Può accadere che alcune vicende biografiche riescano a riassumere e ad interpretare agli occhi dei contemporanei (e soprattutto dei posteri) il "senso" di una epoca. Si parla allora di figure "esemplari", protagoniste e specchio allo stesso tempo di mutamenti e trasformazioni tali da investire la sfera pubblica nella duplice dimensione dei costumi e degli stili di vita. È forse anche il caso di Luciano Lama (1921-1996), il quale, attraverso una vicenda durata circa mezzo secolo, nella Cgil e in generale nel sindacato, ha contribuito a ridefinire l'identità del mondo del lavoro, passato da una società rurale a una società industriale e infine alla società dell'informazione. In tal senso, il mondo del lavoro ha fatto sua la sfida della cittadinanza democratica.
Nel pensiero e nell'azione di Luciano Lama sussiste un fecondo "corto circuito", continuamente riemergente, tra il sindacato, le trasformazioni del lavoro e la "qualità" della democrazia repubblicana. Attraverso la sua vicenda si ha la possibilità di ricongiungere la storia dell'"Italia del lavoro" alla storia della Repubblica. La vicenda di Lama è quella di un dirigente e quindi di un leader che offre l'opportunità di mettere in correlazione l'azione di una istituzione sociale di massa con i valori fondativi della Repubblica (l'antifascismo e il primato del lavoro) e con le pratiche volte ad elevare i lavoratori a cittadini consapevoli del loro ruolo nella vita democratica[1]. Stiamo parlando di altro e di più rispetto alla pur nobile funzione sociale del sindacalista e dell'uomo politico. Siamo nell'orizzonte di un impegno a vantaggio della comunità, nelle sue diverse articolazioni territoriali (la Camera del Lavoro, la Federazione nazionale, la centrale sindacale). Lama si rese interprete di un modello pedagogico di apprendistato alla democrazia che teneva insieme gli aspetti sociali e culturali, e non solo quelli più propriamente sindacali di natura economica e contrattuale. È su questa dimensione che si rimarca l'attenzione.
Occorre collocare la vicenda di Lama in un contesto interpretativo che sia diverso tanto dalla cornice, prevalente e quindi parziale, del "quadro comunista" che ha acquisito meriti più per le capacità organizzative che per la progettualità perseguita[2], così come da una rappresentazione di taglio sostanzialmente giornalistico[3]. Muovendo dagli scritti – degli esordi[4] così come degli anni parlamentari[5] – e dalle diverse testimonianze pubbliche lasciate dallo stesso Lama[6], della sua complessiva biografia[7] si possono evidenziare i momenti più rappresentativi del suo modo di intendere il compito civile che sentiva di dover svolgere.
Su piani diversi emerge una sorta di rapporto di filiazione e di ereditarietà tra Lama e Di Vittorio, espresso dal primo con grande simpatia umana ma anche con spirito critico. Sul primo piano, commentandone gli scritti, nel 1977 venne un aperto tributo: «Di Vittorio è stato per me, più di ogni altro dirigente, e non soltanto per aver lavorato vicino a lui per dieci anni, l'uomo che ha più contribuito alla formazione della mia personalità, del mio modo d'essere e di militare nel sindacato e nel partito»[8]. Riconosciutagli una dote di "educatore" che nella sua azione egli avrebbe egualmente mostrato, Lama indicò in Di Vittorio, sia come costruttore della Cgil unitaria sia come relatore all'Assemblea Costituente sui temi del lavoro, l'artefice di un sindacato capace di esercitare una effettiva influenza nella vita nazionale[9]. Valeva insomma per Di Vittorio, così come per Lama, una concezione secondo la quale sussisteva «la necessità dell'impegno politico del sindacato sulle grandi questioni di libertà, della democrazia, delle istituzioni democratiche […] per salvaguardare i valori fondamentali dello Stato democratico e sul terreno della difesa delle istituzioni»[10].
Se proprio volessimo dire, alcuni tra i principali percorsi di ricerca in questo volume evidenziati erano individuabili nell'Intervista sul sindacato[11] concessa da Lama a Massimo Riva e pubblicata nell'autunno del 1976. In quell'occasione, si faceva il punto sui primi trent'anni di vita della Repubblica e sui dilemmi che si intravedevano circa la crisi di legittimità della democrazia italiana, causa gli effetti congiunti della recessione economica e del terrorismo. Si guardava ai caratteri genetici della democrazia repubblicana ma si delineavano alcune sfide per il futuro del sindacato e della sinistra, tra l'Italia e l'Europa.
Si pensi, per fare un primo esempio, all'impegno che Lama profuse allo scopo di legittimare il mondo del lavoro attraverso il pubblico riconoscimento dei fondamentali diritti sociali contemplati dalla Costituzione. Nella sua prima esperienza parlamentare, tra il 1958 e il 1968, prima che fosse definita l'incompatibilità tra la contemporanea assunzione di ruoli dirigenziali nel sindacato e altrove – nelle istituzioni o nel partito –, Lama portò nelle aule di Montecitorio la diretta conoscenza dei problemi del mondo del lavoro. Egli si interessò in particolare di due questioni: il trattamento economico e normativo dei lavoratori del pubblico impiego e la regolamentazione del licenziamento. Fu soprattutto in merito a questo secondo tema che ebbe modo di emergere quale fosse la concezione che del sindacato Lama aveva. La questione è divenuta di recente oggetto di uno scontro sociale e politico assai aspro attorno all'art. 18 della legge 11 maggio 1990 (n. 108), contenente l'obbligo di reintegrazione del lavoratore licenziato nel caso manchi un giustificato motivo (per le aziende con più di 15 dipendenti); è seguito anche un fallito referendum abrogativo, svoltosi il 15-16 giugno 2003.
L'origine della questione risaliva al 1963, quando un disegno di legge per regolamentare il licenziamento avviò il suo corso parlamentare, per diventare operativo tre anni dopo, con la legge 15 luglio 1966, n. 604. Intervenendo nel dibattito parlamentare, il 5 maggio 1965, Lama rendeva un tributo nient'affatto formale a chi forse più di tutti ne aveva influenzato la formazione, vale a dire a Giuseppe Di Vittorio. Nel 1952, secondo l'idea che il lavoro poteva garantire un'Italia più civile e che il sindacato ne doveva essere l'interprete, egli aveva per primo avanzato la proposta per uno statuto dei diritti dei lavoratori. Evidenziata la contraddizione manifesta tra i principi della Costituzione (artt. 2-3, 36, 39-40, 46) e quell'articolo del Codice civile (l'art. 2118) che permetteva il licenziamento senza specificarne i motivi, Lama ricordava – sono parole sue – «l'immensa quantità di soprusi, di ingiustizie, di iniquità che sono state messe in danno dei lavoratori italiani», rivendicando l'urgenza di porre un argine ad una tale pratica. In quei giorni un accordo tra sindacati e Confindustria prefigurava proprio un tale approdo e quindi concorse a creare un clima positivo anche in parlamento. Lama vi colse il "segno" di un mutamento di rilievo nella condizione del mondo del lavoro, grazie al quale i lavoratori acquisivano in modo effettivo la condizione di cittadini.
credo che questa coincidenza abbia un significato simbolico, il significato di un impegno per tutti noi a far sì che la giusta causa diventi una conquista reale per tutti i lavoratori italiani, in maniera che alla legge del sopruso e della violenza morale da parte del padrone si sostituisca la legge del diritto, la libertà e la dignità del cittadino[12].
Entrato in vigore nel 1970, lo Statuto dei diritti dei lavoratori è divenuto un simbolo effettivo sia della forza del sindacato sia della sua influenza nella società italiana.
Riflettendo sull'esperienza dei Consigli di fabbrica avviati sull'onda del movimento rivendicativo del 1969, Lama evidenziò la necessità che, di fronte alle sfide poste dalle trasformazioni della società italiana, si affermasse l'immagine e la pratica di un sindacato che si poneva come un interlocutore delle istituzioni.
noi non abbiamo mai preteso di sostituirci al Parlamento, al governo, ai partiti; ma abbiamo cercato di prospettare, anche a nome dei consigli, non più soltanto i problemi sindacali che nascono dalla fabbrica ma anche quelli della difesa degli interessi dei lavoratori su scala nazionale. […] siamo arrivati alla conclusione che il ruolo del sindacato è un ruolo pieno ed efficace soltanto se esso non si limita a operare nella fabbrica unicamente in direzione del salario o del contratto, ma si impegna sui problemi generali dell'economia e della società[13].
La forte reazione contro il terrorismo da parte del sindacato era ricondotta da Lama anche all'influsso delle "premesse di valore" definite nel corso degli anni sessanta per far fronte alle sfide sociali e politiche poste dalle trasformazioni della società italiana.
Nella Cgil, a partire dalla metà degli anni Sessanta, elaborammo risposte più articolate e mature sulle cosiddette premesse di valore: mi riferisco alla riaffermazione del valore della democrazia come fine del tipo di società da noi perseguito, all'indicazione del metodo democratico come strumento insostituibile per la modificazione delle strutture economiche e sociali, all'esplicito riconoscimento del pluralismo politico e culturale come valore permanente. Per lunghi anni avevamo accantonato ogni discorso su queste premesse di valore e sui metodi della nostra lotta all'interno del sistema capitalistico[14].
La funzione del sindacato a difesa della democrazia repubblicana venne rivendicata con vigore da Lama, nel segno di un richiamo alle radici antifasciste dell'Italia postbellica e al tessuto connettivo della Costituzione, di cui egli, memore di un patrimonio di valori assimilato negli anni giovanili e condiviso da quanti appartenevano alla sua generazione, seppe farsi interprete con indubbia autorevolezza a nome di tutto il sindacato italiano.
La concezione del sindacato che Lama delineò nel corso della sua leadership, contemperando la congenita natura contrattuale con l'altrettanto intrinseca vocazione politica, era risultata pertanto il frutto di un amalgama meditato di innovazioni e di richiamo alla forza della tradizione. Essa concorse a farne sempre più un'istituzione sociale in grado, nei luoghi di lavoro e nella vita pubblica, di innervare di capillari istanze di partecipazione la democrazia di massa, esercitando una funzione sia di "mediazione" (tra rivendicazioni e conflitti) sia di coesione e di integrazione nazionale.
La concezione del sindacato in cui io credo è quella di chi cerca, in effetti, di spingere anche il movimento di massa dei lavoratori a una coscienza globale delle esigenze sociali complessive in contrapposizione ad un'articolazione puramente corporativa, classica questa della vecchia natura del sindacato. […] Quel che esso può realizzare è una sintesi dei bisogni sociali del presente ed essa è un contributo che aiuta le stesse forze politiche a esercitare la funzione di governo, sempre che si resti nel pieno rispetto delle regole della democrazia[15].
Ecco allora che il lascito di Lama e della sua azione nella vita pubblica italiana assume una sua, peculiare e sempre feconda, attualità. La visione del sindacato come istituzione sociale che tutela precisi interessi di classe ma che opera per il consolidamento della democrazia repubblicana si lega al ruolo centrale assegnato da Lama alla cultura di massa e alla circolazione delle idee di emancipazione che le sue diverse espressioni favoriscono. Interpretando la figura di chi, con le idee professate e tramite i comportamenti pubblici adottati, svolgeva un compito di educazione, civica e sociale allo stesso tempo, Lama ebbe modo di affermare questa sua attitudine anche in relazione ad un problema sempre "scomodo", per e dentro il sindacato, quale quello dell'assenteismo dai luoghi di lavoro.
è l'aspetto morale che mi colpisce di più in questo fenomeno, perché devo ammettere che, in effetti, esso denuncia in alcuni gruppi di lavoratori dei vuoti di coscienza molto gravi, delle scelte individualistiche che sono proprio l'opposto della linea di maturazione politica e culturale delle coscienze che il movimento sindacale intende perseguire[16].
Nel senso indicato, ieri come oggi, il problema di una effettiva libertà di stampa era ricondotto alla capacità di creare nell'opinione pubblica un'esigenza diffusa di informazione attenta ai valori e alle prerogative del pluralismo:
l'esistenza di una domanda di stampa libera nelle grandi masse consentirà ai giornalisti che lo vogliano di avere il sostegno della realtà sociale nella lotta quotidiana per l'indipendenza e la libertà di un settore così decisivo per le sorti della democrazia. Anche in questo caso si verifica quella che è la funzione fondamentale del sindacato nella società italiana: lottare per l'emancipazione delle coscienze e per l'allargamento delle libertà di tutti[17].
Non a caso, una volta lasciato il sindacato, nel corso della sua attività di senatore della Repubblica, Lama seguì con attenzione la discussione parlamentare che accompagnò la disciplina del sistema radiotelevisivo, pubblico e privato. L'iter parlamentare cominciò nel giugno del 1988 e si concluse due anni dopo, con la legge del 6 agosto 1990 (n. 223), nota ai più come la "legge Mammì" (dal nome del ministro delle Poste e Telecomunicazioni, nell'ambito del governo guidato da Giulio Andreotti). Prendendo la parola il 5 agosto del 1990, Lama denunciò il «carattere protezionistico ed autarchico» del provvedimento in discussione, «una legge su misura dell'esistente», «dopo 14 anni di anarchia»: «Berlusconi docet, anzi imperat», secondo quanto si diceva allora e lo stesso Lama ribadì. Privilegiando la grande emittenza privata rispetto a quella pubblica, la normativa evitava di porre clausole di salvaguardia capaci di tutelare la concorrenza e chiudeva le porte a soggetti esterni al mercato nazionale. Lama prevedeva inoltre alcuni dei processi sociali e culturali che si sarebbero registrati di lì a pochi anni: «Teniamo presente che una politica protezionistica praticata sulle idee, sull'informazione, sulla cultura è ben più grave di una politica autarchica consumata su beni e su consumi materiali, perché qui si può far violenza ai cervelli, limitarne la conoscenza e la creatività»[18]. Con il passare degli anni si sarebbero valutate con sempre maggiore cognizione di causa le influenze di quei denunciati fenomeni socio-culturali nel ridisegnare le forme e i linguaggi della politica.
In generale, nel corso della sua seconda esperienza parlamentare a Palazzo Madama, così come era accaduto nel corso degli anni sessanta, Lama manifestò una privilegiata attenzione verso i diritti del lavoro, insistendo con rinnovata forza sul rinvio alla Costituzione come originario e sempre vivo "patto sociale", fondativo dei caratteri assunti dalla democrazia italiana e fonte di legittimazione tanto di una "Italia del lavoro" quanto della funzione sociale del sindacato.
Come presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di lavoro, attiva tra il novembre del 1988 e l'agosto del 1989, egli ebbe modo di coniugare sensibilità e competenze maturate nel corso della sua lunga attività sindacale (a partire da quando era stato alla testa della Federazione dei chimici). L'istituzione della Commissione si ebbe sotto la spinta della profonda eco suscitata da eventi drammatici che avevano colpito alcuni luoghi di lavoro: basti ricordare la tragedia della Mecnavi nel 1987 a Ravenna e i diversi "omicidi bianchi" verificatisi nei cantieri allestiti in vista dei mondiali di calcio del 1990. Assumendo la presidenza della Commissione, Lama ricondusse la necessità dell'inchiesta sugli ambienti di lavoro ad una duplice motivazione: la messa a frutto dell'esperienza maturata dal sindacato nella prima metà degli anni Settanta e la corrispondenza a quanto previsto dalla Costituzione, la quale, egli ricordò, «riconosce che vi è un sistema di disuguaglianze rispetto al quale il potere pubblico spesso deve intervenire per fare giustizia»[19].
L'immagine dell'Italia del lavoro a cui Lama guardava emerse forse ancor meglio in relazione ad un tema non facile, quale quello della disciplina dell'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali. L'iter parlamentare fu assai lungo: avviato nel luglio del 1987, esso si concluse tre anni dopo, con la legge del 12 giugno 1990 (n. 146). Intervenendo nel dibattito nella seduta del 12 luglio 1988, Lama unì una convinta difesa del diritto di sciopero e quindi dell'articolo 40 della Costituzione ad un altrettanto deciso sostegno alla proposta di legge. Rispetto all'immediato dopoguerra, era la premessa di metodo, la società italiana era cambiata. «Allora – disse Lama – il diritto di sciopero di cui si parlava non era quello di cui stiamo discutendo adesso, era altra cosa: era il diritto dello sciopero politico e – aggiungo – il diritto dello sciopero generale»[20]. Nella società italiana di fine Novecento, un sindacato e lavoratori responsabili dovevano porsi il problema dei tanti cittadini che di quei servizi pubblici usufruivano, limitando gli eventuali costi del conflitto sociale. Ciò derivava ancora una volta dalla necessità di ottemperare, sottolineava Lama, alla «difesa dei beni costituzionalmente protetti dei cittadini»[21], indicando quindi nel "sindacato dei cittadini" l'istituzione investita del compito di ergersi a tutela del "patto sociale" rappresentato dalla Costituzione e quindi dei «diritti costituzionalmente protetti».
Sono pertanto molteplici le suggestioni che una riflessione sulla figura di Luciano Lama fanno scaturire: esse rinviano ad una rinnovata immagine di "Italia civile" da rilanciare e da corroborare di altrettante figure davvero esemplari.