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La chiamata di Liliana, la risposta di Rondine

Michele Cardinali
Articolo pubblicato nella sezione "Tra le righe"

Esistono chiamate di fronte alle quali non si può esitare. Chiamate che attendono urgentemente una risposta. E così possiamo intendere l’ultima testimonianza pubblica che Liliana Segre, venerdì 9 ottobre, ha deciso di compiere presso il borgo di Rondine Cittadella della Pace, raccontando ai giovani la sua esperienza ad Auschwitz: quella di una ragazza “altra”, che è stata per gran parte della sua vita un’ospite silenziosa e silenziata, e che poi, per trent’anni, è divenuta la voce ritrovata per restituire il senso di un’esistenza violata. Una chiamata che passa da una consegna e ci domanda di essere all’altezza di un affidamento fragile e prezioso.

Rondine: un luogo, un progetto, ma soprattutto una specie di utopia concreta, che, nel 2020, taglia il traguardo dei ventitré anni di attività. L’idea che anima questa Associazione - immersa nella campagna di Arezzo, radicata nel borgo secolare da cui prende il nome, scrutato dallo sguardo silente dell’Arno, ma proiettata oltre i confini nazionali - è ospitare giovani provenienti da paesi in guerra, farli incontrare a Rondine, e costruire con loro un diverso significato al termine conflitto.
Il viaggio di questi giovani, ragazzi e ragazze, inizia alla stazione di Arezzo, accolti da coloro che, nelle rispettive terre di origine, sarebbero i loro potenziali nemici: russi e ceceni, armeni e azerbaigiani, serbi e kossovari, georgiani e abcasi, provenienti dal medio Oriente e dai Balcani. Da quel primo incontro, in cui sospetto e timore si mescolano a una precaria sensazione di estraneità, parte il loro percorso, fatto di un’intensa condivisione quotidiana, dialogo, scoperta interiore, messa in discussione delle proprie identità, costruzione di una leadership di pace in grado di creare un impatto concreto nei territori di appartenenza e nella casa comune del mondo, alla quale non smettono di guardare.
Un gruppo di diplomatici si sarebbe potuto muovere, con passo deciso, a rimodulare l’equilibro tra gli Stati in guerra. Invece no: è questo borgo che sceglie di accogliere il mondo, ripartire dal basso e divenire un laboratorio a cielo aperto di dialogo personale e interistituzionale. Nel percorso formativo, che vede impegnato lo staff educativo e le comunità accademiche, sono diverse le parole che risuonano durante la loro permanenza: conflitto, nemico, relazione, guerra, politica. Parole fragili al tocco di chi, per la prima volta, decide di occuparsene seriamente; quasi inconsistenti se decontestualizzate dagli ambiti ai quali si riferiscono. La ferrea volontà di strutturare una formazione profonda attorno a queste parole, tuttavia, fa comprendere meglio il desiderio di rileggere la propria storia personale, di non restare vittima di queste parole, di operare alla volta di una “trasformazione creativa del conflitto”, come il Metodo Rondine si propone. Una trasformazione che non risolve, non elimina la dinamica del conflitto - così come le nazioni non sciolgono una guerra armata in nome di un solitario appello di pace. Semmai, l’obiettivo è scoprire quel ventaglio semantico che la parola “conflitto” nasconde, stare nelle pieghe di una dialettica che, come in un movimento oscillatorio, va verso l’altro e gli si allontana, lo scontra e lo incontra.
Attorno al conflitto, i ragazzi scoprono la radice delle proprie faide familiari, gli enigmi interiori, le incomprensioni che animano lo spazio pubblico e innescano, poi, le micce dei conflitti armati; ma soprattutto rileggono criticamente, e con maggiore consapevolezza, quella narrazione viziata dell’altro, dell’estraneo, del nemico. Una narrazione arida che deforma la realtà e che, schiacciando la storia geopolitica delle nazioni, ha soffocato la stessa politica, riducendola ad un campo di opposti in cui si scontrano l’io e il tu, il noi e il loro.
Non si esce dalla dialettica riproponendo la logica dei dualismi, così come non si esce dalla guerra anteponendo, per contrasto, la parola pace. È necessario un sottile lavoro di scavo, partecipato, spesso doloroso: proprio quello che Rondine si offre di fare. E nel tentativo di assegnare una nuova polarità al conflitto - non solo negativo, ma anche positivo quando riesce ad accettare le differenze, senza cadere nell’estremismo ideologico della diversità - ecco che la relazione sembra purificarsi, schiarirsi, farsi spazio nella dinamica rigenerativa della reciprocità.
Così, con la propria storia sulle spalle e con il proprio nemico “storico” a fianco, ogni studente di Rondine decide di compiere un ultimo passo - in realtà, il primo di una lunga serie: dare avvio a un progetto di pace, portare avanti una leadership che preferisce l’ascolto all’ostinata presa di parola, che abita le frontiere invece dei confini, che si propone di accompagnare la comunità, piuttosto che guidarla in solitaria. Non è per tutti la scelta di andare a Rondine; non è da tutti scegliere di rimanere a Rondine; ma nessuno, poi, riesce a lasciarsela alle spalle. Da questa prospettiva si comprendono meglio le diverse iniziative di diplomazia popolare che animano le attività della cittadella, come Ventidipacesucaucaso e la creazione di Rondine International Peace Lab.

Solo dentro questa cornice, che racchiude il cuore dell’Associazione, si intuisce distintamente la scelta di Liliana Segre e il suo senso: lasciare proprio a Rondine la sua eredità culturale e di testimonianza che l’ha vista impegnata in un arco trentennale di incontri con i giovani. La stessa Senatrice a vita ha dichiarato di aver scelto Rondine, perché «un posto che si chiama cittadella della pace, in cui la fraternità è vissuta, non con le parole, ma con i fatti, è un luogo che ha dato sempre molta speranza; anche quando le pandemie di cattiverie e virus cercano di toglierla». E se a Liliana Segre la scelta di venire a Rondine è sembrata coerente con il suo progetto, meno semplice è la sfida che, ora, attende la cittadella: creare costantemente un’eco al suo messaggio di dialogo; accogliere in mano l’ombra scottante delle sue parole, radicandole nel terreno di una memoria viva, sempre attuale; e soprattutto far risuonare nelle nuove generazioni il bisogno di comprensione, di inclusione, di riconoscersi negli occhi specchiati dell’alterità, qualunque essa sia.
Alcuni ragazzi e ragazze di Rondine hanno accolto la senatrice con parole di autentica riconoscenza, evidenziando quegli aspetti che intrecciano le loro vocazioni alla testimonianza di Liliana: superare il silenzio con la parola, impegnarsi in una nuova idea di leadership politica, cancellare l’indifferenza, declinare l’esperienza privata in un atto di valore pubblico, avere cura di ciò che accade con pieno senso di responsabilità.
Nel suono di una voce flebile, Liliana ha ripercorso a Rondine l’evento indicibile dell’olocausto. Ha ricordato, con una sofferenza pudica, quegli uomini che l’hanno condotta nelle baracche di Auschwitz, innevate dalla cenere di chi, come lei, subiva la colpa di essere nata. Un racconto lungo che non si è risparmiato: dalla promulgazione delle leggi razziali alla fuga non riuscita in Svizzera; dalla deportazione sui vagoni del bestiame, in cui i lamenti si alternavano alle preghiere e ai silenzi di disfatta, al saluto mancato a suo padre, mai più rivisto negli scorci grigi di quei campi; dalla rasatura dei capelli alla metamorfosi di un corpo che nessuno riconosceva più come proprio; dalla perdita del nome, la sintesi più evocativa dell’identità ebraica, al tatuaggio di una cifra anonima sul braccio, unico segno di riconoscimento; dal lavoro usurante al filo spinato elettrificato che ogni mattina si doveva costeggiare; dai tribunali della morte, allestiti su comuni tavolacci di legno, dove degli uomini, altrettanto comuni, dettavano la sorte dei prigionieri con un cenno del capo, alla perdita spiazzante della sua amica Janine; dall’indecenza dei nazisti all’indifferenza dei normali civili; e poi la fame, quella che divora le viscere; l’alienazione che trasforma in automi; le frange delle pezze smagliate per coprirsi; la paura, il buio putrefatto dall’odore dei cadaveri e la sfiancante marcia della morte: l’ultimo sfregio di tortura a quelle vite già irreparabilmente lacerate.
E nel racconto di quel nazista che, per caso, fece cadere la sua pistola ai piedi di Liliana, c’è il riscatto di una volontà che non vacilla perché, come ha detto la stessa Segre, «io non ero come il mio assassino. Non ho raccolto quella pistola e da quel momento son diventata quella donna libera e quella donna di pace con cui ho convissuto fino adesso». Proprio queste sue parole sono state impresse nel lastricato all’ingresso di Rondine, dove verrà presto costruita un’arena dedicata all’amica Janine, e hanno ispirato un concorso rivolto a tutte le scuole italiane, alle quali Rondine si rivolge anche grazie a uno specifico percorso d’eccellenza rivolto ai quarti anni dei Licei.
L’intero evento, condotto da Ferruccio de Bortoli, ha visto la partecipazione del Presidente dell’Associazione, Franco Vaccari, del Presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte, dei rispettivi Presidenti delle due Camere, Maria Elisabetta Alberta Casellati e Roberto Fico, e del Ministro dell’istruzione Lucia Azzolina, unita alle testimonianze di affetto e riconoscenza da parte del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e del Presidente del Parlamento Europeo David Sassoli.
Ancora rapita e trattenuta dalle parole di Liliana Segre, tutta la comunità di Rondine si stringe alla sua figura, vedendo proprio nel suo messaggio quel passaggio di testimone necessario a orientare le azioni, i progetti e i valori del prossimo futuro: della cittadella e dei protagonisti che incroceranno i suoi percorsi, degli studenti e delle studentesse. All’ingresso di quella che sarà l’arena di Janine, anche un cancello di ferro è stato dipinto affinché l’ombra di quella barriera - simbolica e reale - non faccia dimenticare ciò che è stato e che, a causa dell’indifferenza, potrebbe accadere di nuovo.
Le sue non sono state le semplici parole della memoria che cerca di farsi attualità, ma il tentativo di incarnare una sintesi tra consistenza morale e approccio umano, tra sguardo materno e visione progettuale di lungo respiro, tra senso della comunità e chiamata a farne parte.


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