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Da Oxford a Sion.
L’epistolario giovanile di Isaiah Berlin (1928-1946)

Flavio Cuniberto

1. Oxford, Anni Trenta

Che Isaiah Berlin, l’autore del Riccio e la Volpe e del Legno storto dell’umanità, fosse un grande epistolografo, è una cosa che il lettore italiano apprenderà con sorpresa leggendo la ricca raccolta di lettere giovanili uscita ora presso l’editore Adelphi[1]. L’epistolario, che abbraccia un periodo di quasi vent’anni – dal periodo oxfordiano fino allo scoppio della guerra e al soggiorno americano – è di fatto un “romanzo di formazione” ambientato anzitutto nello scenario classico di Oxford: i collegi, i rituali accademici, gli intrighi. Prima come studente e poi come Fellow, il giovane Berlin si impregna di quell’atmosfera diventando, lui russo, anzi ebreo russo, più inglese degli inglesi e più oxfordiano degli oxfordiani. Se gli studi formano il “basso continuo”, quella che emerge in primo piano è in realtà la brillantissima vita sociale, e quel gusto della canzonatura impertinente e raffinata che sembra il marchio inconfondibile del clericus di Oxford in quegli anni (una scena fra tutte: la bizzarra cerimonia che Berlin e amici allestiscono “per il piacere dei turisti” intorno al Pellicano del Corpus Christi).
La formazione del perfetto gentleman anglosassone ha però un ambito più vasto, che è quello tracciato dalla sua provenienza: la famiglia Berlin, o meglio gli onnipresenti genitori Marie e Mendel Berlin, che lo accompagnano discretamente nell’impresa a condizione di non perdere mai di vista chi è Isaiah Berlin, e da dove proviene. Non è un caso se la prima lettera ai genitori è diretta alla coppia durante un viaggio a Riga, la città natale, dove il padre Mendel esercita da tempo un fiorente commercio di legname, prima con la Russia zarista e ora con la Russia dei Soviet. Mentre il primo viaggio in Palestina, in quell’incredibile “Klondyke” zeppo di coloni e di speranze quasi-messianiche che è la Palestina nel 1934, è un viaggio di formazione ulteriore: appena abbozzato, quanto basta per assaggiare la nuova realtà del paese che sta nascendo sulle colline della Giudea. Le poche lettere dalla Palestina sono infatti, in primo luogo, un resoconto per la famiglia, che, impegnata nel movimento sionista con incarichi e amicizie di primo piano, attribuiva a quel viaggio un significato speciale. Il ragazzo, il goliardo letteratissimo e scanzonato in visita nei nuovi insediamenti ebraici, non è ancora il funzionario del Foreign Office che qualche anno più tardi svolgerà la sua missione presso le comunità ebraiche americane: ma è appunto, come si diceva, un viaggio di “formazione”, che ha il compito di stimolare, sotto la guida discreta della famiglia, la coscienza ebraica del giovane Fellow oxfordiano.
Non è un processo facile. Malgrado la parentela con la dinastia degli Schneerson, i famosi Lubavitcher, fautori di un hassidismo dalle forti tinte mistiche e sapienziali, la famiglia Berlin è poco osservante, e pratica un sionismo di stampo laico-nazionalista (quale era, d’altronde, buona parte del sionismo europeo e anche americano di quegli anni). E se già la famiglia è poco osservante, la dimensione religiosa e tradizionale dell’ebraismo è del tutto estranea al giovane Berlin (non è facile dimenticare il fugace incontro col Professor Scholem, che al giovane filosofo di Oxford appare come un tipo interessante ma «un po’ fuori»). Perfino il breve viaggio nella Rutenia Subcarpatica, piena di insediamenti ebraici e, forse, di “rabbini miracolosi” – come quelli di cui Joseph Roth tesseva l’elogio più o meno negli stessi anni – non nasce affatto da un interesse per l’ebraismo orientale ma da una curiosità tutta scientifica per lo “slavo di base” (e sarà questo interesse per le lingue slave, più che per lo yiddish, a fargli perorare la causa di Roman Jakobson come professore di Russo a Oxford nella primavera del '45). Ben lontano dall’avvertire il richiamo dello shtetl, Berlin trova il paese squallido e sgangherato, pieno di «Ebrei pittoreschi e un po’ matti» (la follia, la madness, è una qualità che si accompagna quasi sempre, per lui, alla dimensione mistica, come anche nel caso della signora inglese appassionata di San Juan de la Cruz, «un po’ matta», ma pur sempre inglese). C’è poco da fare: in questi anni di formazione i pochi viaggi di Berlin sono sempre viaggi “lontani da Oxford”. Lo sguardo ironico che si posa sul cantiere sionista di Tel-Aviv, come su qualsiasi altra cosa, tradisce piuttosto un’aria di famiglia coi grandi viaggiatori inglesi di quegli anni, espressione di un’Inghilterra ancora imperiale e regina dei mari, come Evelyn Waugh, come Robert Byron.
Tutto questo per dire che la coscienza ebraica di Berlin è, nella Oxford anteguerra, a malapena latente. E così i nomi e i riferimenti ebraici sono scarsi: tanto rari quanto si faranno rari i nomi non-ebraici nelle lettere americane, quando la vita stessa di Berlin sarà un’immersione a tempo pieno nella frizzante, agiata, elettrica vita della grande comunità ebraica americana.

2. Lo stile come assoluto

Se può bastare una lettera, anche isolata, a documentare l’intelligenza, la brillantezza e il gusto irrefrenabile del gossip («la vita non merita di essere vissuta se non si può essere indiscreti con gli amici intimi»)[2], solo la visione d’insieme dell’epistolario può permettere di coglierne la qualità complessiva. Di lettera in lettera, di anno in anno, l’occhio di Berlin si posa via via sugli eventi e, si potrebbe dire, sugli “oggetti” più diversi: gli intrighi accademici di Oxford, i concerti di Toscanini a Salisburgo, il cenacolo di Stefan George e i prodromi del nazismo, le atmosfere di Venezia, la letteratura inglese e quella russa, gli sviluppi del sionismo e i party dell’alta finanza. Difficile immaginare qualcosa di più mercuriale, un occhio capace di muoversi con più leggerezza su ogni cosa senza fermarsi su nessuna. Si potrebbe chiamarla, con termine classico, curiositas: l’attitudine a passare da un tema all’altro come se l’universo mondo fosse un’unica, sterminata, palestra di conversazione. E si capisce, leggendo, che Berlin persegue un suo preciso ideale di prosa: brillante, nervosa, caleidoscopica. Per quanto possa apparire strano in un saggista politico, uno “storico delle idee”, si direbbe che il nucleo più intimo dell’epistolario ha a che fare proprio con lo stile: la ricerca dello stile come assoluto. E se prima si parlava dell’“occhio” di Berlin, qui sarebbe più esatto parlare di “orecchio”. È lui il primo a definirsi un uomo «senza occhi»: tra le infinite cose su cui si posa il suo sguardo, i luoghi, quasi, non ci sono. Di Salisburgo vede la pioggia, di New York riferisce l’emozione del panorama «mozzafiato» dall’alto del Rockefeller Center. Del lungo giro americano rimangono cartoline antropologiche (come quella fulminante su Hollywood), e l’impressione di comoda, colta agiatezza, che emana dai quartieri residenziali di Washington. Ma i luoghi di Berlin sono tutti umani, o mentali, o letterari. Tant’è vero che è lui il primo a sorprendersi della propria emozione di fronte al paesaggio grandioso e primordiale della Palestina, perché è un’eccezione, quasi un miracolo, in un testo che è tutto intramato di parole e di voci, da quelle della grande letteratura, al chiacchiericcio dei colleghi di Oxford, alle voci ammiccanti delle amiche.
La disposizione acustica di Berlin trova una conferma quasi ovvia nella sua passione per la musica (lo vediamo armeggiare con la radio, nella sua stanza di Oxford, e finirà per dirigere il Covent Garden). E si può dire senz’altro che quell’idea di prosa brillante a cui si accennava è anzitutto un’idea musicale. Le pagine più riuscite hanno il potere di smaterializzare il soggetto riducendolo a un pulviscolo di notazioni aeree e intrecciate, o concatenate, secondo una misura anzitutto ritmica. Quasi una dissolvenza musicale della materia, ottenuta non già per via lirica, ma affinando all’estremo un certo senso che si potrebbe definire fisiognomico: la capacità di cogliere il tono, di riprodurlo e orchestrarlo. Certo, è una passione e una qualità sensoriale che ci riporta all’ebraismo (nelle pagine dell’epistolario passano Horowitz e Jasha Heifetz, lo stesso Berlin è cugino, neanche alla lontana, di Yehudi Menuhin). Ma soprattutto affiora un’altra domanda: se cioè la qualità stilistica delle sue pagine, la trama fitta delle parole che si inseguono nominando, toccando con i nomi le cose, non abbia qualcosa di profondamente talmudico, non offra per così dire un equivalente secolare dell’infinita testualità talmudica e anche qabbalistica. Una domanda che si potrebbe porre anche per un nume tutelare tra i più segreti di Berlin: quello di Proust.

3. Filosofia e letteratura: russa

La privata lotta con l’Angelo di Isaiah Berlin è la ricerca dello stile: quale rapporto ci sarà, allora, tra questa ricerca dello stile e il Berlin filosofo? Non è un gran rapporto, perché Berlin non è un filosofo (e non è senza emozione che si legge di quella trasvolata del ’44, nella scomoda cabina di un aereo militare, quando Berlin, alla svolta topica dei 36 anni, decide che la filosofia non fa per lui e che dedicherà la sua vita di studioso alla storia delle idee). Se mai, si tratta di cogliere, dietro la storia delle idee, il nascosto pulsare di uno stile, di un’idea di stile, che è appunto un’idea musicale, e che l’epistolario porta alla luce. Comunque, l’etere delle astrazioni non è il suo elemento. Basta vedere quei passaggi interni delle lettere giovanili dove alla scena esilarante, alla musique de conversation, subentra il passo serioso sul marxismo o sugli orientamenti del partito comunista inglese. Lo stile perde colpi, si fa meno convincente. Mentre nel parlare di letteratura, o dei filosofi come scrittori, o dei filosofi da scrittore (come negli amabili appunti su Marx che invia all’amica Jenifer Williams, 30 settembre 1936, alle prese con una recensione per l’“Economist”)[3], Berlin è sempre a suo agio, a condizione di farlo a modo suo, di trattare gli autori come i suoi colleghi di Oxford, di inseguirne la voce e i tratti idiosincratici, con lo stesso gusto che lo anima nel gossip di società.
D’altra parte, la storia delle idee come campo di ricerca e questa passione letteraria o meglio ancora stilistico-musicale hanno un preciso punto di convergenza, che è il mondo russo. Dicendo che Berlin come scrittore epistolare è talvolta eccessivo, si intendeva dire anche questo: che è molto russo. E quella tensione fra la misura cercata e la misura raggiunta ricorda un’oscillazione tutta interna al mondo russo tra l’eccessivo, il proliferante, il grottesco e la misteriosa perfezione di Tolstoj. Dove però allo stormire maestoso della foresta tolstojana subentra – ed è l’elemento ebraico – un paesaggio tutto interno, come un’immensa, confortevole biblioteca o uno spiritoso archivio sonoro.
Meno segreto del nume proustiano è quello che appare come il suo vero autore di culto: Alexander Herzen. Non basta dire che a Herzen, l’apostolo russo della libertà, Berlin ha dedicato vari saggi. Il fatto è che a Herzen lo lega un’affinità di natura stilistica. Ne condivide anzitutto il rifiuto della filosofia della storia, di una visione unitaria e coerente e progressiva della storia umana. Ma poi si scopre che «non c’è nessun altro scrittore, non c’è uomo» a cui vorrebbe «assomigliare di più e scrivere come lui»[4]. È una dichiarazione programmatica (e c’è quasi una punta di gelosia in quella mirabolante commemorazione di Jasper Ridley in cui ricorda come l’amico, figlio di un conte russo, gli aveva scritto di essersi «innamorato» di Herzen, e «che avrebbe voluto averne un figlio»)[5]. Come si legge nel Riccio e la Volpe, l’autobiografia di Herzen, Passato e pensieri, è per lui un nascosto modello di prosa variegata, amalgama di materiali eterogenei «in cui entrano particolari privati, descrizioni di vita politica e sociale in Paesi diversi, opinioni, personaggi, idee […] discussioni su uomini politici, su intenti e scopi di vari partiti. A tutto questo s’intreccia una varietà di chiose, osservazioni pungenti, profili di persone, acuti e freschi, a volte maliziosi, caratterizzazioni di popoli, analisi di fatti economici e sociali»[6]. Ci chiediamo se Berlin non stia parlando qui di se stesso e del suo epistolario: è quell’ideale di prosa caleidoscopica che le lettere perseguono come una sorta di assoluto non dichiarato.
Del resto, in Herzen (come per altri versi in Tolstoj) non fa che raggiungere il diapason quell’elemento russo in cui Berlin vede, anche al culmine della sua assimilazione anglofila, un paradigma di superiore vivacità e intelligenza. Se questa vena russa non percorresse più o meno sotterranea anche gli anni di Oxford, non si capirebbe quell’aspirazione testarda a raggiungere Mosca che lo porta a scrivere a Lord Halifax nel giugno del ’40 e a giocare la carta del suo perfetto bilinguismo per svolgere un utile servizio in favore della patria britannica.
C’è, in Berlin, un evidente pregiudizio filo-russo. Persino un libro modesto su Marx e il marxismo, che si trascina un po’ a fatica, può brillare di luce riflessa quando vi irrompe la figura russa di Bakunin: sarebbe morto, quel libro, se non ci fossero quei brani finali su Bakunin «che sembrano traduzioni dal russo»[7]. Nessuna mistica, in Berlin, e meno che mai una mistica del suolo. Ma se c’è una possibile eccezione, questa è proprio il suolo russo (non `eretz Jisra’el!), così intrinsecamente fecondo da ridare smalto e vigore alle smorte dottrine filosofiche di importazione occidentale. Giunte in Russia come dottrina «laiche» ed «astratte» (per esempio il marxismo), ne ritornano «come fedi incendiarie, settarie, semireligiose»[8]. E la cosa più notevole è che qui l’aggettivo “religioso” non ha una connotazione negativa: il potere metamorfico del genio russo! (Ricorda un po’, tutto questo, l’atteggiamento di Nabokov esule a Berlino: che vede la città in bianco e nero, se non ci fossero i colori smaglianti della lingua e della letteratura russa coltivata dagli esuli come una specie di Santo Graal da conservare intatto)[9].

4. La Germania come enigma negativo

Si potrebbe dire che il pregiudizio filo-russo è l’altra faccia, il rovescio, di un pregiudizio anti-tedesco. Se è vero che (talvolta) il nome è un destino, nel caso di Berlin è un destino legato all’ebraismo e al sionismo (Isaiah), ma anche alla grande cultura tedesca o mitteleuropea (Berlin) a cui dedicherà una parte non secondaria dei suoi saggi. Non che la Germania sia al centro dell’epistolario, tutt’altro: a parte i soggiorni giovanili nell’austriaca Salisburgo (in chiave “toscaniniana” e perciò antifascista), la Germania si intravede appena come il Grande Altro, come quella Berlino «del ’27-’28», nervosa e bohémienne, «malsana» (nel giudizio di Goebbels), e quindi seducente. Ma nello stesso tempo inaffidabile, indecifrabile: un miscuglio paradossale di genio e stupidità, di intensità e di frustrazione (quella frustrazione che nasce, secondo l’analisi geniale di Berlin, dall’incapacità di vivere “di prima mano”, come per una misteriosa condanna alla riflessione, alla mediazione, che finisce per bloccare come una scaglia di ghiaccio il calore immediato della vita e della stessa intelligenza). E beninteso, non è solo della Germania nazista che si parla, ma è la Germania come tale o il carattere tedesco a suscitare in Berlin un’incurabile diffidenza. Si capisce allora che non possa dargli pace l’osservazione di Herzen sui Tedeschi come Inglesi di serie B: vedono se stessi «come un sottoprodotto della stessa macchina che ha sfornato gli Inglesi, come un frutto dello stesso albero andato a male, e si comportano di conseguenza, e diventano perciò dei cattivi inglesi»[10]. Non c’è passaggio o battuta, sui Tedeschi, che li risparmi. Compresi gli Ebrei tedeschi (e questo è notevole): che appena arrivano a Gerusalemme «vanno subito a comprarsi il Fahrplan», e se l’autobus non arriva puntuale protestano, sbandierando il Fahrplan. Finché l’autista, ebreo ma non tedesco, gli spiega che se un Ebreo ha fatto un buon affare vendendogli l’orario degli autobus, questo non vuol dire che «dobbiamo portare gli autobus dove vuole lui[11]. Per non parlare degli Ebrei americani, da suddividere in due categorie: gli intriganti vivaci (che saranno russi, slavi, o anche sefarditi) e «i moribondi di rango»[12], che sarebbero appunto di origine tedesca. (E non c’è sentenza più lapidaria, più nietzscheana, di quella che liquida «i Tedeschi ‘buoni’ di domani», definendoli «peggiori dei Tedeschi ‘cattivi’ di ieri»). La Germania è questione antropologica e metafisica, non politica.
Che questa antipatia antitedesca abbia poco o nulla a che fare col nazismo, è un motivo di sorpresa. Certo è che nell’epistolario il nazismo è quasi assente. Si parla di «bestie fasciste», che è un insulto stereotipo per bollare ad esempio le Guardie Bianche nella Russia del '17: ma del nazismo come tale e dell’antisemitismo nazista non si parla quasi mai, come se un grande misterioso vuoto si aprisse al centro dell’Europa. Come l’occhio di un ciclone intorno al quale gireranno le armate russe, inglesi, americane, per poi incontrarsi a Yalta e decidere la spartizione. Che cosa sia quel vuoto, che cosa lo abiti, è una domanda che in Berlin non affiora[13]. E come non vede il regime hitleriano, così non vede l’avanzata delle armate germaniche verso est, il dramma della Polonia, i massacri del fronte russo. Insomma, non si può nasconderlo: le lettere americane – dal '40 al '45 – sono un vortice di riflessioni politiche e geopolitiche – ma non contengono alcuna allusione a quello che accadeva, in quei mesi, nei campi polacchi e ucraini e bielorussi. La figura dell’Ebreo deportato non c’è. Tanto è forte il frastuono delle assemblee sioniste americane, rissose e organizzate e pronte a guadagnarsi con le armi la terra d’oltremare, quanto è fitto il silenzio sul genocidio. La concomitanza ha qualcosa di stridente, di incomprensibile. Il 9 agosto del '44, in una lettera ai genitori, racconta di aver «soggiornato con l’incantevole, gentilissima […] Alix de Rothschild, moglie di Guy [de Rothschild], a Cape Cod, dove il clima è fresco e gradevole […], e ho un piccolo cottage con un servitore nero tutto per me». E lì «tutto è placido e bello». Poi prega i genitori di non raccontarlo agli amici: sa che sarebbe di cattivo gusto, mentre il Paese è in guerra, ma il suo pensiero appunto va agli amici sotto le armi e alle città inglesi minacciate dal fuoco tedesco. Non si spinge oltre l’Elba e l’Oder. Gli Ebrei pittoreschi della Rutenia non fanno più notizia alcuna.
Berlin romperà il silenzio molti anni dopo, nella conferenza di Gerusalemme del 1975, e lì accennerà all’impatto sconvolgente delle immagini dei Lager sull’opinione pubblica mondiale[14]. Rimane il mistero di quel silenzio, in pieno 1944, come se nessun Foreign Office, nessun Servizio di Informazione, nessuno spionaggio americano (o sionista, o anche ebreo-sovietico), avesse avuto notizia dei campi e delle imprese hitleriane. Affiora un’ipotesi: che il “Germania delenda est” fosse già stato pronunciato da tempo nei circoli inglesi, e che la sua messa in atto non fosse in relazione al carattere più o meno sanguinario e psicopatico del regime di Berlino.

5. Mimetismo ebraico

La Russia (in positivo), la Germania (in negativo). L’agio estremo con cui il giovane Berlin si muove nel castello musicale delle parole (cioè dei testi, a cominciare da quelli non scritti, dalla «tessitura» delle voci e dei nomi), è però squisitamente ebraico. Come già si accennava, l’eleganza musicale della sua prosa può essere assunta come l’emblema di un ebraismo secolarizzato che travasa la musica liturgica dei padri in una musica «humana» e perciò perfettamente mondana, acclimatata con agio e ironia nei riti della grande borghesia anglosassone. E quello che si diceva del suo talento per le «voci» – della sua attitudine a riprodurre il chiacchiericcio (il «patter») dei colleghi e degli amici – si potrebbe descrivere come una forma superiore di mimetismo. Perché Berlin è un grande «imitatore di voci». Non certo in quanto filosofo, lo si è detto. Ma il saggista non è appunto quasi per definizione un imitatore di voci? Non c’è saggismo senza mimetismo. Di questa verità, peraltro ovvia, Berlin offrirà una prova vistosa e in qualche modo scandalosa: nel senso che la sua simpatia mimetica andrà anche, se non soprattutto, ai grandi reazionari, agli Hamann, ai De Maistre, a quei «nemici della libertà» che avrebbe se mai il compito filosofico di «smontare». La sua capacità di immedesimarsi col nemico è affascinante e conturbante, e l’epistolario ne lascia forse intuire la cellula germinale, lasciando trapelare una memoria ancestrale della vecchia Russia che è come uno sguardo fisiologicamente rivolto al passato. Ma l’essenziale non è questo, è il mimetismo stesso: che elevato a organo supremo può produrre le pagine più fascinose ma azzera, di fatto, la possibilità stessa della teoria come speculazione. Sembra allora di capire meglio quella sorta di ironia cosmica che avvolge tutto Berlin: la cosa, la realtà, sfuma nella distanza, per cedere il passo all’artificio incantatorio della parola. (C’è, in questo sortilegio mimetico, qualcosa che ricorda da vicino il programma estetico del Romanticismo di Jena: un programma che trova il suo ambiente di elezione, non a caso, in un Libro Assoluto, e il cui terreno di coltura sono, almeno in parte, i salotti della borghesia ebraica berlinese).
Caliamoci allora di un altro giro nei misteri berliniani: non sarà proprio questo mimetismo – altra chiave di lettura – ad essere squisitamente ebraico? Non è forse la versatilità dell’intelligenza ebraica ad aprirgli le porte delle forme, a cominciare da quelle che dovrebbe combattere in nome degli ideali liberali? E allora, con un giro ulteriore: non ci sarà un rapporto tra questa forma mentale così versatile, mimetica fino al paradosso, e il sionismo di cui Berlin si fa promotore attivo?

6. Il sionismo come ‘forma simbolica’

Bisogna capire anzitutto che cos’è il sionismo per Isaiah Berlin. Non c’è dubbio che se nell’epistolario c’è una cesura netta, questa si colloca al suo ritorno in America, nel gennaio del 1941. Il cambiamento di scenario è, si direbbe, totale. Quello che fino a pochi mesi prima gli era apparso come un parcheggio noioso, come l’anticamera dell’agognato viaggio a Mosca, acquista all’improvviso un fascino, una capacità di attrazione sorprendente. Quello che ritroviamo in America nel gennaio del 1941 è un Berlin trasformato. Sapeva, già da prima, che i due unici luoghi in cui avrebbe potuto «agire sul corso degli eventi» erano Mosca e New York[15]. Ma ora si decide per New York, e, sorpresa: non è più una scelta «faute de mieux». L’America incomincia ad apparirgli come lo sfondo grandioso, probo e monotono, di un processo che può prendere forma solo lì. E questo processo è l’avventura sionista.
Una cartina di tornasole interessante è il suo atteggiamento verso Chaim Weizmann, il grande leader sionista con cui è in contatto in Inghilterra nei giorni febbrili prima della partenza. Fino all’anno prima non riusciva a trovarlo affascinante: lo sente estraneo, le sue «sentenze dalla lingua d’argento» lo infastidiscono[16]. Poi succede qualcosa. Succede che Berlin scopre la potenza e la qualità umana e intellettuale dell’ebraismo americano. È come se, per la prima volta, una dimensione in qualche modo sacrale entrasse nella vita di Berlin (accanto, forse, alla memoria ancestrale della «terra» russa). Naturalmente il suo linguaggio non è questo, e rimane permeato di inguaribile ironia (come quando descrive la figura solenne di Louis Brandeis e annota sardonico: «parla come un santo della Mishnà»)[17]. E tuttavia l’identità ebraica, prima latente, affiora, ed entra come in uno stato di euforia, di tonico attivismo. Gli incontri con i leader (Nahum Goldmann, gli amici Frankfurter, i Rothschild già conosciuti in Inghilterra, e tutti gli altri) lo mettono in contatto con un mondo economicamente potente e organizzato e al tempo stesso raffinato, come il miglior distillato della vecchia Europa: questo mondo sostiene, al 92%, il progetto di uno Stato ebraico o di un Commonwealth ebraico «sulle due rive del Giordano». Rispetto a questo mondo, Weizmann non è che un vecchio leader ancora imprigionato nell’illusione inglese. È l’incontro con Ben Gurion ad aprire gli occhi di Berlin sul ruolo dell’America (il giorno dopo Pearl Harbor): con un eloquio intermittente e lampeggiante, come preso da una «visione apocalittica», Ben Gurion lo convince che le masse ebraiche americane avrebbero influenzato la politica estera degli Stati Uniti fino a rendere possibile il sogno sionista[18]. E pur seguendo un corso bizzarro, gli eventi gli daranno ragione. I settori dell’Amministrazione americana più vicini a Roosevelt si entusiasmano all’idea che un milione di coloni ebrei, provvisti di capitali adeguati e di sofisticate competenze, avrebbero «trasformato l’intero Medio Oriente, socialmente ed economicamente»[19]. Una serie di progetti «audaci, ben concepiti, su vasta scala, come lo sfruttamento delle acque del Giordano, l’idroponica, lo sviluppo del Negev […] avrebbero portato a un vasto sistema di irrigazione, elettrificazione, riforestazione, e nuove industrie avrebbero creato un vita nuova e migliore per tutti i popoli della regione»[20]. Se questi sono i progetti che incominciano a farsi strada nell’entourage di Roosevelt, è lo stesso Berlin a capire, fin dall’estate del ’41, che i 5 milioni di ebrei americani, se bene organizzati e ben guidati, «potrebbero essere una potenza immensa [an immense power[21]. Tanto maggiore quanto più formidabili sono i mezzi bellici che l’America può mettere a disposizione della Gran Bretagna per vincere la guerra.
L’evidenza o meglio il fascino di questo progetto è la chiave dell’attivismo di Berlin negli anni americani. Il Foreign Office lo ha inviato a New York per orientare la politica estera americana in senso filo-inglese, e indurre l’America all’intervento, e lui assume l’impegno alla lettera, non per Sua Maestà ma nel superiore interesse della causa ebraica.
C’è, in questo ruolo di Berlin presso i Servizi di Informazione britannici (e poi presso il Ministero dell’Informazione a Washington), un doppio livello o una doppia fisionomia che arriva qualche volta alle soglie dell’incidente diplomatico. I rapporti settimanali che invia da Washington a Londra seguono un doppio canale: quelli ufficiali, edulcorati, e quelli riservati (in buste accluse alla corrispondenza ordinaria con gli amici). Succede che la corrispondenza viene intercettata, il Foreign Office inoltra una formale protesta, ma le protezioni di cui Berlin gode in America sono evidentemente troppo forti per far vacillare il suo incarico. (Non è trascurabile l’episodio iniziale dell’intera vicenda: quando sono i Rothschild a muoversi, nell’estate del 1940, per bloccare il viaggio di Berlin a Mosca, sospettando che lo spionaggio sovietico intendesse utilizzarlo come «copertura» lungo l’asse tra il KGB e il partito comunista inglese).
La domanda, come sempre in questi casi, è: chi manovra chi? Il doppio livello è anche questo: il Foreign Office intende utilizzare Berlin come «testa di ponte» con la comunità ebraica americana per volgere il peso politico di quest’ultima a favore dell’Inghilterra, e la comunità ebraica utilizza, a sua volta, l’alleanza anglo-americana per attuare il progetto sionista.
Come si sa, Berlin non emigrerà in Palestina, e non resterà neppure in America (dove solo Harvard, per qualche momento, sembra in grado di soppiantare il ricordo di Oxford). Quali sono allora le ragioni profonde di questa fascinazione? Qui occorre dire, in primo luogo, che la possibilità di «agire sul corso degli eventi» produce in Berlin una sorta di vertigine: è la grande occasione che gli viene offerta per uscire dall’ineffettualità intellettuale (è la lezione di Marx) e passare finalmente dalla teoria alla prassi[22]. È molto probabile, del resto, che l’esperienza del «melting-pot» americano abbia rafforzato in lui quell’idea di varietà armoniosa, di versatilità leggera e danzante, che è, come si è visto, il tratto saliente del suo stile epistolare. La rafforza precisandola nel senso di un melting-pot tutto ebraico, di un confluire della varietà del mondo in un contenitore, questa volta, tutto ebraico. Non importa affatto che il contenitore sia connotato in senso confessionale, religioso: se anzi lo fosse, non potrebbe funzionare altrettanto bene come contenitore universale. E certo, la Palestina come contenitore universale è un po’ angusta. Ma il sionismo è una realtà complessa, di cui lo Stato di Israele rappresenta solo un aspetto: la punta avanzata, l’avanguardia (rivoluzionaria, in fondo), sempre in simbiosi con una più vasta comunità internazionale (e in primo luogo americana), che sarebbe riduttivo qualificare come una semplice «retrovia». C’è un sionismo sul campo, quello realizzato della teshuvah, e c’è un sionismo della diaspora, che vivono in simbiosi e sono aspetti di un medesimo progetto.
Si vorrebbe dare però un’idea più precisa di quella «varietà armoniosa» e di quella «versatilità danzante» a cui si accennava prima, quasi fosse la forma simbolica, la cifra dello stile epistolare di Berlin. Basterebbe citare un paio di passi, di «scene», che il giovane Berlin allestisce come in un saggio di sapiente regia teatrale (o cinematografica).
1. «L’improvvisa esplosione di allegria quando nella Corte è apparso Roy in cappa e toga – che si porta ovunque – accompagnato dal Conte e dalla Contessa di Birkenhead, e poi dai Pakenham, da Lady Mary Murray, Maurice e i miei migliori allievi: quasi una scena di Encaenia [festa commemorativa della fondazione della città di Oxford]. Aggiungi a tutto questo i tagliagole fascisti, il banco dei fruttivendoli, i giovani comunisti (di entrambi i sessi), gli autisti (in sciopero) e una spruzzatina di tipi bizzarri, e avrai una vera, grande scena shakespeariana. Allegra e vagamente terrificante»[23].
2. «Ho appena lasciato un’atmosfera incantata. Goronwy ha descritto la scena con impagabile vividezza: tutti noi seduti, in pose fuori del tempo alla Toulouse-Lautrec, dall’uomo con la cravatta nera – la cravatta svedese a quadri di Roger Stenhouse – agli occhi azzurri sporgenti di Alan, ed Elizabeth Bowen curiosamente nell’angolo, ma in modo da infondere al tutto una certa qualità elettrica e tesa, al ministro americano, e un grande senso di calma, con la sensazione che qualcosa di terribile sta per accadere, e infine l’entrata di Goronwy con nient’altro che il suo genio da dichiarare, come il giovane Rousseau in mezzo a una compagnia di philosophes ufficiali: il tutto era pura arte, non potrò dimenticarla, o immaginarla diversa»[24].
Il tutto era pura arte, appunto. Come costruzione dell’unità nella varietà, cioè dell’armonia (non data, ma costruita). E queste sono scene di ordinaria vita oxfordiana, dipinte con impagabile stile. Ma il principio che anima queste scene – l’arte – non è per nulla diverso da quello che lo stesso Berlin vedeva in opera nelle strade caotiche di Tel Aviv, durante il suo viaggio in Palestina del 1935. Un sionismo tiepido, allora, ma è lucidissimo lo sguardo che registra la scena: «i rifugiati tedeschi che sciamano per le strade con le loro cartelline sottobraccio facendo affari ovunque – nei caffè, sugli autobus, sui battelli, sul mare, dappertutto tranne che nei loro uffici –, e il vigile che ferma il traffico agitando un manganello come fosse la bacchetta di un direttore d’orchestra, e parlando ebraico nei momenti di calma e un yiddish vibrante e appassionato nei momenti di concitazione, e gli autisti che si scambiano informazioni ad alta voce, bestemmiando, ridendo come Greci o Siriani, già levantinizzati, costretti improvvisamente a fermarsi per una lunga carovana di cammelli, molto bella e simile a un manifesto pubblicitario, guidata da un piccolo ebreo polacco in bombetta nera che cerca di farsi capire dai cammelli emettendo richiami in arabo (imparati la notte prima), e seguita da un gruppo di intellettuali, poeti, editori e simili in visita ufficiale, un’accademia peripatetica impegnata a discutere sul conio di un neologismo ecc.ecc.ecc. È incredibile, come l’esecuzione della Serva Padrona di Pergolesi in ebraico al teatro dell’Università, con vista panoramica sulle colline di Moab e sul Mar Morto – certo Pergolesi non avrebbe mai immaginato il suo libretto in ebraico –, seguita dalla visita a una chiesa dell’epoca delle Crociate e da una conversazione in un francese zoppicante con un monaco infinitamente colto e educato»[25].
Anche questa volta, una specie di danza cosmica in cui la varietà viene come «centrifugata» e fusa in una sorta di eterno presente o di attimo eterno.
C’è qualcosa di messianico, in questo attimo, e nella misura in cui questo qualcosa è «messianico», in questa stessa misura appartiene all’essenza del progetto sionista. Diciamo «messianico» pensando al passo definitivo di Isaia sul «convenire» delle genti – cammelli e carovane e ricchezze di ogni genere e provenienze – in Sion. Certo un messianismo secolare, o perlomeno molto letterale. Così letterale da intendere alla lettera la figura stessa del Messia, che in questo caso è, nientemeno, Arturo Toscanini: «Toscanini, è vero, sarebbe da non perdere; quello che davvero mi piacerebbe è andare a sentirlo a Gerusalemme in settembre. La scena sarebbe notevole: lui a dirigere su una collina rossa con mille Ebrei della più svariata provenienza in totale adorazione attorno a lui, e il pericolo incombente di un bombardamento arabo»[26].
La metamorfosi è compiuta. Il Messia è tra noi (ironicamente, certo). Mille ebrei sono ai suoi piedi, adoranti, nella sera profumata di Gerusalemme. Con questa immagine formidabile Isaiah Berlin cattura una volta per tutte quella che potremmo chiamare la «musica della varietà» come vocazione universale dell’ebraismo. La vocazione messianica per eccellenza (il Signore delle schiere, Adonai tzeva’ot, non è altro che questo), trasposta in una sala da concerto, sulle rosse colline di Giudea.

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[1] I. BERLIN, Flourishing. Letters 1928-1946, edited by H. Hardy, Chatto & Windus, London 2004, tr. it A gonfie vele. Lettere 1928-1946, a cura di F. Cuniberto, Adelphi, Milano 2008. L’edizione inglese – di cui quella italiana è una scelta – si presenta come una raccolta di materiali eterogenei – non solo le lettere, ma anche i “dispacci” da Washington per il Foreign Office, le Note di lettura per Faber&Faber, il saggio Freedom ecc. Al primo volume dovrebbero seguirne altri tre, sempre curati da Henry Hardy.
[2] A Morton Whyte, 7 maggio 1970.
[3] A Jenifer Williams, 30 settembre 1936.
[4] A Cressida Bonham Carter, 24 agosto 1938.
[5] A Cressida Ridley, 14 febbraio 1945.
[6] I. BERLIN, Il Riccio e la Volpe, tr. it. di G. Forti, Adelphi, Milano 1986, pp. 308-309.
[7] A Jenifer Williams, cit.
[8] I. BERLIN, Il senso della realtà, tr. it. G. Ferrara degli Uberti, Adelphi, Milano 1998, p. 307.
[9] Cfr. ad es. V. NABOKOV, Il dono, a cura di S. Vitale, Adelphi, Milano 1991 (sul rapporto in qualche modo cromatico tra la comunità degli émigrés e lo sfondo berlinese del romanzo).
[10] A Elisabeth Bowen, gennaio 1938.
[11] A Marie Berlin, 22 luglio 1936.
[12] A Marie e Mendel Berlin, 31 luglio 1941.
[13] L’unica parziale eccezione la troviamo nella lettera a Stephen Spender del 25 aprile 1936, dove la Germania è paragonata a «un enorme ragno femmina, rimasto immobile per molti anni al centro dell’Europa, mentre il resto dell’Europa cercava invano di fecondarla. Alla fine ci sono riusciti. È stato deposto un minuscolo uovo».
[14] Cfr. “Zionist Politics in Wartime Washington”, in I. BERLIN, Flourishing, cit., p. 689.
[15] A Maire Gaster, gennaio 1941.
[16] A Marion Frankfurter, 23 giugno 1940.
[17] A Marie e Mendel Berlin, febbraio 1941.
[18] I. BERLIN, Flourishing, cit., pp.673-74.
[19] Ivi, p.675.
[20] Ibidem.
[21] A Marie e Mendel Berlin, 31 luglio 1941.
[22] A Mare Gaster, 3 gennaio 1941.
[23] A Marion Frankfurter, 24 giugno 1936.
[24] A Rosamond Lehmann, ottobre 1936.
[25] A Marion e Felix Frankfurter, 7 dicembre 1934.
[26] A Stephen Spender, 20 giugno 1936.
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