Pensare all’America Latina come una gigantesca “istituzione di sequestro” è il nucleo della riflessione del giurista e intellettuale argentino Raúl Zaffaroni[1]. Egli denuncia la situazione critica del sistema penale nel continente sudamericano, con il suo apparato giuridico-penale che ha esaurito il suo arsenale di finzioni, i cui organi esercitano il proprio potere per controllare una realtà sociale destinata alla morte in massa. Zaffaroni descrive il sistema di controllo sociale dell’America Latina come una conseguenza del processo di transculturazione dovuta all’incorporazione del continente al processo di accumulazione del capitale. Darcy Ribeiro definiva i cicli economici, a partire della colonizzazione, come «mulini per schiacciare gli uomini»: indios, africani e poveri in generale[2]. Il simbolo di questa transculturazione è stato il genocidio.
Analizzando l’idea dei diritti a partire dall’illuminismo, abbiamo cercato di calarla nella realtà storica del Brasile. Il periodo di post-emancipazione in Brasile è segnato da profonde agitazioni. L’indipendenza ispirò vari progetti per la nazione che lottavano fra loro per l’egemonia. La questione principale che doveva essere amministrata, ideologicamente e politicamente, era la convivenza tra il liberalismo e il modello di produzione schiavista.
Per comprendere questa particolare circostanza, i problemi del liberalismo in Brasile[3], è interessante riflettere su quello che Gizlene Neder ha chiamato «illuminismo giuridico-penale luso-brasiliano»[4]. L’autrice studia le trasformazioni occorse nella transizione dal Brasile-colonia all’Impero Luso-Brasiliano, a partire dalle riforme del Marchese di Pombal in Portogallo, tra il XVIII e il XIX secolo. Considerando che gli attori al potere erano uomini laureati, la Neder analizza l’influenza della riforma dell’Università di Coimbra del 1772 e la creazione di corsi giuridici nel Brasile del 1827.
L’idea centrale della sua tesi è basata sui lasciti storico-culturali, in modo da incorporare, senza rotture, il liberalismo europeo con il tomismo, il militarismo e la religiosità delle radici iberiche. In tal modo, si tende sempre verso una formula giuridico-ideologica che assimili una gerarchizzazione assolutista, che preservi le strategie di sospetto e di colpa del diritto canonico e che mantenga vivo l’arbitrio e le fantasie assolutistiche di controllo totale.
L’eredità giuridico-penale dell’Inquisizione spagnola è un segno distintivo di un modello di Stato che ha marcato la storia del Brasile fino ai giorni nostri. «Il diritto penale che ambisce ad esercitarsi come assunto legittimo, nella lingua ufficiale, sta producendo in continuazione significati che permettano l’espansione continua del sistema penale, un’espansione che si orienta anche in direzione delle mentalità e della vita privata»[5].
In questa eredità, il dogmatismo legale si contrappone al pluralismo giuridico, il diverso è criminalizzato, esiste una coercizione al consenso e una manipolazione di sentimenti[6]. Secondo Batista, questi meccanismi sopravvivono e si amplificano in determinate congiunture politiche che riproducono il trattamento riservato all’eretico: il principio di opposizione tra un ordine giuridico virtuoso e il caos criminale; in cui la lotta contro il crimine assume i contorni di una crociata dove lo sterminio è il metodo giusto contro l’ingiusto che minaccia. Nasce l’idea del diritto ad un intervento morale basato sulla confessione orale e sul dogma della pena. Questo ordinamento giuridico intollerante ed emarginante non tollera limiti, si trasforma in un sistema penale senza frontiere che contempla la tortura, l’elogio della delazione e dell’esecuzione come spettacolo.
È importante considerare come le permanenze storico-culturali delle fantasie di controllo totale proprie dell’assolutismo portoghese abbiano seguito nelle pratiche pedagogiche, giuridiche e religiose in merito ai diritti, alla disciplina e all’ordine[7]. Ne derivano, secondo Neder, implicazioni giuridiche, politiche e ideologiche di una visione sociale teologica, aristocratica e rigidamente gerarchica, con un riscontro politico e allegorico che impregna la vita quotidiana del Brasile. Come accadeva in Portogallo, le élites brasiliane assimilano alcuni aspetti pragmatici della modernità ma sempre garantendo la permanenza dell’autoritarismo assolutista. L’eredità del periodo coloniale mercantilista trasmette all’Impero brasiliano il controllo sociale penale «realizzato all’interno di un’unità di produzione»[8] secondo un «potere punitivo che si esercita sul corpo della sua clientela»[9].
Prima di passare all’analisi della costruzione dell’apparato di controllo sociale, sarebbe importante inquadrare quelle che Neder ha definito «visioni iperboliche sulle classi pericolose»[10] nel periodo di formazione di un soggetto politico molto particolare, la classe signorile brasiliana, nell’egemonia del paternalismo e delle «politiche di dominio basate sull’immagine di inviolabilità di una volontà signorile benevole che rimane praticamente incontestabile come mezzo per preservare la subordinazione di schiavi e lavoratori liberi dipendenti»[11]. Il personaggio creato da Machado de Assis al quale Chalhoub si riferisce, Brás, è «colui che controlla l’economia di concessioni e favori attorniato da una legione di schiavi e servitori». Per Brás, l’eliminazione delle differenze politiche e culturali si relaziona ad una determinato ordine e ad un determinato equilibrio. Nel mondo signorile, tutto e tutti esistono per soddisfare la sua volontà. Brás è cosciente delle dimensioni simboliche del potere, è cresciuto «in the art of performing power», in quella che Schwarz ha chiamato «cerimonia di superiorità sociale, valida di per sé»[12]. Helena Bocayuva analizza nell’opera di Gilberto Freyre la concezione di ordinamento patriarcale come ordinatore della società brasiliana. La studiosa prende in esame il potere di classe dei figli dei signori e dei loro «macabri diletti», o giochi sempre verticali, gerarchizzati[13].
Márcia de Almeida Gonçalves, invece, prende in esame la paura che diventa una “preziosa chiave di lettura” per comprendere la conservazione e l’espansione dei monopoli fondatori degli interessi della classe signorile[14]. L’autrice considera la comprensione della paura come una virtù che si è trovata nell’asse centrale delle strategie conservatrici del periodo[15]. Era con questa idea che si conciliavano progresso e conservazione, secondo la visione di Schwarz, di un liberalismo impraticabile ma allo stesso tempo ineliminabile. Il mantenimento dei rapporti schiavistici, la concentrazione della proprietà terriera e il consolidamento dell’unità imperiale erano i dilemmi dei liberali negli anni Trenta del XIX secolo.
Batista e Zaffaroni, nel processo denominato história da programação criminalizante no Brasil, mostrano come le pratiche punitive del mercantilismo praticate sul corpo del sospetto o del condannato in ambito privato diano segnali di anacronismo in seguito all’Indipendenza e alla costituzione del capitalismo in Brasile. I lasciti, infatti, sono numerosi: «il tribunale criminale contemplava la pena di morte naturale per gli schiavi, gli indios e i braccianti senza possibilità di appello né di aggravante, ad esclusione delle persone di più alta qualità, per le quali la morte poteva essere commutata in dieci anni di esilio o in una multa da cento cruzados»[16]. I due studiosi citano Gilberto Freyre che, negli annunci sugli schiavi della stampa del XIX secolo, riscontra la sopravvivenza della pratica di marchiare il volto con il fuoco o con la cera ardente. Cicatrici di macete e di ferro ardente, denti limati, ferite e bruciature sulla pancia sono frequenti nei classificados de gente (“annunci di vendita di persone” [N.d.T.]) di quei tempi.
Dal punto di vista giuridico, le Ordenações Filipinas, che costituirono la base della programmazione criminalizzante del Brasile-colonia, ressero il diritto penale fino alla promulgazione del Codice Criminale del 1830. Ci sembra importante sottolineare che, nel diritto privato, diverse disposizioni delle Ordenações Filipinas rimasero in vigore fino al 1917[17].
In merito alla «questione del potere e della disciplina sulla famiglia, istituzione chiave nel ventaglio delle pratiche di controllo e di ordine sociale, nel passaggio verso la modernità»[18], Neder e Cerqueira Filho stanno studiando l’idea della «costruzione di un meccanismo ideologico e affettivo che mantenga in vita una funzione parentale riposta in un’autorità, capace di sostituire la figura così completa del paterfamilias»[19].
In precedenza ci siamo già riferiti ai segni lasciati dall’Inquisizione e alle sue investigazioni generali sui delitti incerti[20] che fino ad oggi ricorrono nei notiziari sul crimine in Brasile, così come nei cuori e nelle menti della destra e della sinistra punitiva[21]. Le richieste di ferocia penale e la selettività della clientela del sistema penale sono permanenze storiche. Tuttavia, a partire dalle contraddizioni che sorgono tra il sistema coloniale-mercantilista e il capitalismo industriale che si configurava già nella seconda metà del XVIII secolo, si viene abbozzando un’altra situazione. Al centro dell’Indipendenza la Costituzione del 1824 produce alcune rotture, che fanno parte dell’universo liberale nell’insieme delle “idee fuori luogo” della modernizzazione alla brasiliana. Sorgono le seguenti garanzie individuali: «libertà di manifestazione del pensiero, proscrizione delle persecuzioni religiose, libertà di movimento, inviolabilità del domicilio e di corrispondenza, le formalità richieste dalla prigione, la riserva legale, il dovuto processo, l’abolizione delle pene crudeli e della tortura, la non-trasmissibilità delle pene, il diritto di petizione, l’abolizione dei privilegi e del tribunale speciale»[22]. È logico che tutto questo non poteva collidere con “il diritto di proprietà in tutta la sua pienezza” che, mantenuta la schiavitù nel testo della legge, avrebbe istituito la trappola della cittadinanza in Brasile, potremmo dire ciladania[23], che ricorre fino ai giorni nostri nei discorsi del liberalismo di destra diretti alla “terza via” in Brasile.
Il Codice Criminale dell’Impero del 1830 è promulgato in questo clima, sulla scia della paura delle insurrezioni, nelle aspettative che alla nazione indipendente del 1822 sopravvivessero i diritti pieni del proprio popolo meticcio, nelle contraddizioni tra liberalismo e schiavitù, nell’unificazione territoriale e nella centralizzazione dei poteri imperiali.
Secondo Batista e Zaffaroni, la nuova legalità che doveva entrare in vigore a partire dalla Costituzione del 1824 e secondo l’articolo 1 del Codice Criminale, non vide la luce. Sulla scia del terrore bianco delle insurrezioni degli schiavi, nel 1835 è promulgata una legge che comminava la pena di morte per qualsiasi aggressione fisica di uno schiavo contro il suo signore, il sovrintendente o i suoi familiari. «I turbolenti anni Trenta trovano riscontro nella retrocessione processuale del 1841-1842 che trasmette alla polizia i poteri della magistratura»[24]. La legge 9 del 13 maggio 1835 dell’Assemblea Legislativa di Bahia, prevedeva che gli africani liberati che, dopo essere stati espulsi, fossero tornati nella provincia, venissero processati per insurrezione. Questa legge -elaborata sotto l’influenza della recente rivolta malê- promuoveva una equiparazione mostruosa, e all’articolo 21 aumentava le pene stabilite da un decreto imperiale; in entrambi i casi, il principio di riserva legale si polverizzava[25].
La circolazione e lo spostamento degli schiavi e dei neri liberti era perseguibile. Batista e Zaffaroni ci parlano di un decreto municipale del 1870 che puniva con una multa o con quattro giorni di prigione i proprietari delle tende, osterie e taverne che permettessero la permanenza degli schiavi nei propri locali per un tempo superiore a quello necessario per fare acquisti, con la clausola: «rispondendo sempre i padroni al posto dei cassieri». Quei passaporti descritti dal decreto del 14 dicembre 1830, a Bahia, avranno lunga vita e ispireranno le frontiere erette tra l’ordine e il disordine, regolamentando il dislocamento e la realtà sociale urbana nel passaggio dal secolo XIX e il secolo XX, e fino ai giorni nostri[26]. I Lundu, i Batuques[27] e le grida erano puniti con la prigione. Nel 1861 un avviso ministeriale stabiliva che il numero di colpi di macete doveva essere direttamente proporzionale «all’età e alla robustezza del reo; affittare una casa ad uno schiavo significava otto giorni di prigione». Secondo Batista e Zafferoni è in questo preciso momento storico che l’autoritarismo della polizia e del vigilantismo brasiliano mettono le radici, dal senso storico della crudeltà di un insieme di leggi liberali che permettevano «il ritorno al potere di una signora, di una schiava trovata con la lingua bruciata con il labbro inferiore»[28].
Nel liberalismo alla brasiliana, la pena di morte ha «una terribile facilità processuale per gli schiavi colpevoli in contrapposizione con la completa invulnerabilità dei signori»[29]. Nelle parole di Batista, il secondo sistema penale brasiliano, nella sua brutale materialità, espugnava ambiguità fondamentali: «Lo schiavo era una cosa di fronte alla totalità dell’ordinamento giuridico (il suo sequestro corrispondeva a un furto), ma era una persona per il diritto penale»[30]. Tuttavia, nonostante le sue trappole e le sue ambiguità, il Codice Criminale dell’Impero influenzò molte legislazioni latino-americane e ancor più direttamente il codice penale spagnolo del 1848[31].
Tale contenuto autoritario, che legittimava lo sterminio e portava alla realtà letale di rinnegare i diritti nel momento stesso in cui vengono istituiti, sarà anch’esso un’eredità storica. Nilo Batista ha esaminato le origini storiche del diritto penale ad intervento morale che conduce a politiche criminali di contenuto sterminatore: «l’operatore giudiziario è un agricoltore previdente, la cui falce deve estirpare il cattivo seme o uccidere la vipera; o è un chirurgo diligente che deve amputare il membro putrefatto per evitare l’infezione; piaghe nei campi ed epidemie nelle città saranno il risultato di qualsiasi transigenza nei confronti dei nemici dell’ordine virtuoso»[32].
Avendo chiare queste permanenze storiche, possiamo ora fare uno slittamento nel tempo. Durante il periodo di transizione dalla dittatura alla “democrazia” (1978-1988), con il passaggio dalla categoria di “nemico interno” a quella di “criminale comune” e con il potente ausilio dei media, si ottenne il pieno mantenimento della struttura di controllo sociale, con i suoi sempre più numerosi investimenti nella “lotta contro il crimine”. E, cosa ancor peggiore, con le campagne massicce di panico sociale, si permise un’avanzata senza precedenti del processo di interiorizzazione dell’autoritarismo. Possiamo affermare senza scrupoli che l’ideologia dello sterminio è molto più presente e radicata oggi, piuttosto che negli anni della dittatura. Gli “intervalli democratici” della storia di oggi svelano gli artifici del mantenimento di un ordine disuguale e gerarchico.
Spetta a noi, studiosi della questione criminale contemporanea, comprendere le nuove funzioni della prigione e del potere punitivo nel neoliberalismo, o capitalismo di barbarie. A questo proposito, Loic Wacquant evidenzia la centralità del paradigma nordamericano di incremento dello Stato Penale cui è correlata la dissolvenza dello Stato Previdenziale: la nuova gestione della miseria si attuerebbe nella criminalizzazione della povertà, nei discorsi e nelle pratiche[33]. L’egemonia di questo modello ha prodotto quello che Wacquant chiama un’“onda punitiva” che ha messo in moto un meccanismo di incarcerazione di massa mai visto prima nella storia dell’umanità.
L’incarceramento degli indesiderati (sempre i latino-americani, gli africani e gli asiatici, i poveri del mondo) porta ad una discussione più concettuale sulla formazione della nuova classe lavoratrice, “mcdonaldizzata”, flessibile, precaria, priva di reti collettive di protezione e, soprattutto, in eccesso. Insomma, la manodopera del mondo post-industriale, priva di auto-coscienza, è per questo motivo oggetto di un calcolo probabilistico da parte del potere egemonico ed è vista con disprezzo dalla sinistra punitiva, con i suoi preconcetti storici sul lumpenproletariat[34].
Sicuramente questo processo colossale di incarceramento, con i suoi relativi dispositivi, ha prodotto una nuova economia carceraria, un sistema di controllo sociale del tempo libero, che risulta lucrativo oggi non per l’appropriazione del lavoro dei detenuti, ma per la privatizzazione della sua amministrazione e per l’industria del controllo sociale del crimine: oggi, tra i più efficienti reclutatori di manodopera non-qualificata, ci sono i servizi di sicurezza. Il ruolo dei media è fondamentale per la costruzione di questi dispositivi, sia per la legittimazione moralizzante della criminalizzazione del conflitto sociale, sia per la vendita indecente del modello Guantanamo di detenzione carceraria. Il Brasile, in questo senso, è stato un laboratorio di esperimenti, per aver messo in pratica, nel quotidiano, l’ideologia della “massima sicurezza” e dei principi delle pene eccessive e dell’incomunicabilità.
In Brasile tutto questo subisce un’accelerazione a partire degli anni Ottanta, con l’entrata in vigore del modello neoliberale e i paradossi del momento di transizione dall’uscita dalla dittatura. L’ordinamento giuridico avanzato conviveva con le trappole dell’autoritarismo, come per la legge sui crimini gravi che, insieme al processo di criminalizzazione della povertà, ha creato una massa di carcerati senza alcuna prospettiva di uscita o di miglioramento. La politica criminale delle droghe imposta dagli Stati Uniti, così come la politica economica, è il maggiore vettore di criminalità selettiva delle periferie brasiliane: la prigione sembra essere il progetto principale per molti giovani del popolo[35].
È questa espansione del potere punitivo in ambito legale e l’acutizzazione di una conflittualità sociale a-politicizzata che hanno dato origine al deleterio sistema penale brasiliano. Nel 1994 il Brasile contava circa 110.000 carcerati, oggi sono più di 400.000. Solo nella città di São Paulo se ne contano 140.000, distribuiti in 144 penitenziari e ogni mese si registrano 700 nuovi carcerati solo nello Stato di São Paulo. Anche i sostenitori delle “ideologie ri-socializzanti” dovranno prendere atto di questa situazione ingestibile. Il modello Guantanamo delle supermax americane si allinea al modello Carandiru: carceri stipate di poveri, senza nessun accesso alla difesa, allontanati sempre più dai propri legami sociali e affettivi dalla nuova cultura punitiva dell’incarcerazione in vita.
La criminologia critica è stata una “diga utopica” contro le violenze dei cicli militari degli anni Settanta nell’America Latina[36]. La domanda che ci facciamo è questa: a cosa serve la criminologia in Brasile in questo momento storico di incarcerazione di massa? Dobbiamo servire da mantenimento dell’ordine del capitalismo di barbarie o come diga utopica contro quest’ordine?
Il dilemma della sociologia contemporanea si colloca all’interno di questa discussione. La criminologia avrebbe smesso di fornire un’alternativa concreta, oppure la soluzione sarebbe quella di non riprodurre i ragionamenti, i programmi e le tecnologie del governo sulla questione penale? Joel Rufino dos Santos, in un’intervista per la stampa, ha affermato che la critica secondo cui la “sinistra” non ha un progetto di sicurezza pubblica è errata. La sinistra, ovvero coloro che si identificano con il popolo brasiliano, deve difendere i poveri e i resistenti dai dolori e dalle privazioni di un potere punitivo che quanto più attualizza storicamente le sue idee, tanto più promuove ai margini della società sofferenza e dolore.
Vent’anni dopo Raúl Zaffaroni propone un replanteo epistemologico della criminologia a partire dal libro del professore neozelandese Wayne Morrison[37]. Il libro mette in luce il contributo delle scienze sociali al dibattito tra i penalisti dell’Europa e dell’America Latina sul “nemico” nel diritto penale[38]. A partire dalla piena comprensione della vittoria, a livello globale, del liberalismo disincantato, della modernità “democratica”, Zaffaroni e Morrison prendono in esame la criminologia “globale”, che non può omettere la discussione sul genocidio: dall’aggressore non-civilizzato di Hobbes alla coercizione sull’incivile aggressore di Kant.
Nella sintesi del libro di Morrison, di cui ora stiamo seguendo le tracce, Zaffaroni evidenzia l’importanza dell’11 settembre non per il numero delle vittime ma per l’invasione dello spazio civilizzato da parte del non-civilizzato, nuova fonte di timori per lo sviluppo del discorso penale. Il governo Bush ha approfondito, a partire dalle nuove paure, la simbiosi tra i discorsi politici sulla guerra e sul crimine. Egli fa notare come gli araldi che annunciavano la fine della storia trovassero eco nella criminologia, de-storicizzata e burocratizzata, pronta a dare efficienza e effettività al controllo sociale del capitalismo di barbarie. Nasce un nuovo significato, più emozionale, più “popolarizzato” e politicizzato, dovuto ad un nuovo rapporto con i mezzi di comunicazione.
La verità è che nasce in America Latina il fenomeno del “populismo punitivo”. Sozzo analizza come l’aumento quotidiano dei delitti comincia ad essere considerato in un altro modo: l’insicurezza urbana diventa «oggetto di scambio politico, di trattativa politica»[39]. Questa “elettorizzazione” dell’emergenza ha prodotto un mercato di scambi simbolici, di nuovi agenti e specialisti che creano nuovi significati per produrre consensi e controllo sui soggetti di fronte al fatto criminale. David Garland parla di una «criminologia dell’altro»[40], che costruisce frontiere solide tra noi e gli altri. Abbiamo già analizzato come in Brasile, e specificamente a Rio de Janeiro, la paura sia stata il filo conduttore che ha legittimato i lasciti di un’estetica schiavista[41]. Una delle caratteristiche del populismo punitivo sarebbe lo spegnersi di una riflessione criminologica accademica a favore della nascita di un nuovo specialista: la vittima. Se in Argentina compare un padre “vittima” sulla scena politica, con la possibilità di essere candidato alla Presidenza, in Brasile saranno i padri e le madri delle vittime (bianche, è ovvio) ad essere i protagonisti del dibattito criminologico e del cambiamento delle leggi penali verso un maggior “rigore”. Questa emotività è strategica per il processo di espansione del potere punitivo nel mondo contemporaneo.
Tornando al replanteo di Zaffaroni sulle tracce del neozelandese Morrison, si arriva a considerare la criminologia come un discorso estremamente parziale, «costruito intorno ad un mondo di fatti politicamente delimitato»[42]. Egli, riferendosi all’Australia, cita Dickens, senza prendere in considerazione i popoli che vivevano lì da 40.000 anni. Esseri che non contano.
La criminologia ha a che fare con queste caratteristiche selettive; Zaffaroni e Morrison dimostrano come il celebre statista belga Quetelet abbia costruito il concetto di uomo medio che andrebbe a spingere ai margini varie categorie di uomini. Il terzo capitolo del libro di Morrison porta il titolo emblematico di «Statistica criminale, sovranità e controllo sulla morte: da Quetelet ad Auschwitz». Si propone così l’allargamento del concetto di genocidio per includervi i crimini massivi di Stato, la cui esclusione giuridica avrebbe senso solo nella razionalizzazione perversa dello sterminio “di quelli che non contano”. Solamente nella città di Rio de Janeiro, negli ultimi dieci anni, sono stati uccisi più di 30.000 giovani. Ad ogni modo, la principale conclusione è che l’universo criminologico ha a che fare continuamente con una “parzializzazione arbitraria”, come «una scienza della realtà che resta indifferente a milioni di cadaveri»[43].
La spiegazione del perché non sia possibile per il diritto e per la criminologia prendere in esame il genocidio è da rintracciarsi nel loro stretto legame con l’imperialismo: basta contare i corpi della “democratizzazione” dell’Iraq. Le vittime europee ed americane sono vittime, gli iracheni e gli afgani sono “danni collaterali”. «Il genocidio non può entrare nella criminologia perché è perpetuato oggi dai poteri dominanti»[44]. Questo sarebbe il nodo metodologico nella criminologia: riconoscere la selettività arbitraria e “dare sepoltura definitivamente all’illusione di scienza”. Zaffaroni propone il passaggio dall’asepsi alla critica ideologica.
Zaffaroni presenta la criminologia tradizionale latino-americana come un sapere colonialista e razzista che costituisce la nostra “apartheid criminologica”. Possiamo pensare, dunque, se «è empiricamente verificato che nessun crimine di Stato è commesso senza provare o appoggiarsi ad un ideologia giustificante»[45], che lo sterminio in corso nel Brasile neoliberale trovi sostegno in una criminologia funzionalista e acritica, che pretende di riordinare e di rendere efficiente il controllo sociale letale legittimando l’espansione della barbarie che si traduce nell’incarcerazione e nell’annichilimento di migliaia di giovani brasiliani. Questo processo, che abbiamo analizzato come una “strage dei figli”, rivela la presenza di un numero sempre crescente di bambini e adolescenti nel ruolo dei due protagonisti delle statistiche criminali brasiliane: gli autori e le vittime. La tragicità della violenza quotidiana in Brasile appare nei due estremi della questione criminale: il problema è che le criminologie “politicamente corrette”, insieme al populismo punitivo, azioneranno il vecchio dispositivo positivista (oggi riciclato nelle neuroscienze) contro il settore reso più vulnerabile dall’economia di mercato, la clientela storica dei nostri sistemi penali. Possiamo affermare quindi che il problema della criminalità è oggi la trincea più importante nella lotta per i diritti umani.
E-mail:
[1] E.R. ZAFFARONI, Em busca das penas perdidas, Revan, Rio de Janeiro 1991, p. 13.
[2] D. RIBEIRO, O povo brasileiro: a formação e o sentido do Brasil, Companhias das Letras, São Paulo 1995.
[3] Robert Schwarz, studiando Machado de Assis, analizza il liberalismo in Brasile come “idee fuori luogo”.
[4] G. NEDER, Iluminismo jurídico-penal luso-brasileiro: obediência e submissão, Instituto Carioca de Criminologia/Freitas Bastos, Rio de Janeiro 2000.
[5] N. BATISTA, Os sistemas penais brasileiros, in V.R.P. ANDRADE (ed.), Verso e Reverso do Controle Penal: (Des) Aprisionando a Sociedade da Cultura Punitiva, vol. I, Fund. Boiteux, Florianópolis 2002.
[6] N. BATISTA, Matrizes ibéricas do sistema penal brasileiro, vol. I, Instituto Carioca de Criminologia/Freitas Bastos, Rio de Janeiro 2000.
[7] Cfr. G. NEDER, Iluminismo jurídico-penal luso-brasileiro: obediência e submissão, cit.
[8] Ivi, p. 182.
[9] N. BATISTA, Os sistemas penais brasileiros, cit., p. 149.
[10] G. NEDER, Cidade, identidade e exclusão social, in “Revista Tempo”, vol. 2, n. 3, Dep. de História-UFF/Relume Dumará, Rio de Janeiro 1997.
[11] S. CHALHOUB, What are noses for? Paternalism, social darwinism an race science in Machado de Assis, in “Journal of Latin American Cultural Studies”, vol. 10, n. 2, Carfax Publishing, Londra 2001, p. 172.
[12] R. SCHWARZ, op. cit., p. 19.
[13] H. BOCAYUVA, Erotismo à brasileira: o excesso sexual na obra de Gilberto Freyre, Garamond, Rio de Janeiro 2001.
[14] M.A. GONÇALVES, Ânimos temoratos: uma leitura dos medos sociais na corte no tempo das regências. Tese de mestrado em História, Universidade Federal Fluminense, Niterói 1995.
[15] É interessante notare come, quasi due secoli dopo, l’idea della paura come virtù sarà funzionale per altre strategie conservatrici. Il libro di Gavin Becker (Virtudes do medo: sinais de alerta que nos protegem da violência, Rocco, Rio de Janeiro 1999) considera la paura come un dono, parla di una scuola di prevenzione sviluppata da psicologi naturali, racconta la storia dell’«impressionante insight comportamentale» di un agente dell’FBI e dimostra come, per l’intelligenza della paura, «é meglio essere ricercati dalla polizia che non essere ricercati da nessuno».
[16] Cfr. N. BATISTA, E.R. ZAFFARONI, Direito Penal Brasileiro I, Revan, Rio de Janeiro 2003.
[17] Ibidem.
[18] G. NEDER, G. CERQUEIRA FILHO, Os filhos da lei, in “Revista Brasileira de Ciências Sociais”, vol. 16, n. 45, ANPOCS, São Paulo 2001, p. 113.
[19] Ivi, p. 124.
[20] Cfr. N. BATISTA, E.R. ZAFFARONI, Direito Penal Brasileiro I, cit.
[21] Cfr. M.L. KARAM, A esquerda punitiva, in “Revista Discursos Sediciosos – Crime, Direito e Sociedade”, anno 1, n. 1, 1996, Instituto Carioca de Criminologia/Relume Dumará, Rio de Janeiro 1996.
[22] N. BATISTA, E.R. ZAFFARONI, Direito Penal Brasileiro I, cit., p. 39.
[23] L’autrice fa un gioco di parole unendo la parola “cilada” (trappola) a “cidadania” (cittadinanza) [N.d.T.].
[24] N. BATISTA, Os sistemas penais brasileiros, cit., p. 152.
[25] Cfr. N. BATISTA, E.R. ZAFFARONI, Direito Penal Brasileiro I, cit., p. 41.
[26] G. NEDER, Cidade, identidade e exclusão social, cit.
[27] Designazione comune di danze afro-brasiliane spesso accompagnate da canti e strumenti a percussione.
[28] N. BATISTA, E.R. ZAFFARONI, Direito Penal Brasileiro I, cit., p. 42.
[29] Ivi, p. 53.
[30] N. BATISTA, Os sistemas penais brasileiros, cit., p. 13.
[31] N. BATISTA, E.R. ZAFFARONI, Direito Penal Brasileiro I, cit., p. 53.
[32] N. BATISTA, Matrizes Ibéricas do Sistema Penal Brasileiro – I, Instituto Carioca de Criminoligia/Revan, Rio de Janeiro 2002, p. 240.
[33] L. WACQUANT, Punir os Pobres: a nova gestão da miséria nos Estados Unidos, Instituto Carioca de Criminologia/Revan, Rio de Janeiro 2003.
[34] Su questo argomento è interessante confrontare la prefazione di Dario Melossi del libro di A. DE GIORGI, A miséria governada através do sistema penal, Instituto Carioca de Criminologia/Revan, Rio de Janeiro 2006.
[35] V. MALAGUTI BATISTA, Difíceis ganhos fáceis: drogas e juventude pobre no Rio de Janeiro, Instituto Carioca de Criminologia/Revan, Rio de Janeiro 20032.
[36] L’espressione “dique utópico” é di Marildo Menegat.
[37] E.R. ZAFFARONI, Un replanteo epistemológico en criminologia (a propósito del libro de Wayne Morrison), MIMEO, Buenos Aires 2007. (Cfr. W. MORRISON, Criminology, Civilization and the New World Order, Routledge-Cavendish, Oxon 2006.)
[38] E.R. ZAFFARONI, O Inimigo no Direito Penal, Revan, Rio de Janeiro 2007.
[39] M. SOZZO, Metamorfosis de la prisión? Populismo punitivo, proyecto normalizador y “prisión-depósito” en Argentina, MIMEO, Buenos Aires 2007.
[40] Sozzo cita l’edizione spagnola del libro di D. GARLAND, La cultura del control, Gedisa, Barcellona 2005.
[41] Cfr. V. MALAGUTI BATISTA, O medo na cidade do Rio de Janeiro: dois tempos de uma história, Revan, Rio de Janeiro 2003.
[42] E. R. ZAFFARONI, Un replanteo epistemológico en criminologia (a propósito del libro de Wayne Morrison), cit., p. 5.
[43] Ivi, p. 6.
[44] Ivi, p. 15.
[45] Ivi, p. 16.