I cambiamenti climatici
Si parla molto di cambiamenti climatici e non ci si accorge più del fatto che questa espressione è quasi una contraddizione in termini. Il clima è il complesso delle condizioni meteorologiche che caratterizzano una certa zona geografica e come tale ci aspettiamo che sia immutabile nel tempo. In realtà nelle passate ere geologiche c’è stata un’alternanza di glaciazioni e periodi temperati, ma queste transizioni sono avvenute su lunghe scale temporali. I temuti cambiamenti odierni hanno la peculiarità di potersi verificare in tempi molto brevi. In questo caso il danno sarebbe causato non tanto dal cambiamento, che di per sé può avere non solo effetti negativi ma anche positivi, ma dalla velocità del cambiamento stesso che non concede alle piante, agli animali ed all’uomo il tempo per adattarsi.
Il meccanismo attraverso il quale questi rapidi cambiamenti possono avvenire è quello dell’alterazione dell’equilibrio (bilancio radiativo) che esiste fra l’energia solare che il nostro pianeta assorbe e l’energia termica che il nostro pianeta emette verso lo spazio. Lo sbilanciamento fra queste due componenti può causare il riscaldamento della superficie terrestre, il cambiamento della quantità di vapore acqueo contenuta nell’aria, l’alterazione dei fenomeni meteorologici, lo scioglimento dei ghiacci e l’innalzamento del livello del mare. L’attività umana, attraverso la modifica del territorio e l’immissione nell’atmosfera di gas serra che assorbono la radiazione termica, sta cambiando le proprietà ottiche che controllano il bilancio radiativo del pianeta. Il problema scientifico che si pone è se questi cambiamenti antropici siano tali da introdurre una significativa perturbazione al bilancio radiativo naturale.
I dati scientifici
Una valutazione esauriente ed aggiornata sull’entità dei cambiamenti climatici è fornita dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC). L’IPCC è una commissione scientifica nominata congiuntamente nel 1988 dalla World Meteorological Organisation (WMO) e dall’United Nations Environmental Programme (UNEP). La commissione comprende alcune centinaia di ricercatori internazionali scelti fra i più attivi nel campo degli studi climatici e produce periodicamente rapporti sullo stato di conoscenza raggiunto dalla comunità scientifica.
Le domande a cui questi rapporti cercano di rispondere sono quella dell’esistenza del problema (se cambiamenti climatici sono effettivamente in corso) e quella dell’attribuzione (se la causa è antropica piuttosto che naturale). Senza entrare nei dettagli della grande quantità d’informazione contenuta in questi rapporti è interessante analizzare le risposte che vengono date a queste due domande fondamentali.
Nel secondo rapporto [1] si dichiarava che «le variazioni meteorologiche annuali nelle singole località possono essere grandi, ma le analisi su grandi aree e su lunghi periodi di tempo forniscono la prova di alcuni importanti cambiamenti sistematici» e che «in media le prove suggeriscono una discernibile influenza umana sul clima globale».
Nel terzo rapporto [2] si dichiarava che «la maggior parte del riscaldamento osservato negli ultimi 50 anni è probabilmente dovuto ad un aumento della concentrazione dei gas serra» e che «molto probabilmente il riscaldamento avvenuto nel XX secolo ha contribuito significativamente all’aumento osservato del livello degli oceani».
Nel quarto ed ultimo rapporto [3] si dichiara che «il riscaldamento del sistema climatico è inequivocabile, come dimostrato dalle osservazioni dell’aumento della temperatura globale media dell’oceano e dell’aria, il diffuso scioglimento della neve e dei ghiacci e l’aumento del livello medio del mare» e che «la maggior parte del riscaldamento osservato negli ultimi 50 anni del secolo scorso» (stesso periodo preso in considerazione nel precedente rapporto) «è molto probabilmente dovuto ad un aumento della concentrazione dei gas serra». L’attribuzione antropica è ulteriormente confermata dall’affermazione che «influenze umane discernibili si estendono ora ad altri aspetti del clima fra cui il riscaldamento degli oceani, le temperature medie continentali e la distribuzione dei venti».
Per una corretta interpretazione di queste affermazioni è importante ricordare che nei documenti IPCC si dà un preciso valore quantitativo di probabilità agli aggettivi utilizzati: probabile implica una probabilità maggiore del 66%, molto probabile una probabilità maggiore del 90%, estremamente probabile una probabilità maggiore del 95% e praticamente certo una probabilità maggiore del 99%.
Per quanto riguarda l’esistenza del cambiamento si è passati dalla segnalazione di alcune prove indiziarie alla quantificazione della probabilità dell’evento stesso ed infine all’aumento della probabilità che il cambiamento sia in atto. In merito all’attribuzione del cambiamento si è passati da una discernibile influenza ad un probabile contributo ed infine ad un molto probabile contributo dei gas serra prodotti dall’attività umana.
In questo lento, ma costante, aggravarsi dei termini del problema sorprende la prudenza e l’uso oculato delle parole con cui l’IPCC riferisce le proprie deduzioni scientifiche. Per capire questa meticolosità è necessario allargare il discorso al contesto in cui queste affermazioni vengono fatte.
Il metodo scientifico
Il valore dell’informazione scientifica dipende dalla corretta utilizzazione del metodo scientifico che è basato sull’uso della prova sperimentale e sulla interpretazione di questa attraverso ipotesi che sono costantemente soggette ad una valutazione critica. La prova sperimentale è garanzia di oggettività e se questo non bastasse la continua disponibilità al confronto delle idee è ulteriore garanzia di imparzialità nell’interpretazione dei dati oggettivi.
Il metodo scientifico condanna però gli scienziati ad un continuo dubbio. Il dubbio è fondamentale per il progresso della scienza perché solo questo permette di vagliare tutti i possibili casi e di ridurre la possibilità di errore. Nulla è accettato per fede dallo scienziato e questo distingue la scienza da tutti gli integralismi o dogmatismi. Poiché il dubbio viene più volentieri applicato alle teorie altrui che alle proprie, spesso gli scienziati danno anche prova di elevata litigiosità. La storia della scienza è costellata di dispute spesso feroci, ma sempre utili e salutari in quanto concluse con il riconoscimento della tesi giusta e con il progresso della conoscenza.
La scienza, per il fatto di essere basata sul confronto delle idee, è una delle manifestazioni più elevate di democrazia e, come tutte le democrazie, teme i poteri forti che con le certezze del loro integralismo si oppongono all’affermarsi di conoscenze nuove e diverse. Troppo spesso tesi sgradite al potere politico o religioso sono state combattute non solo con l’ostracismo delle idee, ma anche con la persecuzione delle persone che le sostenevano. Ne consegue l’ideale di una scienza libera ed indipendente dalla religione e dalla politica.
Questo modello di scienza libera, dopo aver dimostrato i benefici che può portare all’umanità, è però diventato parte integrante del sistema economico moderno e con questa integrazione torna ad essere messo in discussione il rapporto fra scienza e poteri forti che in questo caso sono rappresentati dal potere economico e politico. La ricerca scientifica moderna è finanziata dalla politica e dall’economia che hanno pertanto motivi validi per esigere risposte alle proprie domande ed aspettarsi dei prodotti che giustifichino i finanziamenti.
Questo breve compendio di storia della scienza serve a spiegare come la meticolosità dell’IPCC sia dovuta ad un rigore scientifico attento non solo alla correttezza del metodo, ma anche alla modalità di comunicazione dei risultati per non generare malintesi con utenti che sono pronti a plasmarli in funzione dei propri interessi.
L’incertezza scientifica
Il rigore scientifico costringe all’uso di espressioni dubbiose nonostante esista la consapevolezza di quanto il dubbio, nella comunicazione, sia uno strumento poco gradito. Personaggi come l’Amleto suscitano incerta simpatia ed anche la fondamentale affermazione di Socrate «so di non sapere» viene spesso percepita come un segno di triste saggezza. Quello che il pubblico ama ascoltare sono le notizie che lo sorprendono e che eventualmente lo illudono. Inoltre quando un’affermazione è piacevole da ascoltare diventa anche più credibile. Questo implica che le certezze di tutti i tipi, anche se non dimostrabili, quando sono presentate in modo da essere gradite possono essere molto più convincenti delle incertezze, indipendentemente da quanto quest’ultime siano basate su considerazioni ben circostanziate e su fatti dimostrati.
La scienza, cosciente di essere poco simpatica e pessima comunicatrice, deve affrontare lo spavaldo predicare dei dogmatismi scientifici. Il salutare dibattito scientifico è fatto anche di prese di posizione forti e di tesi provocatorie, ma quando le legittime tesi scientifiche diventano verità preconcette si trasformano in dogmatismo. I dogmatismi scientifici sono spesso motivati da interessi non scientifici e sono difficilmente individuabili nella grande massa delle informazioni.
I cambiamenti climatici, come tutte le questioni sociali più inquietanti, generano dogmatismi schierati su opposti estremismi che predicano da una parte un allarmismo catastrofico e dall’altra la fiducia nelle illimitate risorse del pianeta. Il confronto fra questi due estremismi dà luogo ad un dibattito pseudo-scientifico che può essere riconosciuto come tale solo ricorrendo alla definizione critica di cosa è scienza.
Il filosofo della scienza Karl Raimund Popper (Vienna, 1902 – Londra, 1994) ha proposto un criterio di demarcazione basato sulla falsificabilità per stabilire se un dato argomento può essere considerato parte della scienza. Secondo questo criterio, affinché un argomento possa dirsi scientifico deve essere possibile concepire, per ogni tesi sostenuta, una misura il cui risultato negativo porti, come conseguenza, ad affermare che la tesi è sbagliata [4]. Il carattere distintivo della scienza è quindi la possibilità di falsificazione empirica delle sue teorie; qualora manchi questa possibilità, si è al di fuori della scienza. Questo implica che ogni tesi scientifica nasce con la possibilità di essere sbagliata e che, fin quando tutte le misure che la possono negare non sono state adottate, la tesi rimane incerta. Argomentazioni che non hanno in sé questo elemento di dubbio e di ricerca di tutte le verifiche non possono essere considerate scientifiche.
L’errore di misura
Il dubbio scientifico non implica però agnosticismo. Il dubbio scientifico è una incertezza rispetto alle pretese certezze del dogmatismo, ma non è assenza di conoscenza, tutt’altro. Il risultato della ricerca fornisce la risposta più probabile alla domanda scientifica. E questo è ottenuto vagliando tutte le possibilità ragionevolmente concepibili ed associando a queste delle probabilità oggettive.
La probabilità è calcolata sulla base dell’errore di misura che, la statistica c’insegna, può essere determinato dalla distribuzione delle misure della stessa quantità ripetute con lo stesso strumento o con più strumenti diversi. Nel caso delle misure ottenute mediante la combinazione di diverse quantità (questo è anche il caso dei risultati dei modelli) l’errore viene stimato attraverso il calcolo di come l’errore dei singoli dati utilizzati si propaga al risultato finale.
Nel caso dei fenomeni climatici la propagazione degli errori avviene attraverso una moltitudine di possibili effetti che caratterizzano la complessità dei fenomeni osservati. La complessità è un aspetto caratteristico di tutti i fenomeni naturali. Infatti la famosa frase di Galileo «provando e riprovando, rimuovendo tutti gli impedimenti» mette bene in evidenza come non sia sufficiente la prova sperimentale («provando e riprovando»), ma occorra anche saper costruire le condizioni sperimentali in cui il fenomeno che si vuole studiare non sia disturbato delle complesse interazioni naturali («rimuovendo tutti gli impedimenti»). Purtroppo il lusso di rimuovere gli impedimenti, che è tipico della Fisica fondamentale, non è concesso alla ricerca sul clima dove i fenomeni devono essere studiati sul campo e sono quindi caratterizzati da numerose interazioni. Il compito del ricercatore è in questo caso quello di descrivere, piuttosto che rimuovere, tutte le interazioni. La complessità di alcuni fenomeni richiede l’adozione di alcune approssimazioni che devono essere fatte come miglior compromesso fra l’esigenza di rientrare nelle possibilità pratiche di calcolo numerico e quella di riprodurre correttamente il fenomeno osservato.
Le numerose interazioni e la procedura per il calcolo dell’errore possono essere trattate matematicamente in modo rigoroso, ma nel caso di modelli la semplice propagazione dell’errore non è sufficiente a determinare l’incertezza del risultato. Bisogna tenere conto anche dell’incertezza del modello stesso dovuta alle approssimazioni ed alla soggettività delle ipotesi. I risultati del modello, che di per sé sono solo una speculazione matematica, acquistano un valore oggettivo quando il modello è validato dalle osservazioni. Per questo nel caso dei modelli climatici hanno grande importanza le serie storiche di parametri climatici che possono essere utilizzate come banco di prova. Gli errori che i modelli commettono nella riproduzione delle serie storiche forniscono la base per determinare l’affidabilità con cui i modelli stessi posso fornire una risposta agli altri problemi.
Esiste pertanto una catena di considerazioni rigorose che portano alla determinazione di una stima oggettiva della probabilità associata ad una dichiarazione scientifica.
Quando la scienza è chiamata a fare previsioni a proposito del clima futuro esiste però un ulteriore elemento aleatorio di cui occorre tener conto. Questo è costituito dalle lunghe costanti di tempo che possono caratterizzare i feedback del sistema climatico. I feedback sono quei processi che, attivati da una perturbazione introdotta nel sistema, generano un effetto che va a compensare (feedback negativo) o ad amplificare (feedback positivo) gli effetti della perturbazione originale. I modelli climatici sono stati validati su serie temporali relativamente brevi che non sono in grado di evidenziare gli effetti di feedback con lunghe costanti di tempo. Pertanto non abbiamo modo di accorgerci se nei nostri modelli abbiamo omesso un meccanismo di questo tipo. Tra l’altro, per definizione, non è possibile valutare la probabilità di una dimenticanza ed il suo possibile errore.
Questa ulteriore incertezza non si applica alle conclusioni sull’esistenza e sull’attribuzione dei cambiamenti climatici, ma pesa sulle previsioni del clima del futuro.
Tuttavia il possibile ruolo dei feedback omessi cambia poco le implicazioni delle previsioni. Nel quarto rapporto dell’IPCC si afferma che «il riscaldamento ed i cambiamenti nel sistema climatico globale durante il 21esimo secolo indotti da una emissione di gas serra alla velocità attuale o maggiore saranno molto probabilmente più grandi di quelli osservati durante il 20esimo secolo» con proiezioni che si spingono fino a variazioni quattro volte più grandi. A questi livelli il cambiamento climatico di molti territori sarebbe macroscopico ed avrebbe anche effetti di tipo economico e sociale. La speranza che un feedback omesso possa stabilizzare il sistema prima che si raggiungano le variazioni previste, è bilanciata dal rischio che un feedback omesso induca una variazione ancor più rapida ed in questo caso irreversibile. Rimane pertanto il problema che è stata intrapresa una strada che molto probabilmente ci porta verso uno sconvolgimento di tipo economico e sociale.
La percezione del problema
Nonostante si sia acquisita consapevolezza della consistenza del problema, e che esistano motivi per intervenire con urgenza in modo da garantire la reversibilità delle perturbazioni, non si sta facendo un’efficace prevenzione. Qualcosa è stato fatto con il Protocollo di Kyoto, ma le regolamentazioni proposte in questa sede, per quanto importanti dal punto di vista politico, non sono sufficienti.
La prevenzione degli effetti dannosi dei cambiamenti climatici richiede significativi interventi strutturali che sono destinati ad incidere sul sistema economico. Gli interventi presi in considerazione sono la mitigazione delle cause con la riduzione di immissione di anidride carbonica in atmosfera e l’adattamento con la riorganizzazione (possibilmente preventiva) del sistema produttivo e sociale del globo in funzione delle future condizioni climatiche. La riduzione delle emissioni richiede o l’uso di sorgenti energetiche alternative, o la segregazione delle emissioni in depositi che evitino la dispersione in atmosfera (ambedue implicano un aumento del costo dell’energia) o una forzata riduzione del consumo d’energia. Questi interventi sono tutti percepiti come un peggioramento della qualità della vita. D’altra parte, l’adattamento comporta costosi investimenti che non tutti i paesi del mondo potranno permettersi.
Il problema pertanto non è più se un cambiamento globale del sistema climatico sia in atto e se sia causato dall’attività umana, ma piuttosto cosa l’umanità sceglie fra questo cambiamento climatico in corso ed una penalizzazione dei consumi. La risposta a questa domanda dipende da molti fattori.
Dipende dalla percezione individuale della gravità delle due alternative. Per un abitante di una città continentale, che vive in edifici con aria condizionata, i cambiamenti possono apparire come eventi controllabili che non meritano un sacrificio a breve termine. Per i futuri “profughi ambientali”, quali gli abitanti delle isole Carteret (arcipelago del Sud pacifico appartenente alla Papua Nuova Guinea) che già entro due anni saranno costretti ad abbandonare le proprie terre a causa dell’avanzamento dell’oceano, una riduzione dei consumi attuali è probabilmente del tutto accettabile. Dipende inoltre dalla responsabilità etica che abbiamo nei confronti delle popolazioni più esposte agli effetti dei cambiamenti climatici, che oggi sono le popolazioni del terzo mondo e domani saranno anche le future generazioni dei paesi industriali. Dipende infine dalla sensibilità per la possibile perdita della varietà biologica con la scomparsa di molte specie animali e vegetali e per la possibile perdita di alcune realtà storiche quali, per citarne alcune, Venezia ed i Paesi Bassi che potrebbero in tempi non lunghissimi diventare indifendibili dall’innalzamento del mare.
La diversa percezione è dovuta al coinvolgimento di valori che hanno priorità diverse presso differenti popolazioni ed individui.
Le scelte
La scienza ha determinato le probabilità con cui si possono verificare, per i diversi scenari d’intervento, le diverse conseguenze ambientali e può quantificare i singoli costi e benefici di questi interventi. Tuttavia questi elementi non sono ancora sufficienti a determinare quale sia la scelta migliore perché i valori in gioco (danni e vantaggi di diverso tipo distribuiti in modo diverso nel tempo e nello spazio) sono incommensurabili e diventano confrontabili solo quando si sia stabilita una scala di priorità. Questa ulteriore valutazione non può essere un compito scientifico. Così come alla politica viene chiesto di non intervenire negli aspetti tecnici, la scienza non deve esprimersi sui valori sociali che richiedono una valutazione politica. La scienza deve prevedere e la politica provvedere.
Proprio la mancanza di provvedimenti è in questo momento il vuoto più preoccupante. D’altra parte l’incertezza e la complessità degli scenari non dovrebbero impedire le scelte. Gli individui sanno fare quotidianamente delle scelte all’interno di scenari complessi ed in condizioni d’incertezza. Queste scelte individuali, anche se spesso fatte in modo intuitivo, adottano fondamentalmente gli stessi strumenti di un metodo gestionale rigoroso. Per le singole opzioni si valuta la probabilità delle diverse evoluzioni ed i relativi costi e benefici. Il percorso che offre la prospettiva di un miglior compromesso fra costi e benefici è quello preferito. Il metodo delle scelte individuali e gestionali dovrebbe anche essere il metodo delle scelte politiche.
Un motto afferma che “tutti sanno fare la scelta per un problema di cui si sa tutto, occorre un manager per fare la scelta per un problema di cui non si sa tutto, ed occorre un manager perfetto per fare la scelta per un problema di cui non si sa niente”. Per fortuna nel caso dei cambiamenti climatici non è più valida la scusa dell’incertezza scientifica e non serve un manager perfetto. Nel momento in cui non si agisce occorre essere coscienti che stiamo facendo la scelta di non agire. Infatti anche il non agire è una possibile scelta, ma in quanto tale chi la fa se ne deve assumere la responsabilità.
Sicuramente le scelte sono più affidabili se il metodo gestionale ha a disposizione dati più certi. In questa direzione la scienza può continuare a fornire contributi fondamentali, riducendo i margini d’incertezza nelle stime dei costi-benefici, sviluppando sorgenti energetiche alternative ai combustibili fossili e producendo previsioni più affidabili dei futuri cambiamenti climatici. A questo scopo sarebbe opportuno promuovere l’attività di ricerca del settore con finanziamenti più incisivi.
A meno che non si preferisca far finta di non sapere.
Bibliografia
[1] J.T. HOUGHTON et alii (eds), Climate Change 1995: The Science of Climate Change. Contribution of Working Group 1 to the Second Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change, Cambridge University Press, Cambridge (UK) 1996.
[2] J.T. HOUGHTON et alii (eds), Climate Change 2001: The Scientific Basis. Contribution of Working Group 1 to the Third Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change, Cambridge University Press, Cambridge (UK) 2001.
[3] J.T. HOUGHTON et alii (eds), Climate Change 2006: The Scientific Basis. Contribution of Working Group 1 to the Third Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change, Cambridge University Press, Cambridge (UK) 2007.
[4] K. POPPER, Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1970.
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