un merito l’affiliazione, politica, di clan, familistica: poco fa la differenza». Le conclusioni sono amare: «Per questo, col cuore che soffre più che mai, il mio consiglio è che tu, finiti i tuoi studi, prenda la strada dell’estero. Scegli di andare dove ha ancora un valore la lealtà, il rispetto, il riconoscimento del merito e dei risultati […]. Dammi retta, questo è un Paese che non ti merita. Avremmo voluto che fosse diverso e abbiamo fallito. Anche noi».
Strano. Un uomo potente, senz’altro con gli strumenti per aiutare il figlio a fare carriera qui da noi, che prende carta e penna e gli consiglia, pubblicamente, di lasciare una nazione il cui degrado civile rende ormai invivibile; inoltre, cosa non frequente in un paese tanto propenso all’autoassoluzione, si assume la responsabilità per non aver saputo impedire tale degrado. Non pochi, com’era prevedibile, hanno gridato allo scandalo. Eppure nessuno ha nulla da ridire ad un giovane del sud che abbandona la propria terra di mafia perché vuole provare a costruirsi un futuro senza dover diventare complice, omertoso o asservito alla logica mafiosa. Quel giovane lo capiamo, anche se ammiriamo chi resta a combattere. Occorre dunque chiedersi con serietà cosa stia diventando il nostro paese, guardando non solo, com’è giusto, alle scelte politiche ed economiche su scala nazionale, ma anche alle relazioni della vita quotidiana, in famiglia, nei luoghi di lavoro, negli ospedali o nelle scuole; domandarsi se e in che misura una logica mafiosa si stia infiltrando anche nei contesti in cui non sono presenti le organizzazioni criminali e l’arroganza del potere (piccolo o grande, reale o presunto che sia) stia diventando una modalità sempre più diffusa di rapportarsi agli altri.
Certo, potremmo dire che le parole di Celli, e forse anche quelle di Pasolini sono, almeno in parte, delle provocazioni; ma non è questo, a mio parere, il punto e sarebbe un errore consolarsi con questa idea e non guardare al cuore della questione, che credo si ponga in questi termini: che paese stiamo consegnando ai nostri figli e quale esempio stiamo dando loro? La domanda dovrebbe riguardare tutti coloro che, indipendentemente dalle proprie posizioni politiche, hanno a cuore le sorti delle nuove generazioni. I giovani si fanno un’idea della politica, e più in generale del paese in cui vivono, anche e soprattutto sulla base degli esempi che si trovano di fronte. Ecco perché la vera questione con cui fare i conti è quella dei costumi diffusi, dei valori che esprimono e tramandano, della violenza che esercitano, del conformismo che veicolano, dell’usurpazione dei beni pubblici che alimentano e giustificano. Discorso difficile in un paese abituato a non guardare dentro di sé e a raccontarsi la favola della buona società civile contro la cattiva classe politica.
Credo che il nostro paese non sia un luogo orribile e che i nostri figli non siano dei “mostri”: esiste un’Italia civile, come lo stesso Pasolini riconosceva, che però, al contrario di quel che egli pensava, non si identifica con una parte politica. Un’Italia che non sopporta il clientelismo, il familismo amorale, il clericalismo cinico e opportunista, l’approssimazione nel lavoro e la vuotezza della politica spettacolo. Questo paese civile – i cui padri hanno giocato un ruolo fondamentale, ad esempio, nel nostro Risorgimento, nella lotta al Fascismo, nella nascita della Repubblica, nelle battaglie per il riconoscimento delle libertà civili e dei diritti sociali – non ha mai goduto di ottima salute, ma sembra oggi malato e stanco, incapace di levare la sua voce contro l’imbarbarimento della vita civile e politica che è sotto i nostri occhi.
Ogni nascita, ci ricorda Hannah Arendt, è un inizio, è l’irruzione del nuovo nel mondo: c’è allora da sperare in una frattura generazionale che spinga una larga parte dei più giovani a rompere con i propri genitori, con l’arroganza, la miopia, il conformismo o la rassegnazione che li hanno resi responsabili dei mali ci affliggono. Questi nostri figli non avranno il vuoto dietro di loro, ma tradizioni ed esempi, anche vicini, sui cui far leva e di cui alimentarsi, nel tentativo di rianimare e far crescere quell’Italia civile oggi così debole e umiliata.
Vincenzo Sorrentino
IN QUESTO NUMERO
Al centro di questo numero della rivista Cosmopolis (2.2009) c'è una riflessione di ampio respiro, condotta nella sezione d'apertura, sulla vita civile italiana alla luce di quell'"imbarbarimento" che pare caratterizzare attualmente il nostro Paese. L'intento generale si pone nel solco dell'esigenza esposta nell'editoriale curato da Sorrentino: «chiedersi con serietà cosa stia diventando il nostro paese, guardando non solo [...] alle scelte politiche ed economiche su scala nazionale, ma anche alle relazioni della vita quotidiana, in famiglia, nei luoghi di lavoro, negli ospedali o nelle scuole». L'intervista ad Oscar Luigi Scàlfaro costituisce in questo senso l'ideale punto di partenza: ripercorrendo la nascita della Costituzione italiana e rivivendo lo spirito che segnò i lavori dell'Assemblea costituente, possiamo rinvenire la bussola da seguire nella considerazione del senso attuale della nostra vita democratica. Imbarbarimento riguarda in primis la “politica”. D'Andrea si riferisce alla politica attuale considerandola legata al concetto di “sazietà”, avendo il benessere materiale come sua finalità, ma senza un riferimento normativo che possa condurre alla critica del presente. Alla luce di questa cornice generale il “caso” italiano viene trattato sotto diversi punti di vista. Cipriani si riferisce al “sistema ricatto”, come a quella forma occulta e ininterrotta di lotta politica e di potere che continua a caratterizzare, oggi come ieri, l'Italia: il rinnovamento può essere possibile, quindi, solo attraverso il superamento di questo sistema. Inoltre a livello istituzionale, secondo Musella, si stanno vivendo delle modifiche sostanziali: anche la tendenza del nostro paese rientra in quella delle democrazie contemporanee a giungere a forme di presidenzialismo in cui il leader raccoglie sempre più il suo consenso direttamente dalla base elettorale. Sempre su questa linea, Amoretti analizza la specificità dell’esperienza italiana all’interno di processi di trasformazione delle democrazie occidentali, concentrandosi però sui rapporti tra sistema politico e sistema mediale. Anche Pietro Barcellona si sofferma su questo rapporto, analizzando però il cambiamento del ruolo degli intellettuali, attualmente legittimati proprio dalla loro presenza nel sistema mediatico. L'imbarbarimento politico non può ovviamente essere scisso da quello “civile”. Nel suo contributo Truffelli esprime la necessità di una riflessione sulla compenetrazione esistente tra società civile e politica, e quindi sulle reciproche responsabilità di questi due ambiti, in considerazione del sentimento antipolitico sempre più dominante. Un significativo momento di riflessione sull'imbarbarimento civile può essere rappresentato dal problema dell'immigrazione; su questo tema si sofferma Gabriele Del Grande con una lucida testimonianza sulla drammatica realtà dei centri di espulsione e dei respingimenti in Libia, visti quali espressioni dell'erosione dello stato di diritto «a partire dalle frontiere geografiche e da quelle sociali». Dal punto di vista economico, il tema dell'imbarbarimento viene declinato attraverso l'analisi del fenomeno “povertà”, per far fronte al quale, secondo i dati statistici a disposizione, il nostro paese non avrebbe messo in campo serie e concrete politiche di contrasto (Marsico). D'altra parte, tale assenza di azione si rinviene anche in altri due casi: il contributo di Franca Papa analizza i destini, diversi ma collegati, di Bari e Napoli, anche questi esempi dell'esigenza che l'Italia raggiunga una fase più alta della sua storia democratica, mentre Guadagnucci si occupa delle mancate risposte della politica italiana alla recente crisi economico-finanziaria globale. Riflettere sull'imbarbarimento significa, però, anche rivolgersi a tutti quegli aspetti che caratterizzano la vita quotidiana delle persone. Stefano Martelli, con una riflessione sull'“erosione” del tessuto civile italiano, illustra, sulla base di una considerazione macro e micro del processo di incivilimento, quelle trasformazioni materiali e socio-culturali che favoriscono comportamenti incivili o “barbari”. La crisi dello sport italiano è il tema affrontato da Giuseppe Sorgi in un intervento che si conclude con un richiamo ad un nuovo senso di responsabilità, mentre Sartori analizza il rapporto medico-paziente nella sanità italiana. Infine, Prenna affronta il problema della crisi dell'educazione e della scuola, sottolineando comunque il loro fondamentale e costruttivo legame con la democrazia.
Nella seconda sezione, “Sguardi sull'Iran”, Cosmopolis intende fornire tre prospettive dalle quali guardare alla situazione iraniana: Mollajani compie una dettagliata analisi dei movimenti in atto nella società iraniana, in particolar modo considerando quanto accaduto dopo le elezioni presidenziali del giugno 2009; Danesch, invece, si occupa più propriamente del tema politico, parlando di un regime che si situa in maniera problematica tra dittatura, libertà e processo rivoluzionario; Bayat, infine, offre un'analisi molto approfondita della tecnologia nucleare, prendendone in considerazione costi e benefici, ma soprattutto le conseguenze dal punto di vista politico.
La consueta sezione “Fra le righe” ospita contributi che riguardano l'arte, la letteratura, la politica e l'economia. Se Agis ci parla del tema della giustizia globale, collegandolo alla tematica, filosoficamente più generale, del dono, con l'intervista a De Poi si apre uno spazio di riflessione sull'economia umbra, sui suoi problemi e sulle prospettive che si possono aprire soprattutto a livello imprenditoriale. L'intervista a Bruno Ceccobelli ci offre un'interessante visione dell'arte del Terzo Millennio, astratta, simbolica, metafisica, ma socialmente “profetica”, mentre il contributo di Marianna Forleo propone una lettura del romanzo fantastico Flatlandia, riflettendo soprattutto sul ruolo che in esso hanno la matematica e il concetto di spazio.
Romina Perni