Esperienza storica e cinema in Carlo Lizzani
Gualtiero De Santi
1. Cineasta legato alla storia
un po’ quasi per definizione – per propria scelta e poetica – sin dai lontani
documentari che lo videro avviarsi alla regia e sin dai primi lungometraggi,
Carlo Lizzani è stato ed è tuttora anche un critico ed uno storico del cinema.
Le tematiche dei film da lui diretti hanno infatti privilegiato – pur se non
nell’interezza della sua produzione – le vicende pubbliche della nazione e del
nostro popolo, concentrandosi in un primo momento sugli anni compresi tra il
fascismo e la ricostruzione del dopoguerra, con un ideale epicentro nella
guerra di Liberazione e nella Resistenza, di lì volgendosi verso una linea di
tendenza che ha guidato il nostro alla rivisitazione e al recupero di un certo
Ottocento (si pensi alle fatiche abbastanza recenti de Le cinque giornate).
A riprova – come hanno indicato grandi saggisti e commentatori politici e come,
per rimanere nell’ambito del cinema, dimostrò a suo tempo Luchino Visconti –
che si debbono e possono rinvenire le radici e persino i nodi irrisolti della
questione italiana nel fondamento dato a suo tempo alla nostra unità nazionale.
Ne era
consapevole lo stesso Lizzani quando, al momento dell’uscita del Processo di
Verona nei primi mesi del 1963, si trovò a sottolineare in un articolo
ospitato dalla rivista di Aristarco “Cinema Nuovo” la correlazione esistente
tra l’impianto storico e critico del proprio film e quanto egli si aspettava
che sarebbe arrivato col Gattopardo di Visconti, ancora inedito e non
conosciuto dal grande pubblico.
Da un lato
abbiamo dunque il regista, mirante il più spesso a organizzare materiali
storici. Ma per altro lato andava in Lizzani sempre più disponendosi e
affinandosi il lavoro critico. Un lavoro che in un certo senso antecede persino
il suo ingaggio nel cinema e nella regia, risalendo ai primi anni '40, quando
egli era ancora un giovane di belle speranze al quale però era arrisa la
fortuna di collaborare con testate prestigiose, non soltanto di cinema. Un
impegno ostensibilmente mai cessato (ne fanno fede i numerosissimi interventi
saggistici e critici, raccolti ad esempio nel volume Attraverso il Novecento,
e i diversi libri editi in tanti anni), che avrebbe raggiunto l’apice nel
saggio sulla storia del cinema italiano, a diverse riprese aggiornato ma
comunque indiziabile in quel non corposo volumetto (172 pagine di testo,
seguite da una filmografia e da indicazioni di metodo stilate da Leopoldo
Paciscopi e Giorgio Signorini), che l’editore fiorentino Parenti, un benemerito
della nostra cultura civile e avanzata, mandò alle stampe nel 1953 chiudendone
la realizzazione nel mese di giugno di quello stesso anno. Il titolo che il
volume portava era – senza presunzione e senza accademismi – Il cinema
italiano. Si voleva un’opera aperta e soprattutto non paludata, che non
esibisse dall’inizio le proprie referenze accademiche e scientifiche. Ma quell’indicazione
del titolo era poi assai precisa giacché, più che comporre una storia, serviva
a dar risposta alle domande che ormai sorgevano in tutto il mondo sulla natura
del cinema neorealista.
Un
particolare curioso fu che sulla sovracoperta esterna di Lizzani compariva solo
il cognome, un po’ alla sovietica o almeno come si faceva nei cast creditdei film provenienti
dall’Urss, mentre il risarcimento del nome di battesimo si poteva incontrare
sulla copertina e nel frontespizio. Poi, come si sa, approfondendo e
accogliendo altri umori e esperienze, e anche allargando l’originario punto di
vista, il titolo originale si sarebbe variamente modificato. Così, ad esempio,
l’edizione impressa nell’aprile 1979 a cura degli Editori Riuniti recitava
espressamente Il cinema italiano 1895-1979 (ma si ricorse in ogni caso
anche a Storia del cinema italiano, con il che si rientrava nella norma
e nel genere).
Per un
cospicuo corso d’anni, in Lizzani, il lavoro del regista e quello dello storico
(sia pure con un sale e un piglio critico sempre versati sul presente) sono
comunque proceduti in parallelo. Si sono unificati e forse per così dire hanno
comunicato nella persona dell’autore, nelle idee da lui professate, in breve
nella militanza culturale. Poi ad un certo punto si è visto con piena nettezza
come Lizzani, pur continuando a raccontare storie e a fare insomma fiction,
piegasse gli strumenti del proprio cinema verso una scelta, o comunque una
misura, di tipo storiografico. Nell’esempio appena sopra menzionato de Il
Processo di Verona, quello che appariva il concatenamento tra vicenda
privata e tragedia nazionale risultò tale da costringere a linee interpretative
che non potevano restare indefinite, nel senso che c’erano dettagli importanti
del racconto non celabili alla cinepresa, che non dovevano rimanere in sospeso
o restare imprecisati per l’economia e il senso narrativi.
Non era
soltanto questione di gettare una maggiore luce su tutta una serie di
interrogativi e incertezze ancora a quei tempi largamente impregiudicati. Tale,
ad esempio, la misteriosa e forse sovrastimata avventura dei diari di Galeazzo
Ciano, utilizzati per salvarsi dall’esecuzione capitale come armi di ricatto
verso fascisti o nazisti, oppure il ruolo tenuto in quei tragici frangenti
dalle diverse personalità, a cominciare da Edda Ciano per venire a Mussolini e
ai diversi gerarchi. Ancora alcuni anni dopo, nel 1974, un problema simile si
sarebbe ripresentato con un film sempre di stretto impianto storiografico, Mussolini
ultimo atto. Dato che il cinema è un’arte della visione e dell’azione fu
giocoforza far vedere come fossero stati uccisi il Duce e la Petacci: qui la scelta drammaturgica diveniva la risposta a uno dei quesiti storici su cui
più ci si era inquisiti e scontrati nell’ultimo trentennio (e su cui, come si
sa, si continua ancora molto a discutere).
Ma, appunto
per il senso e le linee del cinema, la macchina formale che ne surcodifica e
infine organizza le regole obbligò, nel caso dei film d’impianto storico, a una
scelta anche storiografica (del resto presente nel Luchino Visconti del Gattopardo,
quantunque pochi dei critici italiani si fossero avveduti che, nell’affresco
cinematografico del romanzo di Tomasi di Lampedusa, l’autore milanese aveva
fatto largo uso dei più recenti testi della nostra migliore storiografia sul
Risorgimento, testi inesistenti nel tessuto connettivo dell’opera letteraria,
dove quelle tesi e quelle specifiche notazioni non erano state affatto prese in
considerazione).
Se i problemi
di un legame tra un pensiero in qualche modo interpretativo e storiografico e
la realizzazione di film storici agiscono in Lizzani già apertamente con L’oro
di Roma e con Il Processo di Verona, si direbbe più rilevante
e sintomatico quanto avvenne in seguito. Allorché in un qualche modo gli capitò
di superare le soglie fluide del racconto di finzione, da cui in fondo avevano
ricevuto connotazione i suoi maggiori film del decennio '50–'60, da Achtung!
Banditi! a Cronache di poveri amanti sino a Il gobbo, per
approdare ad uno standard sia rosselliniano, sia un po’ documentaristico. Penso
a quei film che raccontano la vita e le convinzioni ideali di grandi
personalità del secolo passato. Tale ad esempio il film del 1986 su Giorgio
Amendola (Un’isola). Tuttavia il passo ulteriore e definitivo, su cui
alla fine si sarebbe saldato tutto – il cinema e la storia, la storia del
nostro paese e quella del cinema italiano (e che anzi fa del nostro cinema a
cominciare da Roma città aperta lo specchio esatto delle nostre vicende
nazionali) – fu quando Carlo Lizzani si diede a realizzare i suoi ritratti
d’autore. Quelli di Rossellini, di Luchino Visconti, di Cesare Zavattini; poi i
tanti realizzati per il Museo del Cinema di Torino su personalità grandi e piccole
della nostra cinematografia. Così in
conclusione, per il regista romano fare storia del cinema dirigendo film
storici e portando sullo schermo personaggi prima comuni (i partigiani di Achtung!
Banditi! o i cornacchiesi della Firenze di Cronache di poveri amanti),
poi appartenenti alla storia ufficiale, da Mussolini sino al dirigente
rivoluzionario Bucharin in Caro Gorbaciov, ha avuto lo stesso
significato di delineare quella che era ed era stata la storia del cinema.
Prima tracciandola e argomentandone gli snodi nei libri e nelle riviste, indi
trasportando in un qualche modo la scrittura saggistica sul grande schermo,
facendola insomma divenire scrittura cinematografica. Da un lato abbiamo film
storici come Fontamara, pur con tutto il suo portato romanzesco, o come Il
Processo di Verona oppure L’oro di Roma; dall’altro pellicole sulla
storia del cinema come Celluloide.
È forse
dirigendo per il grande schermo il libro di Ugo Pirro sulla nascita di Roma
città aperta, il film-manifesto del neorealismo, costruendo cioè un
racconto intorno ad un film – quello di Roberto Rossellini e Sergio Amidei –
che era sì di finzione, ma avvertito e sentito da tutti alla stregua di una
rappresentazione oggettiva degli anni dell’occupazione e della guerra, che a
Lizzani deve essere venuta in mente l’idea di excursus e medaglioni
filmati sulla straordinaria vicenda del nostro cinema dal dopoguerra a tutto il
trentennio-quarantennio successivo. Affidati però – e questo è il fatto – alla
scrittura non unicamente della penna ma altrettanto della cinepresa.
Insomma, per
Carlo Lizzani fare storia col cinema ha voluto dire anche raccontare la storia
del nostro cinema con l’ausilio e il tramite dell’occhio cinematografico.
2. Forse non è
propriamente intorno al cardine del realismo e nemmeno in senso stretto del
neorealismo, che ruota l’asse del discorso di Lizzani. Si può invece
individuare la più importante carta d’identità formale della sua produzione,
sia critica che creativa, in una peculiare difesa di una linea civile del film
cui la storia per sua parte concorre. Ben ovvio che, su questa posizione,
l’influenza di maggior forza sia stata quella della corrente neorealistica
(usiamo intentivamente tale formula perché non crediamo nella definizione che
individua tanti neorealismi in ciascheduno degli autori maggiori o intermedi:
pur nello svolgimento a confronto e a divario, non solo
stilistico, ricorrono evidentemente in questi autori comuni e condivisi
denominatori formali). Del resto Lizzani, che ha sempre ostacolato con l’arma
della riflessione il processo di revisione che al riguardo è venuto divampando
nella critica italiana dopo il lontano e per noi sorpassato convegno di Pesaro
del settembre 1974, è tornato su tali questioni con la consueta lucidità a
diverse riprese. Ultima delle quali l’articolo scritto in ricordo di Alberto
Lattuada per la rivista “Libero” legata al Premio Bizzarri: «Non voglio qui
allargare il discorso al tema più generale dell’identità stessa del movimento
neorealista. Da decenni insisto sugli aspetti di rivoluzione formale, oltre che
di contenuti, del movimento, relegando nell’aneddotica le tante motivazioni
contingenti che certamente ne aiutarono la nascita: i pochi mezzi a
disposizione, la mancanza di teatri di posa ecc.».
La tensione e gli ideali anche formali del dopoguerra e degli anni '50 – con un cinema che si vuole espressivo della totalità del popolo e della
società, in grado di recare contributi essenziali alla crescita del paese e
alla sua riconoscibilità attraverso la cultura – compongono per così dire una
delle cellule armoniche dell’opera di Lizzani, pur con i sostanziali e in certi
casi decisivi cambiamenti intervenuti nel quarantennio successivo e con quella
varietà di tematiche e stili che ne hanno connotato il lavoro. Avendo egli
infatti praticato se non tutti almeno numerosi generi, dalla commedia al dramma
al western, dal documentario al film storico, sino
alle cronache filmate quasi in presa diretta nel cosiddetto instant movie.
Se gli
intendimenti e le speranze degli anni d’avvio hanno offerto anche a Lizzani
vari pretesti di figura per i suoi film maggiori e per i tanti non realizzati,
quelle attese hanno pur dovuto confrontarsi con la realtà della macchina
cinematografica e del potere economico e politico. L’emarginazione che gli
venne comminata negli anni '50, pur dopo i successi di Achtung! Banditi!
e soprattutto di Cronache di poveri amanti, venne in seguito superata.
Prima
facendo vedere – con Lo svitato, una commedia del tutto fuori riga e
decisamente innovativa, e insieme con un documentario bello e ben godibile
quale fu La muraglia cinese – le capacità conquistate sul piano del
lavoro di regista e narratore di storie. Poi anche registrando e imprimendo nel proprio lavoro
le variazioni e le crisi del nostro cinema, ma anche aiutandone, o almeno
seguendone da presso, le trasformazioni.
L’opera di
Lizzani, dalla metà degli anni '50 e poi dagli anni '60 in avanti, ha certo
tradito l’esigenza e la foga di un costante adeguamento alle novità. Si
potrebbe anche pensare con qualche probante ragione – e del resto è stato detto
– che il suo impegno anche ideale abbia infine rinvenuto una propria ubicazione
nel mestiere e nelle propensioni etiche della regia. Laddove all’opposto la
pratica mai abbandonata della scrittura saggistica e critica poteva essere più sciolta dai lacci delle esigenze produttive e contingenti e, magari, continuare
ad agire se non oppositivamente quantomeno criticamente.
Eppure è
anche nel cinema vivo e vissuto, nell’impegno della realizzazione dei propri
film pur nel dedalo delle regole e delle costrizioni, che Lizzani si è mostrato
non libero ma sicuramente non conforme e omologato alle dominanti linee
culturali. Già la vicenda di Alvaro, il gobbo del Quarticciolo, raccontata
appunto ne Il gobbo, stava in netta difformità dalle regole del film
resistenziale raccontando un caso di delinquenza banditesca insorto sul ceppo
della guerra di liberazione: un caso, si sarebbe potuto dire dopo, di
deviazione che offriva già materia di riflessione se non al revisionismo
storico certo a una diversa considerazione storica.
Lo scarto più forte e radicale avviene nondimeno con Il Processo di Verona. La parola
d’ordine della storia inverata e calata in un corpo collettivo non vi è disattesa, ma viene in parte traslata in un dramma di corte dalle cupe note shakespeariane. Lizzani concede il
primo piano a personaggi familiari al grande pubblico e ad un pubblico avveduto
e politicizzato: Rachele Mussolini, il di lei consorte, il genero Galeazzo, la
figlia Edda. Non era mai accaduto in un’opera italiana, se non nei film di
costume e ottocenteschi (da Scipione l’africano a Camicie rosse,
per intenderci). Insieme alla notorietà delle figure principali e dei
comprimari, furono le sottolineature in primo piano dei volti e dei gesti,
determinate appunto dal cinema, a costringere a un tipo di introspezione
psicologica, e insomma di partecipazione che in parte parve rasentare
l’ambiguità.
La scoperta e
la lezione del film è che la storia anche quotidiana non fluisce nel solco
della prevedibilità dialettica o pseudodialettica. Quasi essa, e il racconto
che la sorregge, si prendessero gioco dell’ovvietà. Qualcosa di affine si
sarebbe poi ripresentato col successivo La vita agra, tratto dal libro
anarchico e disperato di Luciano Bianciardi tuttoché travasato nei gradienti
di
una commedia all’italiana dal tono temperato che non si nega nel finale un
guizzo apocalittico. Anche le pellicole sul neo-gangsterismo metropolitano (da Svegliati
e uccidi a Banditi a Milano) e quelle sulla delinquenza e devianza
sociale in ambito rurale e isolano (Barbagia), si sottraggono
palesemente alle regole del “politically correct”. Nel senso che lo schema
ormai corrivo e facile dell’identità tra banditismo e ribellione sociale, che
era stato imperante nel dopoguerra e negli anni '50 (da Il lupo della Sila
a Non c’è pace tra gli ulivi, da La città si difende allo stesso
secondo film di Lizzani, Ai margini della metropoli) e anche negli anni ‘60 (Banditi ad Orgosolo, Il brigante) e poi nei parametri della
contestazione, viene forzatamente abbandonato a favore di un modello
sociologico, e dunque anche
interpretativo, che risulta ben differente.
Nella mutata
vita metropolitana cambiavano le regole fondamentali di convivenza; stava
avanzando il consumismo; cadeva la solidarietà dei decenni antecedenti, mentre
apparivano fenomeni nuovi che non potevano venir spiegati con le regole
dell’emarginazione e della povertà. I film di Lizzani del periodo vennero così
avversati da certa critica di ultrasinistra (penso ad esempio alla rivista
“Ombre rosse”) per il loro coraggioso punto di vista. Questa vocazione un po’ controcorrente avrebbe avuto seguito in Fontamara, dove l’assunzione del
tema dell’affrancamento sociale e anche certa proclività all’illustrazione
escludono perentoriamente il modello millenaristico e palingenetico –
e anche ingenuamente populista – di Silone; poi sarebbe tornata nei film sul
terrorismo politico, fenomeno che Lizzani fu tra i primi ad affrontare al
cinema, persino nelle strutture degli instant movies. In un qualche modo
anche i medaglioni filmici sui protagonisti maggiori e minori del nostro
cinema, segnatamente i due su Rossellini e Visconti, non seguono le usuali
trafile e le consuete modalità interpretative.
Una tale attitudine
non si direbbe in Lizzani predeterminata, ma invece quasi rinvenuta sul campo,
nel vivo della realtà e delle contraddizioni messe sotto l’occhio della
cinepresa. Il gobbo non è infatti aprioristicamente un film di
deviazione nella resistenza (o se lo è, sembra più un film gangsteristico
all’americana ambientato tra guerra e dopoguerra in un quartiere di Roma). Né gli instant movies presuppongono un punto di vista preventivo
dell’autore. Come negli anni '50 non c’era in Lizzani prospettivismo, così nei
decenni successivi lo schema valutativo ed espressivo, e dunque anche storico,
non si affida a un movimento risolto e condizionato.
Il fatto è
che il regime di segni del cinema lizzaniano, pur nella conformità alle
sceneggiature e nel complessivo disegno di una regia esecutiva e inscenante,
traccia nel proprio divenire – e nel divenire delle immagini – un proprio piano
di consistenza, in contrasto appunto con le più ovvie risoluzioni, ma in
stretto legame con un livello di complessità percepito emozionalmente. Alvaro
il gobbo non è insomma sempre buono perché proletario e combattente, né Edda
Ciano e Claretta Petacci (quest’ultima in Mussolini ultimo atto) sono
creature dell’orrore e della crudeltà quantunque abbagliate dal fascismo e di
esso indubbie complici.
A un primo
livello di enunciazione affidato allo scenario (ai cui lavori Lizzani assai
spesso prende parte), fanno seguito le riprese. È a questo punto che il cinema
si interna nelle cose. Ed è lì che mutano le intenzioni di partenza. Come se all’assicurazione
concessa da soggetto e sceneggiatura elaborati in collaborazione con solide
figure professionali (tra le quali spicca Ugo Pirro), e regolati dalla stessa
figura e ideologia del regista, facesse poi riscontro l’ingresso in un
territorio aperto e in una linea di discorso impregiudicata e nuova. Un po’ appunto secondo quei modi rosselliniani, che Lizzani ben conosceva e che aveva
sperimentato ai tempi di Germania anno zero.
Non voluta ma
connaturata alla personalità di Lizzani, questa maniera di procedere si modella
sulle caratteristiche entro cui si sviluppa il processo di preparazione del
film e poi delle specifiche riprese. Potremmo addurre gli esempi de La
muraglia cinese e de L’oro di Roma. Nel primo caso ciò che un
qualunque semiologo (Deleuze o Parnet) avrebbe potuto designare sotto la
formula di un concatenamento tra desiderio e enunciazione, subisce lo scacco
della realtà. La voglia infatti di abbozzare un’opera che descrivesse un paese
accerchiato e isolato dall’imperialismo ma nobilitato dalla sua operosità, deve
fare i conti con le chiusure di una burocrazia implacabile e cieca. Il più
durevole vestigio che lasciò a Lizzani l’esperienza de La muraglia cinese,
fu l’utilizzo di una criticità applicata al comunismo reale ma poi altrettanto
all’ideologia. Viene in questo modo anche aperta la strada al Gobbo e
congiuntamente a Il Processo di Verona.
L’ulteriore
esempio è quello de L’oro di Roma. Pochi erano stati i film – in Europa
ma ancor più in Italia – che avevano raccontato l’odissea degli ebrei. Quel che
oggigiorno, invadendo integralmente il proscenio della memoria storica sugli
anni di guerra, viene definito impropriamente Olocausto,
negli anni '50 e '60 era avvertito soltanto come un momento della complessa
vicenda bellica e della lotta al nazi-fascismo.
Se il merito
di Carlo Lizzani è stato di affrontare – primo tra i registi italiani di
qualità dopo il Gillo Pontecorvo di Kapò, apparso appena l’anno
precedente – le vicende di una comunità ebraica, il lavoro di organizzazione
del film e la concreta messinscena hanno evidenziato le non
poche reticenze e anche le contraddizioni della comunità israelita romana.
L’elegia sulle vittime dell’intolleranza e del razzismo non delinea insomma,
per converso, una quadratura del
tutto limpida della parte perseguitata. Il gesto effrattivo e in questo senso
complesso della vita reale – che Lizzani sempre coglie – taglia infine fuori
ogni prospezione ideologica. La scrittura oscilla sempre su margini di
imprevedibilità. La storia di prima linea e ufficiale cede il posto a una
cronaca che si miniaturizza in un dedalo di simultaneità tra le persone
concrete e i vortici del quotidiano. E anche questo, diremmo, appartiene alla
forza inventiva e intellettuale di Carlo Lizzani, alla sua idea di storia.
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