Introduzione
Molti studiosi hanno sottolineato come, a partire dall’epoca moderna, la necessità dei legami comunitari, e il conseguente interesse verso il tema della comunità, siano stati avvertiti proprio nel momento in cui l’erosione di tali legami stava concedendo uno spazio crescente di espansione a rapporti prevalentemente improntati sui criteri della razionalità economico-strumentale (Christensen e Levinson 2003; Blackshaw 2010); la questione che emergeva al centro della discussione era, dunque, quella del legame sociale, della compatibilità fra un mondo dominato dalla logica contrattuale e dallo scambio impersonale, da un lato, e la solidarietà e la coesione sociale, dall’altro.
Tale questione, pur mantenendo inalterata l’originaria rilevanza, non può oggi fare a meno di confrontarsi con le profonde innovazioni generate dai processi di globalizzazione. Il crescente interesse che le scienze sociali hanno mostrato negli ultimi anni nei confronti del tema della comunità poggia, infatti, sulla convinzione alquanto diffusa che anche nell’epoca globale fiorisca un “bisogno di comunità”, di volta in volta collegato all’insicurezza individuale, alle patologie dell’individualismo globale e alla radicalizzazione delle dinamiche di esclusione sociale; e che le comunità, a loro volta e in certe circostanze, possano assumere connotazioni contrarie allo sviluppo di un’ampia solidarietà sociale.
In questo senso, Bauman (2000) rileva come la crescente ansia che domina le esperienze di vita contemporanee possa essere contenuta solo dal ritorno al e dalla difesa del luogo, dal promuovere comunità. Comunità di un tipo particolare, però: comunità gruccia sulle quali “appendere” le proprie ansie e paure, basate sulla semplificazione, l’espunzione delle differenze, la divisione, il mantenimento delle distanze; e comunità gruccia in quanto provvisorie, intercambiabili, rifugio temporaneo in cui appartarsi, “ghetto volontario” dal quale è sempre possibile allontanarsi, ma dal quale è escluso l’estraneo.
Castells (1997), invece, ritiene che le comunità oggi esposte a una maggiore effervescenza siano quelle di tipo resistenziale, che “scavano trincee” in difesa delle identità minacciate dagli incessanti flussi della globalizzazione, dal networking e dalla flessibilità, dalla crisi della famiglia tradizionale. Comunità basate sul nazionalismo etnico, l’integralismo religioso e la difesa del territorio non sono altro che espressioni dell’«esclusione degli esclusori da parte degli esclusi e che consiste nella costruzione di un’identità difensiva nei termini delle istituzioni/ideologie dominanti, invertendo il giudizio di valore e rimarcando, al contempo, i confini del proprio campo» (Castells 1997, p. 10; cfr. anche Calhoun 1994).
Pulcini (2009), in maniera simile a Castells, evidenzia come le dinamiche di marginalizzazione e di esclusione sociale che emergono nella società-mercato della seconda metà del Novecento, e che si radicalizzano e universalizzano nella successiva società globalizzata, costituiscano uno dei fattori di origine delle comunità attualmente tese ad affermare e difendere la propria differenza culturale: comunità endogamiche, in quanto basate su un “Noi” esclusivo e totalizzante, o immunitarie, in quanto percepite come luoghi che offrono protezione dai pericoli esterni.
In effetti, la comunità, o meglio, una stessa comunità, può oscillare tra forme “liberali, solidali, inclusive” e forme “totalizzanti, minacciose, esclusive”, a seconda che prevalgano le sue presupposte virtù - fraternalismo; sostegno reciproco; bassi livelli di stratificazione; risoluzione informale dei conflitti - o i suoi presupposti vizi - illiberalismo; forte pressione a conformarsi. Come, infatti, evidenzia Blackshaw (2010, p. 151; cfr. anche Brint 2001): «Quello che spesso sfugge agli studi di comunità è la natura ‘doppia’ della comunità […]: se un lato della medaglia è rappresentato dall’inclusione e dall’armonia, l’altro comprende l’esclusione e l’oppressione». Del resto, sono le stesse caratteristiche su cui la comunità si fonda - il senso di appartenenza, la prevalenza della solidarietà interna su quella esterna, le forti lealtà - a rendere possibile sia la creazione di confini fra il “noi” e gli “altri” variamente intesi - gli estranei, gli intrusi, i trasgressori, gli esuli e tutti i “visitatori” potenzialmente indesiderati – sia il conseguente slittamento della comunità verso possibili conformazioni totalizzanti (cfr. Barbieri 2010).
È, dunque, all’analisi del lato oscuro della comunità che è dedicato il presente contributo; in particolare, si concentrerà l’attenzione sulle principali forme di patologia sociale che il vivere in comunità potrebbe far emergere, e che sono ravvisate ne: il misconoscimento e il razzismo (§ 1); l’assolutizzazione dell’identità sociale e l’autoritarismo dei seguaci (§ 2); il clientelismo (§ 3).
1. Il misconoscimento e il razzismo
Fra gli studiosi che, più di altri, si sono soffermati a riflettere sulle dinamiche inerenti la costruzione di confini culturali e sui processi che portano a riconoscere l’individuo come appartenente alla comunità vanno citati Elias e Scotson (1965), Douglas (1966) e Bauman (1995).
Indagando gli stili di vita, le relazioni sociali e le figurazioni di potere presenti nella piccola comunità di Wiston Parva - pseudonimo di un sobborgo alle porte di Leicester - Elias e Scotson individuano la presenza di differenziazioni in merito a chi è considerato appartenere alla comunità. Essi osservano che il sobborgo è composto da tre zone residenziali: la Zona 2, di più antica costruzione, costituisce il centro della comunità e comprende vari luoghi di lavoro, servizi locali e residenze private; la Zona 1, di minore estensione, edificata a poco a poco fra le due guerre e considerata come area residenziale di maggior pregio rispetto alla Zona 2; la Zona 3, che comprende un complesso di abitazioni in affitto costruito su un terreno paludoso. E rilevano che le reti sociali fra gli abitanti della Zona 1 e quelli della Zona 2 sono particolarmente strutturate ed estese, differentemente da quelle che coinvolgono i residenti della Zona 3. Gli abitanti delle zone 1 e 2, per di più, oltre a condividere stretti legami sociali, considerano se stessi i veri rappresentanti della comunità di Wiston Parma, e vedono negli abitanti della zona 3 gli “altri” o outsider.
A questo proposito, i due studiosi ritengono di aver rintracciato la figurazione di un cambiamento che si è verificato, con il passare del tempo, in questo sobborgo. In particolare, sostengono che nel momento in cui i residenti delle zone 1 e 2 sono divenuti il gruppo sociale egemone - e le stesse zone il cuore della comunità - si è iniziato a declinare la distinzione fra i “radicati” e gli outsider in termini di appartenenza e non appartenenza, rispettabilità e rozzezza, e a utilizzarla per contrastare coloro che si ritiene minaccino la stabilità della presunta stratificazione socio-spaziale. In altri termini, emerge una figurazione di potere basata su una logica di differenziazione culturale tesa a promuovere l’identità dei “radicati” a identità comunitaria, e a ostacolare le altre possibili forme di eterogeneità sociale (cfr. Blackshaw 2010).
Nell’offrire un utile quadro interpretativo delle relazioni che sorgono all’interno delle e fra le comunità, Mary Douglas (1966) si sofferma ad analizzare le modalità di costruzione della figura degli outsider, che vengono realizzate, il più delle volte, richiamando le sensazioni legate alle esperienze di inquinamento e sporcizia. Al termine “sporcizia” Douglas attribuisce un significato eminentemente culturale, in quanto viene applicato agli outsider che non si adattano o non appartengono alla comunità; esso, dunque, è un effetto dei sistemi di classificazione sociale, della mappatura simbolica che definisce “cosa appartiene a”. La “sporcizia” è un corpo estraneo, un inquinante che deve essere eliminato in quanto non ha una collocazione nella nostra mappatura di “cosa appartiene a”; essa proviene sempre da “qualche altro posto”, invade la comunità da una zona aliena. E gli outsider sono percepiti come figure che offendono l’ordine comunitario e corrodono il suo sistema di classificazione attraverso la loro intrinseca “alterità”.
Partendo dal presupposto che ogni gruppo sociale tenti di differenziarsi dagli altri gruppi al fine di costruire un adeguato senso d’identità comunitaria, Bauman (1995) ci introduce agli aspetti oppressivi che la comunità assume nel momento in cui i suoi membri si impegnano ad esaltare i valori che essa promuove. Riallacciandosi alle tesi sostenute da Lévi-Strauss in Tristi tropici, evidenzia come l’oppressione sia favorita dall’implementazione di due strategie complementari, che accentuano fin troppo il valore della lealtà comunitaria - punendo qualsiasi tradimento ad essa - e che conducono all’allontanamento e all’esclusione degli outsider: la strategia antropoemica, tesa a “vomitare”, ovvero esiliare o distruggere gli altri, considerati come incurabilmente estranei e alieni; e la strategia antropofagica, tesa a “divorare” gli altri, ovvero ad annullare o distruggere la loro diversità (cfr. Blackshaw 2010).
Le osservazioni di Elias e Scotson, Douglas e Baumann, consentono di mettere in luce, in definitiva, uno degli aspetti più inquietanti del lato oscuro della comunità: il tracciare confini fra gli appartenenti e i non appartenenti, il costruire la propria identità per opposizione a quella altrui, tendono a declinarsi, molte volte, nel misconoscimento e nel razzismo. Infatti, che senso ha, nel riconoscersi, prendere le distanze, far leva sulle differenze che ci separano dagli altri, se non ci sono dimensioni della personalità altrui che, in qualche maniera, suscitano la nostra riprovazione? Questo sentimento di riprovazione, di misconoscimento, può giungere a manifestarsi attraverso atti di degradazione o di offesa e umiliazione, e infine dar luogo a pratiche razziste di stampo prettamente culturale/differenzialista (cfr. Honneth 1990 e 1992; Wieviorka 1998).
In effetti, un contesto contrassegnato da forti tensioni interculturali e interetniche può costituire il terreno fertile per lo sviluppo di una prassi razzista, che acquisisce i caratteri di una reazione tesa a difendere l’integrità dell’identità collettiva, definita in termini di nazione, di religione o di comunità; in questo contesto, «la logica identitaria di promozione o di difesa di una cultura più o meno naturalizzata sviluppa l’ossessione del meticciato e fa appello alla purezza e all’omogeneità del gruppo. Per progredire e svilupparsi, o al contrario, per evitare di dissolversi o di perdere senso, la nazione, la comunità religiosa o etnica possono fare ricorso alla violenza che nega e stritola tutto ciò che si oppone all’identità dominante o minaccia l’identità arroccata sulla difensiva» (Wieviorka 1998, p. 60).
Ciò non implica necessariamente il contatto, l’esperienza diretta dell’alterità, la condivisione dello stesso spazio d’interazione; la minaccia può essere solo immaginata, generata dal pregiudizio e da luoghi comuni o veicolata da semplicistiche rappresentazioni fornite dai mass media. Inoltre, procedendo in questa direzione, la logica differenzialista può arrivare a “naturalizzare” le eterogeneità culturali, considerandole espressioni di tratti genetici inscritti nella natura umana.
2. L’assolutizzazione dell’identità sociale e la personalità autoritaria
Un secondo aspetto del lato oscuro della comunità è rappresentato dall’assolutizzazione dell’identità sociale e dallo sviluppo della personalità autoritaria. Ciò diviene manifesto quando i membri di una comunità considerano i valori cui si riferiscono come l’unico orizzonte dal quale trae significato la loro azione e la loro esistenza. Tali valori vengono ad “abbracciare”, così, ogni aspetto della vita dell’individuo e ad assumere una validità assoluta; ad essi si deve la più totale dedizione, ed essi debbono essere difesi e preservati nel tempo.
La comunità, anche solo immaginata, assume allora un carattere totalizzante, si pone come entità sociale perfetta che può soddisfare in modo esaustivo tutte le esigenze dei propri membri. Essa offre «un’assoluta rassicurazione circa la verità e la validità della sua [dell’individuo] esistenza, circa il modo in cui deve comportarsi, assolvendolo dalla responsabilità di fare delle scelte. Tali istituzioni [totalizzanti] garantiscono, infatti, l’identità dell’individuo e la sua appartenenza a un mondo nel quale tendono ad essere eliminate ogni imprevedibilità e ogni angoscia, o, meglio, nel quale ogni evento imprevisto e ogni fatto angoscioso hanno già la loro risposta e la loro spiegazione» (Crespi 2004, p. 61).
Alla base della tendenza ad assolutizzare i valori comunitari e/o a confluire in comunità totalizzanti, rinunciando, così, a quote significative della propria libertà personale e a una crescita equilibrata della propria personalità si trovano i bisogni di sicurezza, di certezza, di conferma dell’identità, di appartenenza. Gli studi che, a tale proposito, concentrano l’attenzione sulle tendenze a sottomettersi a un’autorità - il cosiddetto autoritarismo dei seguaci - sono ormai numerosi e di consolidata tradizione. In particolare, lo psicologo sociale Altemeyer, ponendosi in continuità con le celebri analisi svolte da Fromm in Fuga dalla libertà e da Adorno, Frenkel-Brunswik, Levinson, Sanford in La personalità autoritaria, si sofferma sui gruppi di atteggiamenti che, a suo avviso, contribuiscono a formare l’autoritarismo dei seguaci, e che individua nella sottomissione autoritaria, nell’aggressività autoritaria e nel convenzionalismo.
La sottomissione autoritaria consiste nell’accettazione acritica di quanto fatto e postulato dall’autorità e nella piena subordinazione mostrata nei suoi confronti; l’autorità è considerata fonte di verità, e ogni atto di accusa che le è rivolto viene vissuto come una minaccia all’ordine sociale ed è, per questo, pregiudizialmente deplorato. L’aggressività autoritaria si esprime nella predisposizione a infliggere sofferenze di vario tipo ai dissenzienti, ai diversi, e a coloro che occupano le posizioni socio-professionali più umili, nel presupposto che ciò sia approvato dall’autorità o sia utile al suo mantenimento. Il convenzionalismo, infine, si traduce in un alto grado di accettazione delle convenzioni sociali, nel tradizionalismo e nel patriottismo (cfr. Roccato 2003).
3. Il clientelismo
Il terzo aspetto del lato oscuro della comunità che occorre richiamare è il clientelismo. In linea generale, infatti, coloro che sentono di appartenere a una stessa comunità tenderanno a instaurare fra loro relazioni privilegiate, indipendentemente dalla posizione sociale occupata, dal ruolo svolto o dal potere di cui si dispone. Anzi, chi si trova in uno stato sociale svantaggiato o versa in una condizione di bisogno chiederà, molto probabilmente, aiuto ai personaggi di spicco con i quali condivide una comune appartenenza; e questi, dal canto loro, si sentiranno in dovere di concedergli appoggio e protezione.
Spesso, la richiesta di aiuto riguarda la possibilità di ricevere beni cui avrebbero diritto anche altri, di ottenere benefici selettivi; il che, di per sé, non comporta alcunché di illecito. Ma problemi di giustizia e correttezza sorgono quando l’attribuzione dei benefici avviene esclusivamente sulla base di criteri estranei all’ambito della decisione; in questo caso, infatti, il decisore abusa del proprio ruolo pubblico e il beneficiario della particolare relazione che ha con il decisore, a tutto svantaggio degli “altri”, di coloro che potrebbero rivendicare legittime pretese sull’attribuzione dei beni. Ma quali sono le reali motivazioni che spingono a stringere questo tipo di accordi?
La concessione di “favori” può fondarsi, almeno in larga parte, sul sentimento di una comune appartenenza. Chi riveste posizioni di potere prova una sorta di dovere, di obbligo, nel privilegiare gli interessi di coloro con cui ritiene di condividere la stessa identità; l’impegno che mostra è testimonianza del suo attaccamento alla comunità e il successo che ottiene determina il prestigio sociale e l’onore di cui gode (cfr. Güneş-Ayata 1994). In queste situazioni, l’impersonalità e l’universalismo possono diventare l’eccezione; il decisore che si ostina a plasmare la sua azione su tali criteri è considerato un traditore, una persona di cui non fidarsi e che è opportuno screditare, in una sorta di moderno e molto labile bando.
Può accadere, però, che lo spirito comunitario, palesato dai personaggi influenti, sia suscitato anche da considerazioni egoistiche attinenti al rafforzamento della propria posizione di potere attraverso la creazione di un seguito fedele, di una clientela; quando poi la relazione fra patrono e cliente si realizzasse nello scambio fra favori e voti ci troveremmo di fronte al clientelismo politico.
Il clientelismo implica un rafforzamento delle barriere alla cittadinanza o di quelle al consumo; si delimita, cioè, chi ha il diritto di richiedere o di consumare l’output del sistema politico. Spesso la richiesta di favori riguarda esigenze reali che il sistema politico amministrativo non è stato in grado di soddisfare. Ma sarebbe un errore ritenere l’inefficienza di tale sistema una causa del clientelismo; essa ne è, piuttosto, l’effetto (Piattoni 2007). E gli scambi clientelari non possono che sorgere, come in parte si è già detto, all’interno di «un’atmosfera comunitaria, di compartecipazione [...]. Il cliente accetterà l’asimmetria del rapporto solo se è fondata su un’ideologia comunitaria e sull’accessibilità al patrono [...]. I meccanismi democratici che difendono le regole universalistiche sono indeboliti, e vengono ben presto deviati verso la personalizzazione e il particolarismo dalla ricerca della consuetudine e del sentimento di comunità [...].Come ogni altro fenomeno al crocevia tra sfera pubblica e sfera privata, il clientelismo può essere legittimato solo da un’etica di gruppo inclusiva, che disegni linee chiare tra ‘noi’ e ‘loro’» (Güneş-Ayata 1994, pp. 23 e sgg.).
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