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Il conflitto israelo-palestinese
tra ruolo dell'informazione e prospettive di pace

Maso Notarianni, Ugo Tramballi, Iman Sabbah
Intervista a cura di Roberto Vicaretti

Le ultime elezioni politiche in Israele hanno sancito la vittoria del Likud, il partito di Benjamin Netanyahu e dell'estrema destra di Avigdor Lieberman, divenuto nuovo ministro degli Esteri. Una netta sconfitta per i moderati di Kadima.

NOTARIANNI: Stiamo attraversando un periodo, non solo in Israele e in Medio Oriente, in cui i moderati vengono sconfitti praticamente in tutti i Paesi del mondo. Figuriamoci quanto sia difficile prevalere per i moderati in una situazione come quella di Israele in cui giocano un ruolo determinante la rabbia e la paura e ci sono molte forze, non sono politiche, che non vogliono chiudere il conflitto. Quando ci sono la rabbia e la paura da una parte, la fame e la disperazione dall’altra, è molto difficile che a prevalere siano i toni moderati e la ricerca del dialogo. Ho visto direttamente quello che succede in Afghanistan, quello che significa avere una breve aspettativa di vita. Ho visto la paura della gente di saltare su una mina, di non arrivare alla fine della giornata per un missile o una bomba. E, anche se può sembrare assurdo per noi, fare il guerrigliero è per molti l’unica strada per allungare la propria vita e le proprie speranze, anche perché le organizzazioni si danno molto da fare per sostenere le famiglie di chi fa quel tipo di scelta. E lo stesso succede lungo la Striscia di Gaza; ogni volta che piovono armi sulla popolazione l’unico risultato che Israele ottiene è quello di allevare giovani che vedono nella violenza la miglior risposta possibile per aumentare le proprie speranze. Non sono molto ottimista. Va compreso che, come sempre nella storia politica di Israele, i risultati elettorali trovano la propria base e, in definitiva, la propria causa in elementi caratterizzanti la vita di tutti i giorni e cioè, torno a dire, la rabbia e la paura. Ma è poi la comunità internazionale a dover giocare un ruolo decisivo nel conflitto israelo-palestinese e nella ricerca di una soluzione. È la storia e la nascita stessa di Israele a dirci quanto sia determinante il peso e il ruolo della comunità internazionale.

TRAMBALLI: È semplicemente una reazione, una paura degli israeliani. Israeliani e palestinesi si combattono da sessant'anni, ma sono due popoli assolutamente speculari l’uno rispetto all’altro. Due popoli che vivono sovrapposti sulla stessa terra, che è poco più grande del Molise. E quindi hanno esattamente le stesse reazioni gli uni verso gli altri. Come tre anni fa, democraticamente e legittimamente, i palestinesi votarono per Hamas, così adesso gli israeliani per le stesse ragioni, per la paura e tanto altro hanno votato per le destre. Due elezioni democratiche, due elezioni legittime, due risultati pessimi.

SABBAH: La vittoria della destra israeliana è da collegare soprattutto alla politica interna – in quanto in Israele si è arrivati negli ultimi anni, e più precisamente dalla morte di Itzhaq Rabin, ad uno stallo nella politica interna ed internazionale, ma soprattutto quella legata al processo di pace. Da allora tutti i governi, di destra con Ariel Sharon, poi di centro con la nuova formazione sempre di Sharon ma questa volta insieme a Kadima e di sinistra con i laburisti, non sono riusciti a raggiungere nuovi obiettivi: né per quanto riguarda il processo di pace né per quanto riguarda la sicurezza interna. Dagli attacchi kamikaze si è passati alla minaccia dei razzi Qassam, mentre la situazione economica è andata sempre peggiorando e l'immagine di Israele nel mondo ha avuto un forte declino legato alle violazioni dei diritti umani commesse nei confronti della popolazione palestinese. Ci sono da considerare, poi, anche i temi strettamente interni, legati al coinvolgimento di molti leader indagati in questioni giudiziarie. In questo senso, un duro schiaffo è stata l'inchiesta di corruzione nei confronti dell'ex premier Ehud Olmert, ma non va dimenticata nemmeno quella legata all'ex capo dello stato Moshe Katsav che lo vedeva coinvolto in un processo di presunte molestie sessuali.
In questo momento, poi, in Israele pesa l’assenza di una vera leadership: e la scelta è stata talmente difficile che ha portato ad un testa a testa tra l'erede di Sharon, Tzipi Livni, che non è riuscita a formare una coalizione, e l'unico leader storico legato alla vecchia scuola, Binjamin Netanyahu, che, come unica speranza per formare un governo di coalizione, ha dovuto coinvolgere partiti che potrebbero portare al fallimento di questo esecutivo in ogni momento come Israel Beitenu.

Possiamo leggere la vittoria del Likud come una risposta alla svolta moderata di Obama? E il nuovo corso dell’Amministrazione americana ha aumentato le speranze e le prospettive per una pace in Medio Oriente?

TRAMBALLI: No, nessuna risposta alla svolta moderata di Obama. Certo, se fosse stato eletto un governo diverso in Israele e se in passato gli israeliani avesse dato un po’ più forza al governo di Abu Mazen e di Fatah probabilmente oggi l’effetto Obama sarebbe più forte. Invece in questo momento, in un quadro così depresso in Medio Oriente, l’Amministrazione Obama e la possibile politica della nuova Amministrazione statunitense in Medio Oriente sono l’unica speranza e, se il processo non potrà essere realizzato, quantomeno non morirà. Non c’è altro. È tutto da vedere, è da vedere se l’Amministrazione Obama avrà quella forza e quella capacità per essere quello che è necessario che gli Stati Uniti siano in Medio Oriente, cioè l’honest broker, il “mediatore onesto”. Fino ad ora gli americani sono sempre stati molto più mediatori di parte israeliana che di parte palestinese. Obama ha dato tutti i segnali per essere disponibile a fare finalmente il vero mediatore di un processo di pace. Il problema è che mancano gli altri soggetti.

SABBAH: Obama è la speranza ma anche la preoccupazione di molti israeliani. Il presidente statunitense è stato molto chiaro sin dall'inizio del suo mandato. Ha messo il processo di pace in Medio Oriente fra le priorità, ma ha fatto anche due importanti passi in avanti difficili forse da accettare dall'estrema destra israeliana: ha teso la mano all'Islam e al mondo arabo e ha scelto il re della Giordania Abdullah come suo primo ospite medio orientale alla Casa Bianca. Ma è ancora prematuro dire che con Obama arriverà la svolta, visto che da 60 anni siamo in attesa della pace.

NOTARIANNI: Spero proprio di no. Credo sia un’esagerazione. Netanyahu, più banalmente, ha vinto perché ha incarnato la risposta alle paure degli israeliani. Non credo ci sia un link diretto con la vittoria di Obama. Poi, senza ombra di dubbio, il nuovo presidente degli Stati Uniti è un moderato, soprattutto se paragonato alla politica dell’Amministrazione Bush. E gli Stati Uniti, il grande e storico alleato di Israele, sono l’unico Paese al mondo in grado di spingere Israele verso la moderazione. Ma quello israelo-palestinese è un conflitto così feroce, insensato o sproporzionato che per ricostruire un clima disteso ci vorrà tempo, tanto tempo.

E in uno scenario così diverso rispetto al recente passato che ruolo può giocare l’Unione Europea?

SABBAH: L'Unione europea ha perso più volte l'occasione in Medio Oriente, soprattutto negli otto anni della presidenza Bush. La Ue doveva essere l'ago della bilancia e poteva essere un vero protagonista della pace medio orientale ma, dato che non è stata all'altezza di trovare una politica comune, ogni sforzo fatto si rivelava infruttuoso. L'Unione europea, poi, ha da sempre un comportamento poco coraggioso, soprattutto nei confronti dei palestinesi. È stata sempre uno dei maggiori finanziatori nello sviluppo industriale e sociale della Palestina, ma le azioni politiche sono state molto meno generose. Come se si volesse pagare con il denaro quello che non si riesce a fare con le vere azioni di diplomazia. Vedremo ora se Obama riuscirà ad unire più l'Europa.

TRAMBALLI: Non credo che l’Unione europea abbia mai ricoperto un ruolo, né ne ricoprirà mai uno, se non quello economico, di dispensatore di aiuti. Il peso dell’Unione europea, per esempio, in questo senso è molto forte nei territori palestinesi. Gli accordi economici che l’Ue fa con Israele sono molto importanti. Anche questo in un certo senso aiuterebbe a stabilizzare il quadro se la situazione politica fosse diversa. Sul piano politico non credo che l’Europa abbia alcun potere o alcuna forza. Innanzitutto non ce l’ha perché non c’è una politica unica riguardo al problema israelo-palestinese, ma anche riguardo all’Afghanistan, all’Iran o a qualsiasi altra cosa. Le cancellerie nazionali continuano ad essere più importanti. Il Ministro Frattini, ad esempio, è stato il primo a invitare in visita ufficiale il nuovo ministro degli Esteri israeliano, Lieberman. Può anche andare bene, purché sia nell’ambito di una azione concordata dall’Unione Europea. Perché se l’Italia apre le porte a Lieberman e alla sua politica “curiosa” e poi la Francia, la Germania o la Gran Bretagna le chiudono ecco una delle ragioni perché poi l’Europa nel suo complesso non conta nulla.

NOTARIANNI: Dal punto di vista politico l’Europa non esiste, non esiste una politica estera europea. Qualcuno dice perché l’Unione non ha un suo esercito, io non credo che la ragione possa essere quella. Tuttavia, il risultato è che quelli che arrivano dalle istituzioni europee sono solamente dei borbottii e nulla più.

Cosa non sappiamo, cosa non ci viene raccontato del conflitto israelo-palestinese? Quanto è stato difficile lavorare durante l’ultimo conflitto di Gaza?

NOTARIANNI: Non c’è censura o cose che non sappiamo. Le notizie arrivano nelle nostre case e se si vogliono trovare si trovano. Anche quelle più scomode sulle armi non convenzionali ci sono, magari non viene dato loro il giusto risalto. O meglio non vengono raccontate nel modo corretto. Dire che a Gaza sono morti 300 bambini non vuol dire nulla per gli italiani. È un dato, macabro e duro, ma ha sempre la freddezza del numero, della cifra. Andrebbero raccontate le storie, un’esperienza concreta di una comunità, di una famiglia o anche solo di una persona per far comprendere veramente quello che accade. Una comprensione profonda che le cifre non possono dare. L’11 settembre è entrato nel nostro immaginario perché è stato ben raccontato, abbiamo conosciuto storie, sentito persone descrivere quei momenti e la loro esperienza. Però quando si racconta del resto del mondo non si fa lo stesso. Non so se questo avvenga per una scelta precisa, resta il fatto che in questo modo non si forniscono alle persone gli strumenti per farsi un’idea, per decidere. Faccio un altro esempio, la crisi economica. Si parla di milioni di posti di lavoro persi, di tagli del Pil. Dati e numeri, ma non ho ancora visto un reportage sui distretti dell’Emilia Romagna dove dal venerdì al lunedì hanno chiuso delle fabbriche e molte persone si sono ritrovate senza lavoro. Come non ho visto le telecamere nelle case di quelle persone che hanno perso il lavoro o sono in cassa integrazione e che, grazie a qualche risparmio messo da parte, riescono ancora ad arrivare alle fine del mese, ma che tra poco tempo si troveranno veramente con il problema di cosa dar da mangiare alla propria famiglia. Chi gestisce le informazioni fa una scelta, una scelta politica, una scelta colpevole perché si svuota la democrazia. E il ruolo del giornalismo, invece, è sempre stato quello di dare alle persone gli strumenti e le informazioni per scegliere. Questo è un problema particolarmente grave in Italia, ma è così anche nel resto del mondo. L’idea e la volontà di PeaceReporter è proprio quella di raccontare e far comprendere quelle vicende che normalmente arrivano nelle nostre case con la freddezza dei numeri.

SABBAH: Quello che non viene quasi mai raccontato è la vita quotidiana di molti palestinesi, costretti a vivere da anni sotto occupazione con molti dei loro diritti negati. Ma un'altra cosa di cui si parla molto poco è il fatto che la convivenza è possibile. Mi torna sempre in mente un'immagine legata a Jenin, una città della Cisgiordania: il venerdì di Jenin è la vera dimostrazione che la pace e la convivenza tra i popoli e le religioni è possibile. A Jenin, di venerdì, le strade sono piene di ebrei, gente che sceglie questa piccola città palestinese per la giornata di riposo, magari per andare al mercato, al ristorante o semplicemente per passeggiare per le strade. È stato molto difficile commentare una guerra che si sapeva dall'inizio non avrebbe ottenuto i risultati per cui era iniziata, ovvero il disarmo di Hamas. Ed era ancora più difficile commentare le immagini di bombardamento e morte – soprattutto le immagini dei bambini. Poi seguire una guerra solo attraverso gli schermi di alcune emittenti e agenzie non è come stare in quei luoghi e raccontare ciò che si vede. A molti giornalisti è stato negato l'accesso alla striscia. Una fonte attendibile per me è stata soprattutto quella legata ad organizzazioni non governative e alcuni uffici dell'Onu che ci tenevano aggiornati su quanto accadeva.

TRAMBALLI: Forse la guerra di Gaza è stata l'epitome di un processo che è arrivato alla sua perfezione. Nel senso che da molto tempo è sempre più difficile per i giornalisti lavorare in un quadro di conflitto. Non solo per motivi di sicurezza, ma proprio perché le propagande dei governi e degli eserciti si sono affinate. E devo dire che in quest’ultimo conflitto gli israeliani hanno raggiunto il vertice di qualità, di mistificazione e di disinformazione. Io ero tra quei giornalisti che, da Israele, aspettava di poter entrare a Gaza finché gli israeliani non ci hanno concesso di farlo e questo è successo solo alla fine della guerra. E quando sono arrivato a Gaza, guardando quello che era accaduto e guardando i risultati di quel conflitto, ho capito che per tre settimane avevo raccontato un'altra guerra. Non era andata esattamente come le forze armate e i loro portavoce ci avevano raccontato. Era stato qualcosa di molto più complicato e di molto più difficile. E credo che sarà sempre di più così. In un campo di battaglia ci sono giovani che muoiono per i propri ideali. Vanno per raggiungere una vittoria e sono pronti anche a morire; e per questo credo che meritino rispetto. Noi giornalisti non possiamo pretendere di avere una tribuna o una sala stampa in mezzo al campo di battaglia. Dobbiamo pagarne le conseguenze e accettarne tutti i rischi. Ma qui è avvenuto qualcosa di diverso: alla fonte non ci hanno permesso di vedere cosa stava accadendo realmente perché nel frattempo ci disinformavano. Lo avevano fatto anche gli americani in Iraq. E credo che questa cosa diventerà sempre più comune nei conflitti.

Ma c’è ancora una prospettiva di pace in Medio Oriente?

NOTARIANNI: Senza dubbio, una prospettiva e una speranza di pace c’è e ci sarà sempre. È la condizione naturale del genere umano. Quello che ci differenzia dagli animali è proprio la capacità di ragionare e la capacità di frenare la nostra aggressività. Per questo la speranza di pace non si spegnerà mai. Poi, però, di contro, c’è il fatto che non sono molti a voler veramente spegnere il conflitto israelo-palestinese. È quel conflitto ad accendere e alimentare le teorie che parlano di scontro di culture e di civiltà. Per questo fa comodo a molti non trovare una soluzione per esso.

TRAMBALLI: Come tutti i conflitti anche questo finirà, non esiste la guerra per sempre, quindi prima o poi finirà. Francamente non so dire se la mia generazione vedrà questa pace. Adesso non c’è alcuna possibilità, anzi, più si va avanti e più diventa difficile. Manca lo spazio, anche fisico, perché possa nascere lo Stato palestinese poiché le colonie ebraiche continuano ad allargarsi e gli avamposti cominciano a diventare sempre più colonie. Il processo di colonizzazione dei territori non è mai cessato ed anzi, soprattutto nei momenti del processo di pace le colonie si sono moltiplicate. Fra poco sarà fisicamente impossibile che possa nascere lo Stato palestinese. Le condizioni e i meccanismi per farlo, i punti da realizzare sono noti a tutti, ma non c’è la volontà politica. E la cosa più grave non è che non ci sia la volontà politica delle leadership palestinese e israeliana, quanto che a mancare sia la volontà dei due popoli. Il modo con il quale i palestinesi hanno scelto liberamente Hamas e il modo con il quale gli israeliani hanno scelto liberamente le destre ci dimostrano che i due popoli non sono assolutamente pronti a fare quelle dolorose rinunce necessarie per arrivare alla pace.

SABBAH: La speranza di pace resta. Ciò che occorre sostenere è l'idea che la pace si fa con il nemico.

 

Interviste realizzate tra aprile e maggio 2009

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