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Luigi Di Liegro:
la dimensione politica della carità

Franco Pittau

Un esempio del rapporto tra fede e società


Quasi tutti gli impegni che svolgo attualmente trovano in don Luigi Di Liegro l'iniziatore formale o, comunque, l'ispiratore. Penso, in particolare, ai rapporti annuali Dossier Statistico Immigrazione, una delle sue grandi eredità. Con lui lavorai, in maniera sempre più stretta, dalla metà degli anni '70 fino alla sua morte avvenuta nel 1997, quando presso la Caritas diocesana di Roma ero responsabile dell'Ufficio studi, stampa e documentazione. Sussiste, quindi, con lui la continuità di pensiero e di azione.

A quasi 15 anni di distanza dalla sua scomparsa, molti non hanno conosciuto questo prete, così profondamente religioso e così poco di sacristia. Iniziava con la messa la sua giornata, alla quale era contento di vedere, quando possibile, i suoi collaboratori e i suoi amici, e poi dedicava il resto del tempo alla città, ai suoi problemi, alle persone bisognose e agli interventi da effettuare. Molti hanno avuto il primo contatto con lui tramite il film, proiettato su Canale 5 ("L'uomo della carità: Luigi di Liegro"), ma le occasioni per recuperarne l'immagine sono ancora poche rispetto alle giovani leve, nonostante gli sforzi dell'omonima fondazione.

Cosa ricordare di lui? Si rimaneva sorpresi e ammirati di fronte alla sua continua tendenza a migliorare la funzionalità e lo stile dei servizi della Caritas, al suo sforzo per conoscere i problemi della città e dei suoi quartieri, alla sua continua disponibilità per i giornalisti e per le trasmissioni, protraendo spesso fino a tarda sera giornate già di per sé impegnative.

È stato un maestro di vita e un esemplare uomo di azione, un prete senza confini nella lotta contro ogni esclusione sociale, un formatore alla solidarietà che vedeva nei servizi un messaggio pedagogico. Gli aneddoti poco aggiungerebbero a questo riconoscimento e perciò, cercando di dare una maggiore consistenza al suo ricordo, può tornare utile, specialmente per chi non lo ha conosciuto, presentarlo come un esempio tra i più significativi del rapporto tra la fede cristiana e la solidarietà sociale.

Il discorso sarebbe, però, incompleto se non si aggiungesse, in una cornice storica di lungo periodo, che la testimonianza di don Luigi costituisce il coronamento di un lungo cammino compiuto all'interno della chiesa e della società. Per questo, dopo aver tracciato alcune linee biografiche, vedremo come nella sua vita si sia trasfusa una consistente eredità ecclesiale e civile.



La biografia di un sacerdote attento ai bisognosi


Don Luigi Di Liegro è nato a Gaeta il 16 ottobre 1928 e morto il 12 ottobre 1997 in un ospedale di Milano dopo un ricovero d'urgenza.

Figlio di un emigrato, recatosi più volte clandestinamente negli Stati Uniti, non dimenticò di preoccuparsi dei soggetti coinvolti nella mobilità umana e bollò con parole di fuoco i politici che già allora volevano trasformare l'irregolarità in reato, parlando di leggi ingiuste, di razzismo istituzionale e di politici sobillatori.

Vice parroco nella popolosa parrocchia di San Leone al Prenestino, diffidente e politicizzata, approfondì le strategie della pastorale nel mondo operaio recandosi in Belgio, dove frequentò un corso della "Jeunesse Ouvrière Chrétienne" ed ebbe l'occasione di visitare le miniere di carbone, allora in piena attività, dove lavoravano molti emigrati italiani.

Venne nominato responsabile, nel 1964 dell'ufficio pastorale della diocesi e, nel 1972, del Centro pastorale per l'animazione della comunità cristiana e i servizi socio-caritativi, e in quella funzione fornì il supporto per ripartire la diocesi di Roma in settori e in prefetture, tenendo conto del decentramento amministrativo del Comune, considerato non con diffidenza bensì come occasione per rivitalizzare le strutture pastorali, facendone un luogo di educazione alla partecipazione e al dibattito con tutte le realtà civili.

Nel 1969, insieme al Centro di Studi sociali dell'Università Gregoriana di Roma, condusse un'indagine sulla religiosità dei cristiani di Roma, rendendosi conto della discrasia fra la fede cristiana professata e le scelte concrete individuali e sociali. Questa constatazione sarà fra i motivi ispiratori del convegno del Febbraio 1974, che don Luigi organizzò con il sostegno del cardinale vicario Poletti, imperniato sul tema "La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di giustizia e di carità nella diocesi di Roma". L'iniziativa, ricordata come il "convegno sui mali di Roma" per le carenze messe in luce, accreditò don Luigi come un fustigatore dei politici, in precedenza poco abituati a critiche così severe da parte di uomini di chiesa.

Assunse anche l'incarico di parroco del Centro Giano, una piccola borgata sorta sulle rive del Tevere, in prossimità di Ostia, dimostrando con questa sua disponibilità pastorale il grande interesse alle periferie di Roma.

Nel 1979 venne nominato direttore dell'appena costituita Caritas diocesana di Roma, incarico che mantenne fino alla morte. Come direttore della Caritas fu protagonista di memorabili battaglie per liberare le persone dal bisogno e dalla mancanza di dignità. Creò servizi di sostegno a tante categorie di esclusi, mobilitando migliaia di volontari e "rimorchiando" (a intervenire per primo era sempre lui) il sostegno delle strutture pubbliche: centri di ascolto, ambulatori, un ostello per i senza dimora, mense per i più poveri tra gli italiani e gli immigrati (per essi, nel 1991, memorabile fu la sua opposizione alla "deportazione" di quelli che si erano sistemati nell'ex Pastificio Pantanella), servizi per i malati di aids (la creazione della struttura di Villa Glori nel 1988 suscitò l'opposizione immotivata di un intero "quartiere bene", rientrata solo a distanza di tempo), case di accoglienza per i minori in situazioni difficili, per i carcerati, per le donne sfruttate nella catena della prostituzione, con il contorno di corsi di formazione, convegni, pubblicazioni e anche diversi progetti di solidarietà all'estero. In Albania, ad esempio, dove si recò più volte dopo la caduta del regime comunista, si interessò alla ricostruzione economica, sociale, culturale, ecclesiale, come anche fece con i suoi collaboratori nei Paesi più bisognosi di diversi continenti. A dare più fastidio ai benpensanti era il suo affetto per gli immigrati, tanto che qualche taxista gli rifiutò il servizio.

Questo sacerdote, specialmente negli ultimi anni, veniva chiamato in tutta Italia, perché piaceva la sua sensibilità cristiana alla solidarietà. Minuscolo prete dal coraggio senza limiti, egli aveva una salute malferma, a causa del diabete e dei problemi cardiaci, che lo portarono, ricoverato d'urgenza, a morire presso l'Ospedale S. Raffaele di Milano il 12 ottobre 1997, a pochi giorni di distanza dalla presentazione del Dossier Statistico Immigrazione, alla quale non era mai mancato. Peraltro, all'inizio dell'anno, aveva già espresso la sua posizione sull'immigrazione, con pochi peli sulla lingua, nel volume Immigrazione. Un punto di vista, apparso provocatoriamente presso le Edizioni Sensibili alle Foglie, dove lavorava l'ex terrorista Curcio.

I funerali di questo "monsignore degli ultimi", svoltisi presso la Basilica di S. Giovanni in Laterano, furono, secondo le cronache, grandiosi. Erano presenti il Presidente della Repubblica Scalfaro e quello del Consiglio dei ministri Prodi, insieme a tanti altri politici e uomini di chiesa, anche se in vita non venne sempre aiutato e, talvolta, neppure sopportato. Appena scomparso, si sentiva la mancanza di questo profeta, potente e disarmato. I poveri e gli emarginati accorsero in massa per salutare la salma del loro difensore, duro con i forti e tenero con i deboli. A stupire fu la massiccia partecipazione del variegato mondo laico, che mostrò come don Luigi ritenesse di doversi occupare di tutti, credenti o non.



Un prete sull'orma dei grandi della chiesa di Roma


Don Luigi è riuscito a recepire i bisogni della sua città e a proporre soluzioni adeguate. La linea di riflessione e di azione, così nitidamente da lui incarnata, si è posta a compimento di una lunga storia, innanzi tutto ecclesiale.

Gli interventi assistenziali ai non abbienti, prima erogati dalle strutture imperiali, successivamente vennero rilevati dalla Chiesa e, negli esempi susseguitisi nel corso dei secoli, si trovano molti spunti che aiutano a inquadrare la personalità di don Luigi.

Nel V secolo gli episcopi venivano denominati "casa dei poveri" e i vescovi venivano chiamati "padre dei poveri". Gregorio Magno, eletto papa nel 590, aveva fatto della chiesa un "granaio aperto" e intratteneva quotidianamente a Roma una mensa per i poveri accanto al monastero del Celio, dove accudiva personalmente i pellegrini poveri. Questo grande papa, denominato "l'ultimo dei romani", raccomandò ai vescovi di destinare ai poveri almeno un quarto dei beni della chiesa. Oltre all'analogia della mensa, colpisce, nelle biografie di Gregorio Magno e di don Luigi, la comune frequentazione dei poveri.

Facendo un salto di mille anni, vediamo che nel 1500 a Roma, per debiti nell'acquisto dei mezzi di lavoro o di medicinali e alimenti, venivano incarcerati migliaia di artigiani. La maggioranza dei capifamiglia era costituita da poveri. Il popolo minuto (manovali e artigiani) era costretto all'indebitamento e perciò, spesso, finiva in carcere. Don Luigi aveva una coscienza nitidissima di questi problemi, che lo portò a lottare contro l'usura con la creazione, tra i primi in Italia (come del resto in altri campi), di un'apposita fondazione.

La storia della città di Roma aiuta anche a capire perché don Luigi, sempre ispirato al recupero delle persone in difficoltà, fosse attento ai problemi del carcere e amico dei detenuti, inclusi quelli condannati per terrorismo. Nella città eterna i detenuti di allora erano, certamente, anche gli autori di furti e di risse ma, ancor di più, gli emarginati (lavoratori poveri, contadini, mendicanti) e altre persone considerate pericolose come zingari, ebrei, omosessuali e prostitute, che già allora confluivano a Roma da tutta Italia. Queste e altre categorie, a distanza di secoli, costituiranno il campo di azione di don Luigi, che a tutti riusciva a trasmettere una prodigiosa volontà di riscatto.

Un'altra sensibilità, ereditata da don Luigi dal passato di Roma, fu quella rivolta all'assistenza sanitaria: creò il poliambulatorio per gli immigrati non assistiti dalle strutture pubbliche già nel 1983, agli albori dei flussi migratori. Era soggiogante sentirlo motivare, dal punto di vista religioso, l'impegno per la cura delle persone più malandate fisicamente, per il fatto che ogni corpo è sede dello Spirito Santo e, quindi, meritevole di ogni rispetto. Egli riproponeva, in chiave moderna, quanto nel passato avevano fatto i grandi ordini ospedalieri per aiutare i poveri, gli anziani, le vedove, i ragazzi, i pellegrini, che vivevano in pessime condizioni igieniche e nutritive, complici anche le ricorrenti carestie e le epidemie.

Roma è stata nel passato anche una città di mendicanti. Innocenzo XII, eletto papa nel 1691, introdusse nella corte uno stile di vita più semplice e contrastò il nepotismo dei predecessori, mettendo il Palazzo del Vaticano a disposizione dei poveri, che amava presentare con questa frase: "I poveri sono i miei nipoti". Anche don Luigi aveva stabilito al pian terreno del Laterano strutture di ascolto dei poveri e degli usurati: secondo lui, non sempre condiviso, quell'appariscente palazzo, in una piazza così centrale, non doveva essere sentito lontano da parte di chi aveva bisogno.

Di Liegro, insomma, non è stato una figura isolata dalla storia della chiesa romana. La Roma di ieri – pressoché senza immigrati ma con numerosi pellegrini e persone bisognose – presenta analogie con quella dove è vissuto don Luigi. La dimensione della povertà e del bisogno è continuata nel tempo e, pur in presenza di strategie di intervento differenziate da parte delle pubbliche amministrazioni e della chiesa, si può dire che questo sacerdote ha saputo valorizzare il passato, innovandolo fortemente. Ciò appare più nitidamente quando si riflette sul rapporto tra chiesa e stato e sui reciproci compiti in epoca moderna.



Di Liegro, un promotore del cattolicesimo sociale


Da una parte, in ambito ecclesiale la figura del povero, idealizzata da San Francesco, portava a insistere sul dovere dell'elemosina, già raccomandata dai primi padri della Chiesa a riparazione dei peccati commessi e in considerazione della destinazione universale dei beni della terra. Si riteneva, comunque, scontato che l'esistenza dei poveri appartenesse all'ordine naturale delle cose.

D'altra parte, ancora agli albori della rivoluzione industriale, i poveri nella società venivano considerati un pericolo per la sicurezza pubblica.

A partire dalla seconda metà del secolo XVIII iniziò il passaggio dalla carità alla beneficenza pubblica, ponendo in capo allo stato, tramite la politica sociale e il lavoro, il dovere di intervenire. Solo attraverso un cammino contrastato, e grazie al cattolicesimo sociale, la chiesa arrivò a superare la teoria dell'elemosina e ad accettare la gestione pubblica diretta delle opere assistenziali, riconoscendo le connessioni tra povertà e ordinamento sociale, con il conseguente dovere di intervenire per rimuovere le cause dell'ingiustizia.

Sono tante le figure di sacerdoti e di laici, che si distinsero per l'apporto dato alla maturazione di questa mentalità, con i quali Di Liegro era idealmente in continuità. Al termine di questo percorso il riconoscimento del movimento dei lavoratori come un grido di dolore di chi è sfruttato trovò il coronamento più significativo in Leone XIII, eletto papa nel 1878: l'enciclica Rerum Novarum fu il primo documento pontificio che affrontava in maniera organica la questione operaia, condannando il declassamento del lavoro a merce.

Nel secolo XX si iniziò a pensare in maniera più compiuta che povero e operaio non sono sinonimi e che la povertà doveva essere considerata non un effetto necessario del processo di industrializzazione, bensì un sua disfunzione cui porre rimedio con le politiche pubbliche.

Il periodo successivo alla seconda guerra mondiale, pur caratterizzato da condizioni tragiche, era vivificato dal patrimonio di queste idee innovative, ed è in quest'ambiente che sono nate, tanto in Italia che all'estero, figure notevoli di sacerdoti, tra le quali si possono ricordare don Mazzolari, don Zeno di Nomadelfia, don Milani e Padre Turoldo: a questi grandi testimoni va equiparato don Luigi.

Infine, la sensibilità ai poveri è stata sancita dal Concilio Vaticano II, che promosse anche il ruolo dei laici cristiani impegnati nel sociale. Paolo VI, all'apertura della II sessione del Concilio, così proponeva il rapporto privilegiato chiesa-poveri: «La Chiesa guarda ai poveri, ai bisognosi, agli afflitti, agli affamati, ai sofferenti, ai carcerati, cioè guarda a tutta l'umanità che soffre e che piange: essa le appartiene per diritto evangelico».

Il giusto equilibro tra promozione umana ed evangelizzazione, che fanno entrambe parte della missione della Chiesa, è stato tematizzato dai vescovi italiani, nel documento del 1981 La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, con parola d'ordine "Ripartire dagli ultimi", mentre nel documento del 1992 (Evangelizzazione e testimonianza della Carità) veniva ribadito che «l'amore preferenziale per i poveri costituisce un'esigenza intrinseca del vangelo della carità e un criterio di discernimento pastorale nella prassi della Chiesa».

In consonanza con questi capisaldi della dottrina sociale della chiesa, don Luigi insisteva sul dovere, per i cristiani, di non limitarsi a constatare i mali della società e a lenirne gli effetti, ma di affrontarne anche il discorso delle cause da ricondurre a un processo di sviluppo e a una globalizzazione senza solidarietà, livello proprio dell'impegno dei laici perché la Chiesa propone valori e non modelli.

Ricordo don Luigi come un prete pio, povero, umile, sempre disponibile e sempre pronto , come uomo di chiesa e cittadino sensibile, a contrastare le decisioni pubbliche scarsamente rispettose della dignità umana. Penso a lui come un esempio di grande attualità e, perciò, sarebbe auspicabile diffondere il modello di santità personale e di impegno civile da lui incarnato.



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