Questa è indubbiamente l'epoca della distopia. Ne sorgono a decine, più o meno claustrofobiche, ambientate in un futuro lontano, prossimo, vicino. Scioccanti, per certi versi spaventose. È come se i grandi classici della distopia, diventata genere letterario quasi codificato nel Novecento (anche se già prima si potevano rilevare – o rivelare - presenze distopiche ante litteram), fossero stati sezionati in parti più piccole, ogni loro minimo tratto illuminato da un occhio di bue. Quegli aspetti che trovavano una composizione plastica nella raffigurazione di un intero mondo distopico, sono ora indagati singolarmente nei loro esiti estremi. Di tempo ne è passato dalla portentosa immagine del Grande Fratello di George Orwell che evocava più che magistralmente qualcosa in atto, ma ancora di più profetizzava in maniera cristallina un futuro che abbiamo poi constatato essere molto prossimo. La possibilità di concretizzare l'ansia umana di correggere gli altri esseri, soprattutto l'uomo, di controllarlo per renderlo quanto più perfetto possibile, sembra essere a portata di mano e di pubblico, così come suggeriva Aldous Huxley. L'immagine della società che non vorremmo si realizzasse – o che temiamo si realizzi – ci si è chiarita in mente. La possiamo studiare quasi al microscopio, perché qualcosa o molto di essa ci sembra già in essere.
1. La moltiplicazione delle distopie
Nella trilogia del Silo di H. Howey (Wool, Shift, Dust, pubblicati tra il 2013 e il 2015) l'umanità è interamente chiusa in silos sotterranei per un motivo che viene svelato solo gradualmente nel corso dei tre volumi. L'esistenza di donne e uomini è uno sforzo continuo – fisico e mentale – di adattarsi a questa situazione. Quale che sia la motivazione, qualcuno ha imposto questa disposizione e per la grande maggioranza non c'è più nulla prima e oltre i silos, da percorrere su e giù, ogni individuo incasellato entro rigide distinzioni sociali. Il passaggio dalla vita alla morte, alla rinascita e alla rinascita ancora (concessa a pochi, non a tutti) non sembra essere più così problematico grazie all'affinamento tecnologico. Il mondo fuori è visibile da un vetro e subito ci si domanda se sia o meno “veritiero” o non sia un artificio manipolatorio. I più riescono ad adattarsi, ma c'è, sempre e comunque, la ribellione. Anche solo immaginata, di uno, di molti, raccontata o parzialmente vissuta. «So a cosa state pensando. Credete che le menzogne e la paura siano necessarie… Ma cosa potremmo inventare di più spaventoso di quello che c’è là fuori?». A parlare è Juliette, il nuovo sceriffo del silo, colei che ha intenzione di svelare ciò che è nascosto e sfidare il potere. «Quando hanno costruito questi silos, ci hanno voluti tutti sulla stessa barca, per così dire. Insieme ma separati, ignari gli uni degli altri, in modo da non infettare i vicini se uno di noi si fosse ammalato. Ma io non voglio giocare per questa squadra. Non condivido i suoi ideali. Quindi mi rifiuto» (Howey 2013, p. 547).
In questa trilogia, ma si tratta di caratteristiche ricorrenti nelle varie distopie, il controllo da parte di coloro che detengono il potere è perpetuo: una minoranza dotata di potere che generalmente piega alle sue volontà tutti gli altri. E di solito è l'indifferenza di alcuni, pochi o molti, che rende possibile la mostruosità. Lo stesso in The circle (2013) di Dave Eggers, dove è la trasparenza assoluta che un gruppo di innovatori, ideatori e proprietari dell'azienda che dà il nome al romanzo, tentano di imporre in maniera globale. Si tratta di un cerchio inizialmente ristretto ai lavoratori del settore, ma che, attraverso i principi che lo ispirano, invade anche l'esterno, le famiglie, il mondo della politica, in un certo senso anche il mondo non umano, con le minitelecamere che gradualmente vengono posizionate ovunque. La trasparenza diventa dovere morale da diffondere e chi vuole liberamente sottrarvisi, viene invece costretto, anche se non direttamente, a esporsi, a creare legami e a mostrarsi. «Tutto quello che succede dev'essere conosciuto» (in maiuscolo nel testo; Eggers 2017, p. 59) sono le parole che “piovono” sullo schermo dietro Eamon Bailey, uno dei soci fondatori di “The circle”, che annuncia: «Amici, siamo all'alba del Secondo Illuminismo» (ibidem). Chi sceglie di vivere nell'ombra e nell'ignoranza, finirà per non poterlo materialmente fare perché la distopia della trasparenza non ammette qualcuno che non la accetti.
Alcune distopie sono, invece, poco più che trasfigurazioni simboliche di mali del presente o anticipazioni di un futuro possibile. La fuga degli insonni (Della Rocca 2018) descrive la città di Roma (e non solo) attanagliata dalle mosche kisser, che fanno diventare larve chiunque viene punto. In Non lasciarmi (2005) Ishiguro racconta la storia di cloni umani creati appositamente per il trapianto di organi a persone malate. La loro vita “speciale” corre parallelamente a quella “normale” e c’è anche chi crede che possano sviluppare forme di creatività artistica (il collegio di Hailsham dove trascorrono i primi anni di vita i protagonisti è, in questo senso, un esperimento).
Alcune di queste distopie rimangono più contenute, altre si spingono molto oltre. Nella città inventata dove si svolge la storia raccontata ne Il condominio di Via della Notte (Attanasio 2013), la “sorveglianza” e il “controllo” creano il legame sociale, che quindi si realizza entro i limiti e seguendo il percorso imposto da queste parole d’ordine. Super-cannes (2000) di J. G. Ballard racconta la storia di un esperimento disumano, che prevede un assetto della società in cui le classi inferiori vivono barbaramente deturpate allo scopo di garantire alle élites una qualità di vita quasi esente da malattie e imperfezioni.
Si tratta solo di alcuni esempi, perché è impossibile descrivere tutte le distopie immaginate negli ultimi venti anni. Se ci spostiamo dal piano letterario a quello televisivo e cinematografico, gli esempi si moltiplicano. Quasi ogni episodio della serie Black Mirror, prodotta da Netflix (la prima puntata è uscita il 4 dicembre 2011), è dedicato a uno o più aspetti delle distopie classiche, legati all'uso e allo sviluppo della tecnologia.
Alcuni autori sono distopici, ma non troppo, come ad esempio M. Hoeullebecq in Sottomissione (2015), ma forse questo dipende anche dal modo di intendere la distopia, l'uso che facciamo di questo termine e quanto allarghiamo le sue maglie. Come non tratteggiamo necessariamente i contorni di un'utopia quando parliamo di un modello politico che consideriamo in modo generico preferibile e più o meno alternativo rispetto ad altri, così non è una distopia ogni descrizione o prefigurazione di un evento spiacevole che potrebbe verificarsi nel futuro e delle conseguenze di quell'evento nella società.
Non tutti i prodotti “distopici” sono poi dello stesso spessore, non tutti sanno trasformare un singolo aspetto che contiene il germe di uno sviluppo perverso in una visione completa e nitida.
A volte distopici sono solo alcuni elementi in un mondo molto simile a quello attuale. Si pensi ad alcuni episodi di Black Mirror, ad esempio Arkangel, dove si racconta la storia di una madre che fa installare nella figlia un dispositivo di controllo che le consente di monitorarla in ogni sua azione e anche di attutire l'impatto che la realtà esterna ha su di lei.
Vi sono poi le distopie del totalmente altro, come in Splendido visto da qui (Fontana 2014), dove il mondo del futuro è senza futuro, diviso in zone militarizzate dove ognuno vive a ripetizione lo stesso decennio e non è consentito cambiare epoca. Non si ha più paura, perché tutto è noto, è già visto e vissuto. Il controllo è totale, eppure si intravede la possibilità di inserire un ostacolo nell'ingranaggio, quando il netturbino Leo, che compie uno dei compiti più importanti perché i rifiuti svelano il tipo di vita delle persone, incontra Maia, una ragazza scappata dalla sua zona.
Nel film Divergent (2014), tratto dall'omonimo romanzo di Veronica Roth (2011), primo di una trilogia, la società è divisa in classi rigide, anche esteticamente caratterizzate in maniera chiara (abneganti, pacifici, candidi, intrepidi, eruditi) e tutto sembra funzionare proprio perché ognuno sceglie di vivere nella classe che gli è più propria “per natura”. Il potere è nelle mani degli eruditi. Ma la natura dell'uomo è tale da non lasciarsi schedare con facilità: possono esistere persone “divergenti”, non limitabili in una sola fazione perché contengono doti e limiti di ciascuna e che rappresentano un pericolo solo per il fatto di esistere.
La rivolta o anche solo il tentativo di una rivolta, il dubbio sulla struttura del mondo intorno, dubbio che ad un certo punto si manifesta e sfida lo status quo, la rigidità dell'organizzazione, che in molte distopie è del tutto irrazionale o arbitraria nella sua origine, anche se razionale nella sua struttura, sono elementi che tornano in maniera costante. A volte sono ricordi lontani, di ispirazione per i nuovi rivoltosi, altre volte si tratta di rivolte intime, che non intendono mettere in dubbio nulla, ma sono solo sentinelle di qualcosa di troppo umano che non si fa imbrigliare. Tutte le rivolte devono fare i conti con la paura: la paura di perdere dei punti di riferimento che si ritengono sicuri. In Super-cannes, ad esempio, il protagonista Sinclair, nonostante sia stato testimone diretto degli abusi compiuti ai danni delle classi inferiori, ha paura di denunciare il tutto per difendere il posto di lavoro della fidanzata, la pediatra Jane. O è proprio la vita altamente organizzata a far paura e la rivolta rappresenta solo la speranza del cambiamento. Nella serie Westworld, ideata da J. Nolan e L. Joy nel 2016, in realtà ispirata all’omonimo film di M. Chricton del 1973, la speranza di cambiamento assume contorni inquietanti se a rivoltarsi, in un parco a tema western, sono gli androidi, che lì vivono, progettati per soddisfare i desideri degli ospiti umani.
Insieme alla paura, c'è l'inganno. Voluto da coloro che detengono il potere, sempre da un gruppo minoritario, che ha costruito un limite fittizio, al di là del quale si materializza un bosco da non visitare perché abitato dalle “creature innominabili”, come nel film The village di M. Night Shyamalan (2004). Qui l’inganno ha la funzione di preservare l’”innocenza” di una comunità isolata, rimasta temporalmente ferma alla fine del XIX secolo. Il limite può essere anche uno spazio oltre la recinzione dove il potere dice che c’è solo desolazione, anche se non è così (cfr. la trilogia Divergent, già citata), ecc. Uno stato di paura e di sospetto permanenti e artificiosamente creati, che diventano essenziali per il mantenimento dello status quo al di qua del limite.
2. La distopia oggi
Per tirare le fila del discorso rispetto a questa moltiplicazione di distopie, prendo come definizione quella “classica” che ne ha dato Arrigo Colombo, per cui la distopia è il «modello di una società perversa, ingiusta» (Colombo 1997, p. 18), così come, all'opposto, l'utopia è il progetto di una società «giusta», che «nasce da una condizione storica e mira al suo superamento anche immediato, alla costruzione della società virtuosa» (ivi, p. 12). Protagonista della distopia è il vizio, non la virtù e non può essere un progetto per l'umanità. Questo costituisce, infatti, un segno ricorrente delle distopie: un gruppo che si fa originariamente promotore del progetto deformante e distruttivo. Tutto inizia da una ristretta cerchia di individui assetati di onnipotenza o sedotti dalla logica della tecnica oppure che hanno vinto una guerra e si muovono da padroni in un mondo da ricostruire.
La fonte della contemporanea moltiplicazione di immagini distopiche sta ovviamente nello sforzo “immaginativo” dei loro autori, dal quale potrebbe nascere potenzialmente di tutto. Nel tentativo di individuare una tendenza che raccolga insieme queste espressioni particolari, si può innanzitutto notare che quando oggi questo sforzo si indirizza alla realtà per trascenderla o per creare spazi, mondi, dimensioni altre, ciò che ne risulta è un'immagine distorta. Agnes Heller, in un breve saggio, ha formulato quest'idea sotto forma di domanda: «che tipo di mondo è il nostro se la sua immagine più seria è quella delineata da satire e caricature distopiche?» (Heller - Mazzeo 2016, p. 59). Heller parla di satire e caricature intendendo dire che l'immaginazione che distorce, al tempo stesso ironizza sul mondo così com'è e non va presa sul serio. Le distopie non vanno confuse con la realtà perché non esiste realmente un Grande Fratello che ci guarda con il suo viso enorme, ma esse servono da esempio negativo.
Eppure il rapporto che si intende instaurare tra distopia e realtà non è così facilmente definibile.
Certamente quello sforzo immaginativo sembra essere la diretta conseguenza di un moto di denuncia di alcuni aspetti del mondo attuale che, nella distopia, vengono esagerati nella loro negatività (iperbolicamente) e possono così servirci da guida: «Il paradigma teorico della distopia prevede la descrizione di una società, a seconda dei casi, degradata, violenta, totalitaria, ma immaginaria che costituisce un avvertimento per il presente. Lo scrittore di distopie pone in luce i germi presenti nella società a lui contemporanea che possono trasformare quest’ultima nel regime distopico che ha immaginato» (Loche 2018).
Ritengo però che, prima ancora della volontà di denuncia, si registri nella contemporaneità qualcosa di diverso; si percepisce una vibrazione, come se si trattasse di un modo che ha il reale stesso di concedersi, grazie e attraverso l'immaginazione. Ciò che intendo dire è che le distopie si “materializzano” prima ancora che quel moto di denuncia arrivi ad un certo grado di consapevolezza. Un istinto più che altro di adesione alla realtà, che, nel momento in cui si dà, produce la descrizione non di un modello positivo, ma di uno perverso e distorto.
L'Utopia di Thomas More, come ha scritto Firpo nella bellissima introduzione ad una delle edizioni del testo (cfr. Firpo 20002), è un messaggio in bottiglia lasciato ai posteri. Non un programma rivoluzionario, ma un monito, una denuncia scritta in una forma unica e che ha una funzione educativa. Prima di descrivere Utopia, More parte dalle storture dell'Inghilterra in modo che l'eutopia risulti un modo per raddrizzare il presente. La distopia classica (le opere di Zamjatin, Orwell, Huxley) aveva lo stesso intento, anche se all'opposto. Partiva dalle storture che si intravedevano nel presente, per alcuni anche dalle storture che l'utopia realizzata poteva portare con sé, per mostrare fino a che punto quelle storture potevano contorcersi. Ed erano dei grandi modelli, anche complessi. E più erano complessi, più erano spaventosi.
In realtà anche oggi si parla e si scrive molto di utopia. La si analizza come concetto (anche quando si parla della sua retroversione [cfr. Baumann 2017], o della sua scomparsa, si parla pur sempre di utopia), ma quando prende forma "plastica", quello che emerge è la distopia. Non che non siano rintracciabili tentativi di tratteggiare mondi perfetti (ad esempio, l'Ecotopia di E. Callenbach, datata 1975), l'immaginazione è comunque libera di vagare, fermarsi e fissarsi nelle più imprevedibili forme, anche in quelle che sovvertono una certa tendenza generale. Ma le poche utopie di stampo tradizionale esistenti assomigliano più a un decalogo di buone pratiche sotto forma di romanzo che alle città del sole o alle isole buone del passato.
I costruttori di distopie sono, allora, coloro che descrivono la realtà, più che coloro che vogliono tratteggiare un mondo altro. Nel momento in cui cercano la distopia, la loro sembra essere, invece, un'adesione alla realtà. Forse che la realtà è essa stessa esagerata, difforme, caricaturale (per dirla ancora con Heller) e quindi è come se costringesse a un esito di questo tipo?
3. Il deforme: Bacon e il realismo distopico
Perché riferirsi al pittore Francis Bacon per parlare del rapporto che le distopie odierne instaurano con la realtà e con la sua denuncia? Osservando le sue opere, capita di andare a ricercare i vari elementi realistici che nella deformazione è possibile rintracciare. Scorgere in un viso confuso un segno di quello originario, una guancia, la linea della bocca e scoprire invece parti di animali (forse), zone oscure che evocano qualcosa che non sappiamo definire, che assomiglia all'originale, ma che è comunque storto. Il risultato è un senso di inquietudine invadente. Ma questa inquietudine è il frutto della volontà di regalare all'osservatore, attraverso l'atto creativo, un evento che presenta qualcosa. E questo qualcosa è la realtà, che altro non può essere, per Bacon, che soggettiva. E angosciante.
Non c'è volontà di denuncia a priori in queste opere. Quella deformazione ci mostra le storture prima ancora che si sviluppi una volontà di critica da parte sia dell'autore che dell'osservatore. Quelle opere non denunciano e non criticano nulla, mostrano solamente. Bacon ci restituisce, cioè, la "realtà" così come la vede, mostruosamente reale nel suo essere vitale e in movimento. Realtà sotto forma di Figura, uno dei tre elementi che Deleuze individua come caratteristici della pittura di Bacon: «le grandi campiture come struttura materiale spazializzante; la Figura, le Figure e il loro fatto; il luogo, cioè il tondo, la pista o il contorno, che è il limite comune alla Figura e alla campitura» (Deleuze 1995, p. 33). La pittura «deve strappare la Figura al figurativo» (ivi, p. 28).
Quelle figure così centrali, così unicamente scontornate, isolate, che ci aggrediscono con i colori, con le forme, o meglio, con quel movimento che le caratterizza che è energia pura, energia deformante, emergono da uno sfondo che è neutro o è quotidiano, che è il nostro mondo e al quale anch'esse appartengono. Solo esse attirano la nostra attenzione per un'energia che si fa guardare per prima (cfr. ad esempio Seated figure del 1961 [ https://www.francis-bacon.com/artworks/paintings/seated-figure-4] o Two figures lying on a bed with attendants – trittico del 1968 [https://www.francis-bacon.com/artworks/paintings/two-figures-lying-bed-attendants], tra le tante).
A volte quel tratto che deforma è solo figlio di un gesto, di uno sbuffo. La figura di Head of woman del 1960 ([https://www.francis-bacon.com/artworks/paintings/head-woman-0) è quasi tutta chiusa su se stessa, le spalle rivolte all'interno, in una specie di contrazione. Il viso avrebbe potuto “logicamente” essere rivolto verso il basso e invece si impone alla nostra vista con un vortice, che fa di una chiusura un'apertura di energia. Quella deformazione che noi vediamo, che ci rapisce perché ci racconta questa presenza - senza che questa sia forzatamente espressionista -, è quello stesso atto e nella sua globalità è l'atto della pittura. E quindi è anche il pittore stesso, quello che egli è nel momento in cui crea.
Quella di Bacon è una deformazione che sgorga come segno istintivo: «Come le ho detto, la mia pittura è soprattutto d'istinto. È un istinto, un'intuizione, che mi spinge a dipingere la carne dell'uomo come se si spandesse fuori dal corpo, come se fosse la propria ombra. Io la vedo così. L'istinto è mescolato alla vita. Io cerco di avvicinare il più possibile a me l'oggetto, e amo questo confronto con la carne, questa autentica escoriazione della vita allo stato bruto» (Maubert 2009, pos. 200). L'atto pittorico è qualcosa che rende la presenza del e nel quadro vitale nella deformazione, ma non c'è una volontà di denuncia preliminare. È atto, che dà vita alla Figura.
È difficile definire un parallelismo diretto tra le opere di Bacon e le distopie contemporanee. Cosa è possibile comparare? Un viso deformato è avvicinabile alla descrizione romanzata di un'esistenza trascorsa a scendere e salire le scale di un silo? L'angoscia di quelle figure assomiglia allo starsene rinchiusi dietro una recinzione che cela qualcosa che non sappiamo bene cosa sia? Un'operazione di questo tipo sarebbe arbitraria.
Propongo, però, un parallelismo: quello che la lettura di queste molteplici distopie può generare interiormente è molto simile a quello che si può provare e percepire di fronte ai quadri di Bacon. Questo è il punto nodale. Si tratta di qualcosa a sostegno del quale è difficile argomentare perché è un legame che non ha argomenti, se non la cifra della deformazione. Questa è ciò che accomuna le distopie contemporanee e i quadri di Bacon. Deforme il mondo descritto nelle distopie, deformi i volti, i personaggi, le Figure.
L’analogia con Bacon è rintracciabile nella tendenza generale e nella spontaneità che caratterizza la produzione delle distopie. La pittura di Bacon è realista e ovviamente soggettiva (ma per lui non c'è niente oltre la soggettività). È vero, nelle distopie si pretende di andare oltre questa dimensione per offrire una visione del mondo, la sua critica, una riflessione su ciò che possiamo fare perché il mondo non diventi del tutto quello che in realtà in parte già è. Ma quando Deleuze scrive che l'atto pittorico per Bacon è come «una catastrofe sopravvenuta sulla tela tra i dati figurativi e probabilistici […]. È come l'apparizione improvvisa di un altro mondo. Poiché questi segni, questi tratti sono irrazionali, involontari, accidentali, liberi, casuali. Sono non rappresentativi, non illustrativi, non narrativi» (Deleuze 1995, p. 168), possiamo dire che le tante distopie di oggi, nella loro molteplicità di storie, di stili, di accenti e anche di qualità, sono quei tratti. Quegli sbuffi, dei mondi che appaiono e che vengono registrati. Uno sforzo non di andare oltre la realtà per anticiparla, profetizzarla o ammonirci. Ma semplicemente di consegnarci la realtà nella sua distopia insita. Quello distopico è un realismo che si manifesta in forma di energia distorta.
Ciò che all'inizio di questo articolo ho presentato come una scomposizione dei grandi classici della distopia, forse è qualcosa di ancora più profondo. È una disgregazione di quei classici in rivoli, piccoli frammenti, disseminati nelle distopie di oggi.
È come trovarne uno ogni tanto, uno schizzo che genera inquietudine, un viso deforme che si staglia sullo spazio neutro, ma riconoscibile. “Utilizzare” Bacon per questo fine non è far essere Bacon diverso da quello che è, ma solo tentare di capire il realismo distopico a partire da un esempio di realismo pittorico unico.
Parlando di disgregazione, non vorrei per nulla attenuare la portata angosciante che le distopie odierne hanno. Tutt'altro. Vorrei piuttosto marcare una distanza rispetto alle distopie delle origini. Una tendenza che ci dice qualcosa di come possiamo riflettere su ciò che ci circonda, anche se questo qualcosa non è molto chiaro. Agnes Heller non trova risposta a quella domanda che ho sottratto al suo testo per porla all'inizio di questa riflessione. E meno che mai sarei in grado io.
Forse quella domanda ci dice solo di un modo di leggere la realtà, un modo in cui dobbiamo penetrare per capirlo più a fondo. Un modo che ha poco di razionale, ma molto del suo contrario. Che si lascia guidare e in cui dobbiamo solo immergerci. Si prendano ad esempio gli studi sulla corrida (Study for Bullfight n. 1 e 2 del 1969 [https://www.francis-bacon.com/artworks/paintings/study-bullfight-no-1 e opera successiva] e anche la seconda versione dello studio n.1, sempre del 1969, dov'è scomparso il riquadro con il pubblico [https://www.francis-bacon.com/artworks/paintings/second-version-study-bullfight-no-1]) o la serie di studi per le crocifissioni. Alla fine, per Bacon, si tratta di un gioco. Ma che pretende, nel caso delle distopie, di essere invece molto serio.
Ho “sfruttato” Bacon perché si può sentire in quell'atto pittorico un analogo sgorgare irrazionale, quasi non voluto, non deciso (ammesso che sia possibile eliminare qualsiasi elemento di volontarietà in una creazione artistica). Analogamente le distopie di oggi ci aggrediscono e si impongono alla nostra fruizione come una possibile, ma molto ricorrente, lettura della realtà.
La distopia delle origini doveva servirci a individuare nel mondo quei germi distopici che nella descrizione dell'altro mondo perverso venivano svelati e descritti con estrema chiarezza. Ora però è come se essa si fosse impossessata del mondo e quindi emerge semplicemente nel momento in cui noi ci rivolgiamo ad esso.
4. Metadiscorso sulla distopia
In questo parallelismo particolare c'è, però, una falla. Perché nel flusso di distopie che si susseguono rimane un minimo di intenzione di denuncia. La forma stessa della distopia, per quanto abbia cercato di dimostrare come essa si generi quasi istintiva nel momento in cui si osserva la realtà e si tenta di trascenderla in qualche modo, implica comunque una denuncia preliminare.
Implica, cioè, che si debba fare qualcosa delle descrizioni di questi mondi distorti. Realismo distopico non significa prendere veramente sul serio le distopie (per ricordare ancora Heller). Tutto ciò sarebbe mera ingenuità. Significa chiedersi perché il nostro librarci sopra la realtà grazie all'immaginazione ci imbriglia comunque nella realtà stessa, ma soprattutto chiedersi cosa dobbiamo fare di fronte a questo. Un problema che non si pone invece per le opere di Bacon. Scrive Leiris: «Nella maggior parte delle opere di Bacon, qualunque sia il mezzo a cui egli si affida per imporre l'immagine più irrecusabile e più sconcertante di una realtà, non è rilevabile traccia di nessun appello al sentimento: né verismo, né miserabilismo, né espressionismo. Nessuna speculazione sistematica su una violenza da fatto di cronaca, né sul carattere costernante del motivo (il che è soltanto un estetismo rovesciato) o sull'ingrandimento teatrale di certi tratti (procedimento che deriva dall'eloquenza romantica), meno ancora un intento critico, di ordine morale o politico; ma, invece di questo, una presa nel vivo, in un senso tagliente come quando si parla di una piaga a vivo […]» (2011, p. 33).
Per Bacon non si pone il problema di quale uso conseguente si debba fare delle sue opere. Nella sua serie di papi, ad esempio, Bacon non ci indirizza verso alcuna denuncia esplicita. Una volta che l'abbiamo vista, quella risata-ghigno (v. ad esempio, tra i tanti studi, Study after Velàzquez's portrait of Pope Innocent X del 1953 - https://www.francis-bacon.com/artworks/paintings/study-after-velazquezs-portrait-pope-innocent-x) si scolpisce dentro di noi ed evoca centinaia di possibili riflessioni e sentimenti diversi, che difficilmente possono essere assimilati allo scopo originario che ha condotto il pittore a realizzare l’opera, che per noi rimane comunque insondabile. Forse quello scopo sta tutto nella pulsione creativa che l'ha generata. I papi, le sue crocifissioni (ad esempio Three studies for Figures at the Base of a Crucifixion [1944; https://www.francis-bacon.com/artworks/paintings/three-studies-figures-base-crucifixion]), ma anche i getti d'acqua (Jet of water [1988; https://www.francis-bacon.com/artworks/paintings/jet-water-0]) - quanto di meno caratterizzato e di più apparentemente asettico possa esistere – sono esattamente quello che sono e nulla di più. Ci aggrediscono.
Allo stesso modo le distopie contemporanee ci aggrediscono e ci spiazzano. E in un certo senso ci disarmano. Nonostante questo, esse rimangono qualcosa di diverso: permane l'idea che io debba fare qualcosa di loro, con loro e a causa loro. Non è sufficiente che io mi riconosca o riconosca il mondo che mi circonda, perché lo scopo originario della distopia è diverso e quindi lo cerco, ho bisogno che si palesi. Perché altrimenti non staremmo a parlare di distopia e non sarebbe stata scelta quella forma specifica di raccontare un altro mondo, la forma distopica appunto. Questo non può essere indifferente.
Intendo dire che, al fondo, vi è sempre e comunque un monito. In alcune distopie questo aspetto è già espresso, soprattutto nelle lotte degli oppositori ai vari sistemi. Vi sono passaggi chiari e diretti, qualcosa da cui ripartire per pensare che un altro mondo, felice e migliore, sia possibile e realizzabile, cioè la prospettiva di un riallineamento della stortura. In altre distopie, invece, lo spiazzamento è prevalente. In questo caso la distopia arriva quasi al limite delle sue possibilità di essere compresa per quello che è.
Metalhead è un episodio della serie Black Mirror, già citata. La protagonista cerca di sopravvivere, dopo l'eliminazione dei suoi compagni, a un cane robot, che sembra sapientemente programmato per eliminare qualsiasi tipo di traccia umana. Nulla si sa di tutto il resto, si intuisce solo che ci sono degli umani nascosti da qualche parte e che, in un contesto desolato e quasi del tutto privo di umanità, vi è questa lotta tra uomini e robot. Mentre le varie domande si susseguono nella mente, le domande della nostra coscienza vigile e curiosa – ci sono uomini che comandano queste macchine? o il potere è tutto completamente in loro possesso? questi robot erano programmati per fare altro e hanno preso il sopravvento? insomma, qual è il senso del tutto? -, l'episodio è già finito.
Si tratta di una distorsione alla sua massima potenza, una distorsione che ci aggredisce e basta. Mentre si mostra e ci mostra l'angoscia di qualcosa che è com'è, e anche prima di interrogarci su cosa sia, sul perché ci venga mostrato così e non in un altro modo, su cosa voglia dire e su quale insegnamento (?) è possibile trarvi, ha già esaurito la sua presenza. È questo il realismo distopico.
Nel momento in cui la distopia si configura così, si potrebbe parlare di un metadiscorso sulla distopia, di una riflessione che la distopia opera su se stessa. Sui limiti di una sua comprensione, sulla possibilità o meno di individuare una via d’uscita. Non sappiamo perché, non sappiamo nulla. Eppure anche qui rimane un barlume di speranza (cfr. ancora Loche 2018). Rimane il legame affettivo in quanto ciò per cui questa donna ha rischiato di morire è – lo vediamo alla fine - uno scatolone pieno di peluche: rimane l'umanità.
Ma l'insegnamento che possiamo trarre non è diretto, è come una scossa. La funzione originaria della distopia è allora, anche in questo senso, salva: la “morale”, come nelle favole, è che dobbiamo lasciarci aggredire per far nascere qualcosa in noi. Attribuire questo aspetto alle intenzioni di Bacon sarebbe disonesto. O meglio, noi possiamo certamente interpretare le opere di Bacon, come di qualsiasi altro artista, in molteplici modi. Ma non possiamo attribuire all'intento originario qualcosa che non c'è.
Le distopie hanno, invece, nel loro dna la denuncia, anche quando ci aggrediscono e non comprendiamo facilmente cosa vogliono denunciare. Ci riconosciamo anche noi nelle larve colpite dalle mosche kisser in molti aspetti della nostra esistenza quotidiana (cfr. ancora Della Rocca 2018)? E allora cosa dobbiamo fare? Quel messaggio dobbiamo quindi scovarlo, dobbiamo tentare di trasformarlo in qualcosa che sia utile per noi. Se in molte distopie il contenuto della bottiglia sembra abbastanza chiaro, in altre la strada da seguire può configurarsi solo come il tentativo di sopravvivere. Ma vale la pena di mettersi in ascolto e di lasciarsi aggredire.
Bibliografia e filmografia
Attanasio M. (2013), Il condominio di Via della Notte, Sellerio, Palermo.
Ballard J. G. (2000), Super-cannes, Felitrinelli, Milano.
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Deleuze G. (1995), Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet. Macerata; tit. orig.: Francis Bacon. Logique de la sensation (1981).
Della Rocca M. (2018), La fuga degli insonni, Damiani editore, Bologna.
Eggers D. (2017), Il cerchio, Mondadori, Milano; tit. orig.: The circle (2013).
Firpo L. (20002), Introduzione a More T. (1516), Utopia, Guida, Napoli 1981.
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Heller A. - Mazzeo R. (2016), Il vento e il vortice. Utopie, distopie, storia e limiti dell'immaginazione, Erickson, Trento.
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- (2014), Shift, Fabbri Editori, Milano.
- (2013), Wool, Fabbri Editori, Milano.
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Houellebecq M. (2015), Sottomissione, Bompiani, Milano; tit. orig.: Soumission (2015).
Leiris M. (2001), Francis Bacon, Abscondita, Milano.
Loche A. (2018), Sconfiggere la distopia; ricostruire la politica. Nuove prospettive nella distopia del Terzo Millennio, in “Cosmopolis”, 1-2.2018, https://www.cosmopolisonline.it/articolo.php?numero=XV122018&id=8.
Maubert F. (2009), Conversazione con Francis Bacon, I libri del Festival della Mente, Laterza, Bari 2009 (versione e-book).
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Divergent (2014), regia di N. Burger, USA.
The village (2004), regia di M. Night Shyamalan, USA.
Westworld – Dove tutto è concesso (2016 – I° stagione; 2018 – II° stagione), ideata da C. Nolan e L. Joy, USA.
Episodi di Black Mirror (prod. da C. Brooker, 2011, Regno Unito):
Arkangel (29 dicembre 2017, II° puntata, IV° stagione)
Metalhead (29 dicembre 2017, V° puntata, IV° stagione).
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Per le opere di Francis Bacon citate si rimanda al sito ufficiale: https://www.francis-bacon.com/.
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