Quella che segue è una conversazione avuta con Han Shaogong sulla letteratura cinese degli ultimi trenta anni, nella quale vengono presi in considerazione diversi temi di grande attualità, tra cui gli scambi culturali tra Occidente e Cina e i problemi che la Cina si trova attualmente ad affrontare.
Han Shaogong è narratore, saggista, autorevole teorico della letteratura e intellettuale, molto noto all’estero attraverso le traduzioni dei suoi numerosi libri, ma ancora poco conosciuto in Italia. A partire dagli anni Ottanta ha svolto e continua a svolgere, in Cina, un importante ruolo di osservatore e critico della letteratura con la pubblicazione di articoli e saggi, e attraverso le pagine della rivista d’attualità e di letteratura “Tianya” di cui è caporedattore. Durante la Rivoluzione Culturale (1966-1976), come molti scrittori della sua generazione, trascorre diversi anni in campagna, poi riprende gli studi laureandosi in lingue e iniziando a pubblicare racconti. Negli anni Ottanta, quando la Cina si apre al mondo esterno e si manifesta una vera e propria febbre culturale per le idee e la cultura occidentali, Han Shaogong pubblica un saggio intitolato Le radici della letteratura, con il quale stimola un acceso dibattito sulla letteratura e si fa promotore di un movimento di rinnovamento culturale e letterario. Negli anni che seguono continua a pubblicare romanzi, racconti e saggi, mantenendo e consolidando il ruolo di osservatore critico delle tendenze culturali e letterarie. Per le sue posizioni “controcorrente” viene a più riprese definito da alcuni “conservatore”.
In Occidente, dove le tue opere sono state tradotte in molte lingue, sei conosciuto come scrittore, ma sin dagli anni Ottanta tu svolgi in Cina un ruolo importante come osservatore e critico impegnato oltre che scrittore, curatore di riviste letterarie e docente universitario. Vorrei chiedere la tua impressione sulla conoscenza che si ha in Italia della letteratura cinese, e in particolare della letteratura contemporanea. Tre anni fa, a Roma, hai partecipato ad un convegno sulla letteratura cinese, visitato una mostra storica delle traduzioni italiane di opere cinesi e partecipato, con altri scrittori, ad un tavola rotonda, tenutasi alla Biblioteca nazionale centrale. Qual è stata l’impressione generale che hai avuto rispetto alla conoscenza che si ha in Italia della letteratura e della cultura cinese?
In Italia sono state tradotte molte opere di letteratura cinese. Per quanto le scelte editoriali possano essere state influenzate dal gusto dei lettori e dalle tendenze del momento, ritengo che questo sia già un buon risultato. In Cina solo lo scorso anno sono stati pubblicati oltre mille romanzi, è difficile seguire tutte le novità perfino per i cinesi, non si può certo pretendere che i lettori stranieri riescano a farlo. I discorsi superficiali che posso aver sentito in Italia non sono stati certo più numerosi di quelli che mi capita di ascoltare in Cina.
In occasione di un seminario tenutosi in Cina qualche anno fa, hai affermato che la conoscenza della letteratura straniera da parte dei lettori cinesi è di gran lunga maggiore di quella che si ha all’estero della letteratura cinese, tanto che un lettore cinese sarebbe in grado di citare cinquanta o cento nomi di autori stranieri, ma che per i lettori occidentali sarebbe impossibile citare i nomi di scrittori cinesi. Secondo te qual è la ragione?
Dopo il sec. XVIII la Cina è entrata in una fase di crisi, cui ha fatto seguito una sorta di febbre per la cultura occidentale durata più di cento anni, nel corso dei quali si è assistito ad un’opera di traduzione e pubblicazione di scritti occidentali di dimensioni ineguagliate a livello mondiale. Anche nel periodo più rigido della cortina di ferro, rappresentato dalla Rivoluzione Culturale, furono pubblicate, come “riservate”, centinaia di opere occidentali tra cui anche scritti “antirivoluzionari”. Ciò significa che i cinesi hanno sempre guardato con interesse all’Occidente. Nella maggior parte dei casi si trattava di buone traduzioni, perché quasi tutti i più grandi scrittori e intellettuali del tempo conoscevano le lingue straniere e si occupavano di traduzione. Una situazione simile avrebbe potuto difficilmente verificarsi in Occidente. Potremmo forse immaginare autorevoli studiosi e scrittori dedicarsi allo studio del cinese e al lavoro di traduzione? Gli scambi tra le due parti non sono stati equilibrati, anzi per un lungo periodo sono stati quasi “unilaterali”, e ciò è stato prodotto dalla storia.
Gli studi “sinologici” moderni prendono avvio in Italia nell’Ottocento, grazie a intellettuali che avevano studiato prevalentemente in Francia. È nel Novecento però che alcuni scrittori e intellettuali italiani cominciano ad avvicinarsi alla cultura cinese contemporanea. Alcuni di loro tradurranno opere letterarie basandosi sulla versione inglese (i racconti di Lu Xun, i saggi e i romanzi di Lin Yutang). A partire dalla metà del Novecento molti scriveranno della Cina, dopo brevi viaggi in Oriente (tra gli altri Giovanni Comisso, Carlo Cassola, Franco Fortini, Curzio Malaparte, Alberto Moravia). Pur essendoci stati, nel corso del Novecento, incontri tra scrittori cinesi e italiani, questi hanno poco contribuito ad approfondire e diffondere la conoscenza della letteratura e della cultura cinese in Italia. Ancor oggi, malgrado siano state pubblicate molte opere in traduzione italiana, e ancor più in inglese e francese, la letteratura cinese continua ad essere considerata una “letteratura minore” e in quanto tale meno conosciuta e seguita dal pubblico dei lettori. Pochi gli accenni a opere e autori cinesi contemporanei da parte di scrittori e intellettuali italiani, mentre molti sono gli scrittori cinesi che hanno letto e citato, ad esempio, Moravia o Calvino nelle loro opere. A questo proposito, e dal momento che hai viaggiato spesso in Europa, vorrei chiedere quale è la tua impressione sulla conoscenza della cultura e della letteratura cinese in Occidente, e se ritieni che nell’immaginario occidentale la Cina resti ancora un mistero, qualcosa che noi facciamo fatica a capire.
Un breve viaggio o soggiorno in un paese straniero non è sufficiente per comprenderne la cultura. Inoltre, nel venire a contatto con culture diverse, anche quando si traduce, si pubblica o si scrive, si continua spesso a preferire ciò che è a noi più familiare, “comprensibile” e più facile da spiegare, ma questo può generare una sorta di “semicecità” selettiva. La conoscenza superficiale che l’Occidente ha della Cina è a volte mistificazione, a volte demonizzazione, del resto gli intellettuali non sono divinità e neppure dei santi. Gli interessi alterano sempre il normale processo di conoscenza, generando ogni sorta di mistificazioni o di demonizzazione dei bisogni psicologici e sociali dell’altro, producendo deviamenti nella conoscenza.
Si tratta di questioni difficili tanto per la conoscenza della Cina da parte dell’Occidente che dell’Occidente da parte della Cina. Attenersi all’informazione cinese non è necessariamente più attendibile perché sotto la pressione politica, economica e culturale dell’Occidente, i cinesi danno spiegazioni spesso confuse e distorte anche di se stessi.
Così può accadere che opere spazzatura siano acclamate e che false informazioni siano bene accolte e premiate dalla società occidentale – le false informazioni fornite da alcuni iracheni non sono forse diventate per gli Stati Uniti la premessa per muovere la guerra?
La Cina non è più misteriosa dell’Italia, e di certo non è una creatura mostruosa di uno spazio alieno. Confucio diceva che gli uomini sono simili per natura, ma diversi nella cultura, ciò significa che la natura umana non è tanto diversa, ma sotto il profilo culturale ci sono invece molte differenze, difficilmente può esserci una totale identità e sovrapponibilità.
La Cina si trova attualmente in un periodo di trasformazione e di violento dissidio culturale, diverse logiche e sistemi di segni sono al contempo in azione. Immaginiamo che l’Occidente sia una scacchiera su cui si muovono solo i pezzi degli scacchi, ciò fa sì che tutti possano comprendere facilmente cosa accade; guardiamo ora alla scacchiera cinese, dove si muovono contemporaneamente pezzi degli scacchi e pedine del go, a cui si mescolano forse anche altri pezzi: tutto ciò richiede una maggiore cautela e pazienza.
Per conoscere e capire meglio la Cina sarebbe secondo te preferibile tradurre opere contemporanee o classiche? O è soprattutto l’atteggiamento che noi occidentali abbiamo nei confronti dell’altro che dovrebbe cambiare?
Penso che la questione principale non sia nella scelta tra antico e moderno, ma piuttosto nella necessità di avere bravi traduttori in grado di operare le scelte migliori e di trasmettere informazioni valide. La Cina per gli occidentali è qualcosa di estraneo ed alieno perché tra i paesi occidentali c’è una certa omogeneità culturale, inoltre tra l’Occidente e molte zone del mondo c’è stata assimilazione culturale. Nel corso della storia si è assistito ad una circolazione su vasta scala di lingue (come in Australia e Asia meridionale), di religioni (in Africa) e di razze (come in America Latina). In Oriente, in India, nelle Filippine e in altri paesi si usa l’inglese; il cattolicesimo e l’islamismo presenti in Asia sudorientale provengono dall’Occidente. Solo la Cina ha continuato a conservare gran parte delle sue caratteristiche culturali, sottraendosi alla colonizzazione occidentale. Non è allora difficile capire, dato questo processo storico, perché la Cina presenti molti aspetti incomprensibili per gli occidentali, e sicuramente la lingua cinese è uno di questi. Ritengo che la situazione attuale sia migliorata di molto, e che tra dieci o venti anni potrà migliorare ancora, perché allora i bravi traduttori saranno ancora più numerosi.
Secondo te commenti e critiche a opere ed autori cinesi che leggiamo spesso, come: «il tale autore è il “Kafka cinese” o il “Faulkner” cinese» possono far piacere ad uno scrittore cinese? E tu personalmente pensi che questo sia un modo per avvicinare la letteratura cinese al lettore occidentale suggerendo dei punti di riferimento noti o che sia invece, ancora una volta, espressione di una sorta di eurocentrismo culturale?
A volte è utile far uso delle analogie per guidare e stimolare l’immaginazione, ma esse non devono essere prese troppo alla lettera: nessuno penserebbe mai che la terra sia realmente una “madre”, o che una donna sia davvero un “fiore”. Solo i pigri ne fanno un uso troppo frequente, paragonando Confucio a Platone, o la Rivoluzione cinese a quella francese, semplificando il mondo e riducendolo a poche etichette che affibbiano a piacere. Ma ci sono un “Kafka cinese” o un “Faulkner cinese”? In letteratura il fenomeno dell’imitazione esiste, e non è qualcosa di positivo, dovrebbe costituire solo una fase iniziale di studio, e non meriterebbe tanto clamore di scrittori e critici. Le imitazioni inoltre non sono mai fotografie o cloni, presentano sempre importanti trasformazioni e variazioni dell’originale. È possibile ritrovare l’ombra di Kafka nella letteratura di molti paesi, tuttavia ognuno di questi “Kafka” possiede una natura differente, sono queste differenze che forse meriterebbero più attenzione e andrebbero approfondite.
Ora una domanda che spesso viene posta agli autori cinesi, e cioè: quale peso e influenza ha avuto la diffusione di opere occidentali nei primi anni Ottanta in Cina, sia dal punto di vista letterario che culturale? C’è stata un’influenza delle moderne correnti letterarie occidentali sugli scrittori e quali sono stati gli effetti più manifesti sulla cultura cinese?
Tra le tendenze letterarie che si sono imposte in Cina all’inizio degli anni Ottanta troviamo in primo luogo l’individualismo, che si è espresso come ribellione alla società totalitaria, quindi il sensazionismo, manifestatosi come ribellione nei confronti del controllo ideologico. Queste tendenze sono state influenzate dalle correnti moderniste occidentali, tra cui la teoria dionisiaca di Nietzsche, quella dell’inconscio di Freud, la teoria bergsoniana dell’intuizione e dal post-strutturalismo, divenuti argomenti di discussione e di grande stimolo per molti critici e scrittori cinesi, tra cui il sottoscritto. Sfortunatamente però la loro influenza in Cina non è stata profonda, e dopo poco tempo hanno perso d’interesse per molti scrittori.
In un paese in cui la tradizione religiosa è assente, e la morale tradizionale è disastrosamente in crisi, “l’individuo” e le “sensazioni” si sono trasformate rapidamente in pura avidità, abbandono di ogni remora morale, estremismo antisociale e irrazionale, in relazione ambigua con la speculazione commerciale.
Soltanto negli ultimi anni qualcuno si è reso conto che non era affatto intelligente adottare meccanicamente lo schema binario di opposizione individuo/società, emozioni/razionalità, e che pertanto il narcisismo esasperato e il ripiegamento su se stessi, comparsi da poco e in breve tempo divenuti eccessivi, potevano veramente ostacolare la letteratura. Sfogliando un romanzo, ogni dieci pagine c’era una coppia che andava a letto, in stereotipi simili è forse possibile ritrovare l’individuo? In tali cliché ritroviamo forse delle “emozioni”? Preferisco credere che si tratti di travisamento o indigestione della cultura occidentale.
Una critica a volte mossa in Occidente alla letteratura cinese è la poca attenzione data alla caratterizzazione dei personaggi, all’esplorazione dell’animo e della psicologia dell’uomo. Sei d’accordo con queste affermazioni? Non credi che l’interesse per l’individualismo diffusosi alla fine degli anni Ottanta possa aver contribuito a colmare questa lacuna?
In un’opera che risale a duemila anni fa, le Memorie di uno storico, è già presente una forma abbastanza matura di caratterizzazione dei personaggi. Ciò che manca invece alla letteratura cinese tradizionale è in primo luogo l’esplorazione psicologica dei personaggi e l’impianto della storia, e poi la strutturazione dell’intreccio intorno ad un nucleo narrativo, tanto che Hu Shi, una delle figure più rappresentative della nuova letteratura di inizio Novecento, affermò che nella narrativa classica cinese non esisteva un “romanzo che potesse definirsi tale”.
Suppongo che la superiorità della narrativa occidentale sia da collegarsi alle vostre tradizioni culturali. Nell’Occidente cattolico il “pentimento”, la “confessione” e la preoccupazione del “peccato originale” e della “redenzione” probabilmente hanno indotto ad una maggiore attenzione per l’anima e per l’analisi dello spirito umano. In Cina invece, ad eccezione di alcune zone come la Mongolia e il Tibet, la religione non ha questa presenza, di conseguenza l’opportunità di analisi interiore è venuta meno. Nell’antica Roma e in Grecia fiorì il teatro, la cui eco è molto presente nella narrativa, diversa è la narrativa cinese che risente della forte influenza della saggistica.
Pertanto l’introduzione in Cina della letteratura occidentale è stata ovviamente un fatto positivo, mi riferisco anche all’individualismo di cui tu parlavi, perché ha portato nuova linfa vitale alla letteratura, fornendo ispirazione e nuovi punti di riferimento.
Mi sembra che una grande differenza tra la Cina e l’Occidente sia da cercarsi anche nel tipo di organizzazione sociale: da una parte abbiamo una società di tipo collettivo, dall’altra una società che pone l’accento sull’individuo. Questo ha probabilmente esercitato una grande influenza sullo sviluppo culturale e letterario dei nostri Paesi.
La tradizione culturale cinese pone l’enfasi sulle “qualità morali” dell’individuo, ma non “sull’io” o la “personalità”, questo è sicuramente da collegarsi a quanto hai appena affermato. A ciò si aggiungono i condizionamenti dovuti nel corso della storia, alla sedentarietà della vita agricola, alla stabilità della famiglia patriarcale e all’alta densità della popolazione. A ciò si devono sommare anche i condizionamenti dovuti alla violenza dei contrasti etnici e dei conflitti di classe manifestatisi in quest’epoca di grande trasformazione. In una tale situazione, “l’individuo” subisce necessariamente delle limitazioni e delle inibizioni. Soltanto dopo gli anni Ottanta “l’individuo” ha ottenuto in Cina una legittimazione, diventando un’importante forza motrice del progresso sociale. Se questo processo abbia poi condotto molti scrittori al narcisismo e al ripiegamento su se stessi è da attribuirsi a fattori sociali ed epocali, come ad esempio all’incontro con il consumismo. Attualmente il problema più grave che la letteratura cinese si trova ad affrontare è il vuoto di valori, e di conseguenza il declino della creatività. Per risolvere questi problemi l’individualismo o il sensazionismo degli anni Ottanta probabilmente non sono più sufficienti, e neanche il ricorso a trasfusioni di cultura occidentale.
Alla fine degli anni Settanta e soprattutto nei primi anni Ottanta la Cina ha vissuto un periodo di disgelo, una rinascita della letteratura. Considerando la letteratura intimista, sentimentale e commerciale comparsa negli ultimi dieci o quindici anni, dopo l’avvio delle riforme economiche di Deng Xiaoping, con la conseguente crescita economica e l’aumento del tenore di vita, alcuni hanno affermato che la tragedia della Rivoluzione Culturale ha avuto in fondo un effetto positivo sulla letteratura degli anni Ottanta. Sei d’accordo con questa affermazione? Ritieni cioè che un periodo tragico, come è stato quello della Rivoluzione Culturale, abbia in fondo giovato alla letteratura cinese? E in che modo?
Il periodo che va dalla fine degli anni Settanta agli anni Ottanta è stato un’epoca di disgelo per la letteratura cinese, un secondo periodo di fioritura letteraria dopo quello rappresentato dal Movimento del 4 maggio 1919[1].
La Rivoluzione Culturale è stata indubbiamente un’importante fonte di esperienza per gli scrittori, e ha fornito le condizioni per un’emancipazione ideologica, perché la repressione può produrre opposizione, e la crisi indurre ad una riflessione generale. Ma questo non significa che la Rivoluzione Culturale sia stata qualcosa di positivo. Spesso gli eventi storici presentano una doppia faccia, come dicevano gli antichi: «quando lo stato è in disgrazia i poeti prosperano».
In una società in crisi abbondano di solito gli uomini di talento, mentre in una sana vediamo ovunque persone mediocri. Che cosa scegliere? Se potessimo decidere il corso della storia, forse opteremmo per una letteratura anche un po’ mediocre, sperando che la società non debba patire tante tragedie, ma in realtà non abbiamo questa possibilità di scelta.
Gli scrittori e poeti della tua generazione (oltre a te Mo Yan, Bei Dao, A Cheng, Wang Shuo e più tardi Su Tong e Yu Hua, per citare i più noti) hanno cambiato il volto della letteratura contemporanea cinese[2]. Ognuno proveniva da una zona diversa della Cina. C’erano contatti e occasioni di incontro tra voi? La critica posteriore ha parlato di un periodo di grande sperimentazione tematica e stilistica, di riscoperta della ricchezza espressiva della lingua dopo anni di predominio di una lingua politicizzata, rigida e inespressiva. Erano questi gli argomenti discussi da voi scrittori?
Negli anni Ottanta c’è stato un intenso dibattito su questi temi e su modernismo, realismo e classicismo che, malgrado le differenze, a quel tempo avevano unito le forze per emancipare la letteratura.
Gli incontri tra noi scrittori erano solo occasionali, perché non vivevamo tutti nella stessa città, e i contatti erano pochi. Sicuramente le nostre posizioni sulla letteratura erano molto simili, soprattutto sulla valutazione delle opere, ma tra noi c’erano anche delle differenze dovute alla diversa esperienza di vita, agli interessi, alla partecipazione sociale, alle tendenze politiche e all’ambiente culturale in cui ognuno di noi viveva. A volte la posizione di uno scrittore può mutare dall’oggi al domani, inutile quindi parlare di diversità di posizioni tra scrittori.
Generalmente sono i giornalisti e i critici che amano discutere e dibattere di “ismi” e correnti letterarie, alla maggior parte degli scrittori non interessa fare dichiarazioni o esporre teorie, e tanto meno parlare delle divergenze esistenti. Come tutti sanno, le idee non fanno la letteratura, e per quanto giuste, straordinarie o brillanti possano essere, non producono automaticamente delle buone opere. I fattori che decidono il successo di un’opera sono troppo complessi, e le idee sono solo uno dei tanti.
Hai accennato a legami e differenze esistenti tra modernismo, realismo e classicismo. Potresti spiegare cosa intendi in riferimento alla situazione cinese di quegli anni? Tranne poche eccezioni, a me sembra che dopo il rifiuto del realismo socialista e la fase di riflessione e fioritura di nuove tendenze, ci sia stato per molti un ritorno a un realismo di tipo nuovo, più “obiettivo” e vicino ai tempi, riflessione e espressione critica della nuova realtà che si stava vivendo e delle nuove problematiche emerse. Accanto al “nuovo realismo” troviamo il tentativo di affrontare temi nuovi per mezzo di una lingua nuova. Il legame con il classicismo è costituito dalla ripresa di temi legati alla tradizione cinese classica o a quella più recente, di inizio secolo? E in particolare come si esprime?
Gli “ismi” sono solo delle semplificazioni, a volte penso che sia più comodo e semplice ricorrere alle categorie cinesi di “scrittura spontanea” (xieyi) e “scrittura realistica” (xieshi). Molta narrativa degli anni Ottanta centrava l’attenzione sulla scrittura spontanea xieyi, così la trama, i personaggi, i contenuti divennero elementi di scarso interesse, e i critici parlarono allora di “modernismo”.
Negli anni Novanta molti tornarono alla scrittura realistica xieshi, focalizzando nuovamente l’attenzione sulla trama, i personaggi e i temi, e i critici parlarono allora di “realismo”. Si poteva definire così? Certo, ma le definizioni non devono essere prese troppo sul serio. Molti di noi hanno scritto sia opere “moderniste” che “realistiche”, quale etichetta dovremmo allora applicare in quel caso?
Per classicismo intendo quello di Wang Zengqi[3], uno scrittore che si è formato sulla letteratura classica cinese, le cui opere non sono “moderne” né “realistiche”, ma possono definirsi “classiche”. Tuttavia anche questa è ovviamente una semplificazione e possiamo tranquillamente fare a meno dell’etichetta.
Vorrei un tuo giudizio sulla critica letteraria cinese. In Cina, con il superamento del realismo socialista e il rifiuto della critica marxista ortodossa, non è nata una nuova generazione più obiettiva e politicamente non schierata di critici letterari? Che peso ha la critica più giovane e indipendente rispetto a quella ortodossa?
Oggi la cosiddetta critica ufficiale ortodossa è ridotta ai margini, nelle librerie sono i libri di Salma Hayek a fare scalpore e non più quelli di Karl Marx. Prima che si manifestasse la recessione economica a livello mondiale, i cattedratici criticavano spesso la Cina esaltando gli Stati Uniti.
Riguardo poi alla critica letteraria, la situazione non è affatto soddisfacente. La voce principale è costituita dai giornalisti, quelli che scrivono sui giornali brevi articoli, anche due o tre in un giorno, affibbiando etichette a caso. Poi ci sono gli studi critici degli accademici riservati a circoli ristretti e benché tra questi possiamo trovare articoli di un certo peso, generalmente mancano di percezione realistica e vigore intellettuale; inoltre gli aspetti “letterari” oggetto della “critica” sono sempre meno, e la critica finisce così col diventare uno “studio culturale” in cui rimane solo la prospettiva ideologica. È come dire che di cavoli e rape i critici sono in grado di analizzare solo le vitamine in essi contenute, il problema è che anche nella spazzatura ci sono le vitamine, e allora i nostri esperti come potranno distinguere le rape dalla spazzatura? E le rape buone da quelle cattive?
Il famoso critico Liu Zaifu[4] ha scritto che un aspetto caratterizzante della letteratura degli anni Ottanta è il pluralismo, ossia una gran varietà di tendenze e temi. Ora che sono passati quasi trenta anni, guardando indietro non ti sembra invece che negli anni Ottanta ci sia stata da parte degli scrittori, la tendenza a seguire delle correnti principali (Ferita, Radici, Modernismo, Avanguardia) e che poche invece siano state le voci originali? Perché gli scrittori cinesi mostrano spesso la tendenza a far parte di una corrente principale o di un gruppo anziché esporsi in prima persona? Sei d’accordo con queste affermazioni o ritieni che questa sia una visione errata e parziale dei fatti?
Molti scrittori cinesi non amano scegliere in modo indipendente, di fatto preferiscono seguire la corrente, così ad esempio in passato si credeva che la verità venisse solo da Mosca, e in seguito molti si sono convinti di trovarla solo a New York. Questa situazione non può cambiare in breve tempo. Bisogna anche dire che alcune “correnti” sono state inventate dai critici e dai giornalisti. I gruppi cui accennavi (Ferita, Radici, Modernismo, Avanguardia, ecc.) sono del tutto arbitrari, si potrebbe redigere un lunghissimo elenco di scrittori che a quel tempo non facevano parte delle “Radici” né dell’“Avanguardia”.
Anche nell’attuale scena letteraria è difficile dire se ci siano delle “correnti”, molti critici e giornalisti, che detestano probabilmente la solitudine, mettono insieme ora un “ismo” ora una corrente, confondendo le idee ai lettori. Forse per loro è più comodo e sicuramente più facile discutere e criticare le “correnti” anziché i “singoli autori”. Ciò del resto è comprensibile, anche loro devono mangiare.
A me sembra che tutti voi scrittori di quegli anni eravate convinti, come i letterati del passato, di essere investiti della responsabilità di spiegare, di dover educare i lettori, di svolgere una missione all’interno della società.
La situazione di cui parli era piuttosto diffusa negli anni Ottanta, ma ora si è completamente ribaltata. Per quanto ne so io, la maggior parte degli scrittori oggi non ama parlare di responsabilità sociale. Quando, due anni fa, alcuni di noi hanno proposto una letteratura degli umili, che dedicasse maggior attenzione agli strati più umili della società, sono stati derisi e messi in ridicolo sui giornali.
Gli scrittori devono ovviamente avere la libertà di esprimere le proprie opinioni, tuttavia se alcuni di loro vogliono solo seguire la moda, sia essa quella dell’impegno sociale come negli anni Ottanta o del suo rifiuto come avviene oggi, la loro è una “libertà” che vale ben poco.
Nel 1985 hai pubblicato un famoso articolo, La ricerca delle radici, in cui proponevi una riflessione sulla letteratura del tempo, lanciando un appello agli scrittori affinché promuovessero un recupero delle proprie tradizioni culturali, anziché imitare le opere occidentali che proprio allora erano introdotte in gran quantità in Cina e per cui era scoppiata una vera e propria febbre culturale. Qualcuno ha sostenuto che in diversi momenti (nel 1985 e più recentemente negli ultimi anni) hai preso posizioni conservatrici, schierandoti dapprima contro l’ossessione per la letteratura occidentale e, più di recente, contro la tendenza intimista e commerciale manifestatesi nella letteratura contemporanea. Alcuni critici sostenevano a quei tempi che solo introducendo e studiando teorie provenienti dall’Occidente la letteratura cinese avrebbe potuto superare i propri confini e assumere un valore universale; la Cina doveva rinnovarsi, e il rinnovamento non poteva certo venire dalla cultura tradizionale. Potresti darci la tua versione dei fatti?
Ho pubblicato l’articolo in cui proponevo la Ricerca delle radici nel 1985, in quello stesso anno mi iscrivevo all’università per studiare lingue straniere e tradurre Milan Kundera, Fernando Pessoa e altri. Mi sembra perciò ridicolo considerare la Ricerca delle radici come xenofoba o antioccidentale, o per lo meno che questa sia un’interpretazione volutamente distorta.
In alcuni paesi africani sono stati adottati di sana pianta lingue, religioni, sistemi d’istruzione e di governo occidentali, ma non per questo si è determinata una rinascita culturale, abbiamo al contrario assistito a lunghi periodi di disordini e miseria. Questa è una lezione da cui dovremmo imparare.
Grazie all’antica cultura romana e a quella greca, gli europei furono invece in grado di assimilare le religioni del Medio Oriente, la matematica araba e il sistema cinese di accesso alla pubblica amministrazione. Questa anche è un’esperienza da cui dovremmo imparare.
Durante la Rivoluzione Culturale la sinistra più radicale aveva posizioni decisamente xenofobe, nell’epoca dell’economia di mercato l’ala più liberale propugna l’occidentalizzazione più totale: a mio parere si tratta in entrambi i casi di miopia culturale.
Ogni cultura dotata di vitalità non può essere il duplicato di un’altra. I veri innovatori non confonderanno mai la creazione con l’imitazione e non disprezzeranno alcuna risorsa culturale comprese quelle del proprio paese. Non è forse questa l’esperienza europea?
Se bisogna studiare l’Occidente, ritengo allora che l’aspetto che maggiormente merita di essere studiato sia proprio questo: la capacità di creare in modo indipendente partendo da una grande cultura.
La letteratura è una fonte privilegiata per comprendere un popolo e la sua cultura. A questo proposito mi piacerebbe aprire una breve parentesi. A partire dalla fine degli anni Novanta alcuni autori cinesi residenti all’estero (prevalentemente negli Stati Uniti, in Francia e Inghilterra) hanno attirato l’attenzione del pubblico internazionale. Mi riferisco ad esempio a Gao Xingjian, Ha Jin, Qiu Xiaolong, Dai Sijie[5]. Si tratta di scrittori molti diversi tra loro per stile e formazione e, probabilmente, sconosciuti o poco noti in Cina, le cui opere condividono un elemento comune: la necessità di raccontare in prima persona la Cina, la sua cultura e la storia recente. A tuo parere quanto gli scrittori trasferitisi all’estero possono raccontare la Cina all’Occidente? Ritieni che il crescente interesse per le loro opere sia da attribuire alla lingua usata (inglese o francese) che, superando il filtro della traduzione, riesce a raggiungere il pubblico occidentale, all’uso di uno stile più consono al gusto dei lettori occidentali, o ai temi da essi affrontati (politica, problematiche sociali, corruzione, sesso), spesso ancora troppo delicati per gli scrittori che vivono in Cina?
I libri di questi autori sono stati pubblicati pure da noi, anche per gli scrittori cinesi che vivono in Cina è facile oggi pubblicare opere di argomento “delicato” fuori della Cina.
Sebbene il nostro governo e l’opinione pubblica occidentale abbiano posizioni diverse, ritengo che entrambi sopravvalutino il significato di tali opere “delicate”, la Cina ne sopravvaluta il significato politico, gli occidentali quello letterario. Gao Xingjian è argomento “delicato”, ma il governo può forse riuscire a vietarlo? Anche escludendo internet, l’anno scorso sono stati almeno quaranta milioni i turisti cinesi che si sono recati all’estero, che differenza fa se hanno letto Gao Xingjian in Cina o altrove? Per non parlare di tutti i cinesi che risiedono all’estero, che leggono le opere di Gao Xingjian, ascoltano la CNN e la BBC: soltanto per questo dovremmo concludere che tutti subiscono il lavaggio del cervello?
Oggi molta poesia, narrativa e cinema underground cinesi giungono in Occidente attraverso canali differenti, tra questi ci saranno sicuramente opere valide, ma quante? Dobbiamo forse pensare che solo scrivendo opere di argomento “delicato” si possa trovare un mercato e costruire una reputazione? Molti possono essere i motivi per cui altri scrittori hanno avuto successo in Occidente, primo fra tutti il gusto e gli interessi dei lettori, che sono diversi in ogni paese. In questo non c’è nulla di negativo, perché abbiamo bisogno di scrittori che scrivano cose diverse; anche la cucina italiana è diversa da quella cinese e spero che nessuno, anche in futuro, possa desiderare di uniformarle.
Il successo nazionale e internazionale delle tue opere e di quelle di autori come A Cheng, Mo Yan, Su Tong e Yu Hua proverebbe che ciò che affermavi nel 1985 era giusto: era necessario riscoprire in modo critico la cultura dimenticata e oltraggiata nell’epoca maoista, recuperarla e trovare in essa nuova energia e linfa vitale. Ma poi è successo qualcosa. Negli anni Novanta, la riforma economica avviata da Deng ha dato i suoi primi risultati, l’economia cinese ha fatto rapidi progressi, e le condizioni di vita generali sono migliorate. Si è assistito a grandi cambiamenti sociali e sono emerse problematiche comuni ai paesi industrializzati (aumento del divario tra ricchi e poveri, disoccupazione, crisi dell’assistenza sanitaria, crescita della corruzione a tutti i livelli); si è assistito anche a una perdita generale dei valori tradizionali e alla corsa verso il benessere consumistico. I cambiamenti sociali che ne sono conseguiti cosa hanno prodotto dal punto di vista letterario?
Molti scrittori cinesi hanno una grande esperienza nella critica all’autoritarismo, ma nessuna rispetto alla globalizzazione e alla modernizzazione. Il “sogno americano” degli anni Ottanta ha fatto quasi perdere loro la capacità di reazione di fronte ai problemi emersi in seguito, quali l’ambiente, le risorse naturali, il divario tra ricchi e poveri, il declino della morale e il nazionalismo. Un fatto semplicissimo è che se la Cina diventasse come l’America, avremmo bisogno di altri cinque o sei mondi per sostenerne il peso. La Cina ha contratto una sindrome atipica, che presenta i sintomi della dittatura e anche quelli di una estrema mercificazione della vita, per cui non esiste alcun rimedio. Se in una società ed in un’epoca simili si vuole rispondere con una letteratura più creativa, è necessario che gli scrittori riflettano e acquisiscano una maggiore esperienza, che abbiano più coraggio e saggezza.
Ma molti scrittori, anche i più impegnati, a partire dagli anni Novanta non si sono ritirati dalla scena politica e sociale per vivere la propria vita? Il critico Chen Sihe ha parlato di un diffuso fenomeno di ritiro ai margini della società da parte di molti di voi. Secondo te, questo è avvenuto per la stanchezza seguita alle campagne contro gli intellettuali della storia recente, oppure per una progressiva indifferenza nei confronti della politica e dei problemi sociali, risultato del nuovo clima di benessere e agiatezza, e del successo di alcuni in Cina e all’estero? Un libro uscito lo scorso anno, che raccoglie interviste a un centinaio di scrittori condotte da Ma Yuan[6] all’inizio degli anni ’90, confermerebbe questa visione. In quasi tutte le interviste sembra affiorare inevitabilmente un tema: l’esigenza di migliorare le proprie condizioni materiali e la difficoltà di alcuni scrittori, soprattutto dei poeti, di vivere del proprio lavoro. È come se un’ossessione, quella che tu chiami “monetizzazione” abbia investito tutti gli strati della società cinese. Quando sono in Cina, mi sorprendo spesso ad ascoltare i discorsi della gente per la strada e la parola che mi sembra ricorrere maggiormente è “soldi”. È proprio questa la situazione, oppure qualcosa sta nascendo e noi all’esterno della Cina non l’abbiamo percepita?
Questo è uno degli aspetti che davvero mi preoccupano. Verso la metà degli anni Novanta, io ed alcuni amici criticammo aspramente il “culto del denaro”, divenendo quasi il nemico pubblico del mondo letterario, e fummo attaccati duramente da tantissimi colleghi. Cosa si potrebbe fare in fondo? La storia deve seguire la sua strada, soltanto di fronte alle grandi tragedie l’uomo riacquista coscienza e capisce che oltre al denaro ci sono cose più importanti. Attualmente questo processo in Cina non si è ancora concluso, ma neanche nel resto del mondo.
Wang Shuo è lo scrittore che per primo, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, affermò che la letteratura cinese soffre di una malattia cronica, “l’eccessiva serietà”, gli scrittori tendono cioè a prendersi troppo sul serio e ad affrontare solo i grandi problemi. Non solo la letteratura cinese è “troppo seria”, ma spesso anche le altre forme di espressione artistica lo sono. Le opere di Wang Shuo furono definite dai critici “narrativa dei teppisti”, “narrativa commerciale” ecc., ma vendettero milioni di copie. A distanza di venti anni sono comparsi alla ribalta giovani scrittrici come Wei Hui, Mian Mian[7] e più recentemente scrittori quali Guo Jingming e Han Han[8], la nuova generazione di scrittori definiti “commerciali”, le cui opere traboccano di emozioni personali ed episodi di vita privata, che vendono milioni di copie. In un tuo intervento hai affermato che oggi viviamo in un’epoca di “liberazione dei sensi”, in cui godiamo di una maggiore libertà, ma in cui contemporaneamente si assiste ad una crescente “omologazione”. Potresti dire qualcosa a questo riguardo?
Le opere di Wang Shuo possedevano una grande forza distruttrice, rappresentavano una sorta di antisettico nei confronti della politica e della morale ipocrita della Rivoluzione culturale, ma non erano sufficientemente costruttive. Se si vuole essere costruttivi è necessario essere anche un po’ seri, e forse non solo eloquenti. Ad ogni modo la personalità di Wang Shuo si è formata attraverso una ricca esperienza di vita, basta leggere i suoi romanzi e conoscere la sua storia personale per capirlo. Se quelli che lo prendono a modello confondono l’individualità per moda e l’indipendenza per narcisismo, allora otterremo solo omologazione e opere di infima qualità. In questo senso si può dire che le teorie di Wang Shuo abbiano danneggiato tutti quelli che non sono riusciti ad essere come lui. Le intuizioni geniali sono prodotte sempre da una ricca, difficile e seria esperienza di vita, non da chiacchiere scambiate nei bar tanto per divertirsi, e non dobbiamo pensare che il talento sia così a buon mercato.
Negli ultimi anni si assiste in Cina, come nel resto del mondo, ad un crescente disinteresse dei lettori per la letteratura, che negli anni Ottanta era stata così popolare. Le librerie cinesi sono piene di libri che insegnano a diventare ricchi in un giorno e manager di successo in una settimana. Molti poeti si sono dedicati alla narrativa “che vende”, altri sono impegnati nell’industria cinematografica, altri ancora sostengono che questa è l’epoca dell’immagine e non più della parola scritta. Qual è la tua opinione a proposito? Ritieni che questa sia un’epoca di transizione e che presto potremo leggere di nuovo qualcosa di valido?
La comparsa delle nuove tecnologie costituisce una trasformazione irreversibile, mentre la crescita dei bisogni indotti e del torpore intellettuale sono invece cambiamenti reversibili. La letteratura si trova attualmente in uno stato di duplice trasformazione, irreversibile e reversibile al tempo stesso. Non sono ottimista per il futuro imminente, ma neppure pessimista in prospettiva. La letteratura dà espressione alle emozioni e ai pensieri umani, e se il genere umano non si estinguerà la letteratura potrà sopravvivere. Tuttavia lo spirito umano non è sempre in uno stato di veglia, e non sempre sa porre la razionalità e i valori al di sopra della ragione strumentale. Ciò è valido soprattutto per la Cina, che attraversa ora un periodo di rapido sviluppo economico in cui i valori culturali sono in una situazione di caotica trasformazione.
La fioritura culturale che l’Europa ha conosciuto tra il XVIII e il XX secolo, periodo in cui la letteratura quasi rimpiazzò la religione, non rappresenta la normalità nella storia. Affermarlo sarebbe un falso storico. Ma lo spirito umano non può restare in uno stato di perenne torpore. E quando la crisi si avvicina con le sue sciagure, sarà necessaria una forte reazione emotiva e ideologica, che genererà nuovamente buona letteratura. Questo è certo. Gli scrittori non possono certo desiderare crisi e avversità per soddisfare i propri interessi professionali. Ma quali risultati possiamo aspettarci da un mondo mediocre e corrotto?
Intervista effettuata nel febbraio-marzo 2009
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