Emergency non lavora soltanto per curare le ferite di paesi distrutti dalla guerra, ma anche per diffondere una cultura di pace in quelle zone in cui, apparentemente, la guerra non c'è. Perché avete deciso di dare questo duplice obiettivo all’organizzazione?
Per chi si trova ogni giorno di fronte alle ferite di una mina o di un kalashnikov è difficile non prendere posizione contro la guerra.
Sempre più spesso sentiamo parlare di guerra per la difesa dei diritti umani o di guerra come misura – certo, un po’ estrema, ma inevitabile – per combattere il terrorismo. Non crediamoci mai: la guerra non produce niente di buono. La guerra è morti e feriti, e non altro.
Non ci si può chiedere di “ricucire” corpi senza cercare di impedire che quei corpi vengano feriti, anche se c’è chi loda l’impegno di Emergency a patto che il nostro rifiuto della violenza rimanga confinato in sala operatoria.
Come è possibile cambiare una cultura del profitto ad ogni costo con una cultura della pace e dell'equità sociale? Quali sono, secondo lei, gli strumenti a nostra disposizione per operare questo cambiamento?
Ogni anno milioni di persone muoiono di fame, di malattie curabili, di povertà, di guerra. Si tratta spesso di vere e proprie reazioni a catena: la povertà impedisce di curare malattie anche banali che finiscono in tal modo per diventare mortali; la guerra, quando non uccide, annulla la possibilità di nutrirsi e di essere curati.
Questa situazione potrebbe mutare in poco tempo se cambiasse la logica di guerra e di profitto che ispira i governi più potenti del pianeta.
Più di cinquant’anni fa, la Dichiarazione universale dei diritti umani aveva posto degli obiettivi fondamentali per la popolazione mondiale: oggi quelle parole suonano vuote, forse persino sarcastiche. Per questo credo che – oltre a “esibirli” nelle dichiarazioni ufficiali – si debba iniziare a «praticare» i diritti umani, nei paesi poveri come nel nostro.
Emergency garantisce cure a tutti coloro che ne hanno bisogno, indipendentemente dalla religione, dalla razza o dalla fazione di appartenenza. In questi anni abbiamo visto i risultati di questa pratica che è diventata la “politica” di Emergency: dare cure gratuite e di elevata qualità a chi ne ha bisogno significa riconoscere anche agli altri i diritti che rivendichiamo per noi stessi.
Solo da qui si può partire per parlare seriamente di pace.
Recentemente lei è stato negli Stati Uniti dove ha rilevato con entusiasmo una forte sensibilità per le questioni legate alla pace, soprattutto negli ambienti universitari. Sotto questo profilo, ha riscontrato una diversità nella percezione della politica rispetto ai giovani italiani o europei? E quali sono i progetti di Emergency per questo paese?
Sono stato negli Stati Uniti nel febbraio 2005 per promuovere la traduzione di Pappagalli Verdi con una serie di conferenze in scuole, università, istituti di cultura, ospedali, radio.
L’attività di Emergency ha suscitato un enorme interesse. Abbiamo incontrato persone che non solo non sapevano niente della nostra attività, cosa comprensibilissima, ma che nemmeno conoscevano le conseguenze dei conflitti odierni sui civili o l’esistenza e gli effetti delle mine antiuomo. E che però si sono sentite subito coinvolte e hanno deciso di mobilitarsi, creando Emergency Usa, un’associazione “sorella” che intende sostenere, anche economicamente, le attività di Emergency Italia. Ad oggi esistono una decina di gruppi strutturati, da Boston a Colorado Springs, e molti “contatti” sparsi, cioè persone attive nel lavoro di sensibilizzazione contro la guerra, anche se in modo meno organizzato. E poi ci sono le collaborazioni nate con organizzazioni prestigiose, una per tutte l’Harvard Humanitarian Institute. Con loro abbiamo stipulato un accordo di cooperazione generale – che prevede supporto scientifico per l’elaborazione e l’analisi dei nostri progetti – e stiamo lavorando a un accordo per un loro aiuto nella ricerca del personale.
Gli ospedali di Emergency, oltre ad essere gratuiti, aperti a tutti e di alta qualità, prestano molta attenzione anche all'ambiente: giardini con molti fiori, pareti dei reparti dipinte, ecc… Perché ritiene che questo sia importante?
Perché rappresentano un approccio alla cura che non è solo bisturi e farmaci, ma rispetto per la persona nella sua interezza. Anche nelle situazioni più gravi, il contatto con la bellezza aiuta a mantenere la dignità e a immaginare un futuro possibile. E quindi a guarire.
La grande manifestazione svoltasi il 15 febbraio a Roma e, parallelamente, nelle più grandi città del mondo non è riuscita ad impedire l’intervento militare in Iraq dove, ad oggi, si conta un bilancio di migliaia di vittime, di cui la maggior parte civili (circa l’80%). Tutto questo non genera in lei un sentimento di impotenza e, conseguentemente, di sfiducia rispetto alle vicende internazionali e alle concrete possibilità dell’opinione pubblica di influenzarle?
La forza di fare il mio lavoro la trovo proprio in quello che faccio: in questi anni Emergency ha curato oltre due milioni di persone che avevano bisogno di aiuto e l’hanno ricevuto. Per loro l’esistenza di Emergency ha fatto la differenza.
Ma il nostro nuovo impegno deve essere l’abolizione della guerra, perché del lavoro di Emergency non ci sia più bisogno.
Intervista rilasciata il 17 ottobre 2006