L’esperienza coloniale, che ha così fortemente segnato anche la geografia politica dell’Asia orientale, sembra aver cristallizzato il concetto di “razza” in modo che può apparire sorprendente. Molte delle terminologie in uso oggi sono le stesse che venivano applicate dai colonialisti britannici del 1800, e mantengono dunque intatti quasi tutti i vari connotati discriminatori con cui gruppi di persone contraddistinti principalmente da una colorazione più o meno chiara della pelle sono descritti.
Paesi come la Malesia, per esempio, che da quando si sono liberati dell’amministrazione coloniale britannica fanno della retorica anti-imperialista una delle basi principali dell’identità nazionale, utilizzano la parola “razza” in svariati contesti, e con una scioltezza fuori dal comune in altre regioni. Senz’altro, quella malese è un’identità fragile, in un Paese che esiste in quanto tale solo da poche decadi, e che deve cercare di trovare uno sfondo unitario per una popolazione decisamente multietnica. La Malesia, stato indipendente dal 1963, descrive la sua popolazione di 23 milioni di abitanti come composta al 60% da “bumiputra”, parola che sta per “figli della terra” ed indica chi è considerato di “razza malese”, o malay. Un 30% circa è definito di “razza cinese”, mentre il restante appartiene alla “razza indiana”, con un 2% circa di “altri”. I tre gruppi, trovatisi a coabitare in seguito alle politiche spronate dall’Inghilterra ai tempi delle Colonie (dato che gli inglesi trovavano i malesi “poco inclini al lavoro salariato”, avevano incoraggiato lo spostamento verso la Malesia di cinesi ed indiani), vivono oggi largamente separati, in seguito a politiche che tendono a favorire la maggioranza. Questo per cercare di raddrizzare la bilancia, dopo che la maggioranza malay ha subito decenni di discriminazioni da parte del potere coloniale. Per essere malay, secondo la definizione legale malese di oggi, si devono soddisfare tre requisiti: essere musulmani; parlare bahasa Malaysia, la lingua nazionale, e “seguire le abitudini malay” – concetto, quest’ultimo, piuttosto vago, e che consente ad alcuni immigranti indonesiani, per esempio, o filippini, di diventare “malay”, impedendolo invece a persone di origine cinese o indiana. Non si tratta solo di una questione di definizioni: chi è classificato come “malay” riceve un trattamento preferenziale quando si tratta di acquistare terre o abitazioni, ha accesso all’educazione per sé o per i figli, e ad alcuni impieghi riservati a chi appartiene alla “razza” giusta. Va ricordato, inoltre, che la definizione di “malay” non è stata creata dalla nuova nazione malese indipendente, bensì dall’amministrazione britannica dei secoli passati.
L’anacronismo di alcune di queste politiche non cessa di stupire la stampa della regione: basti come esempio l’ampio spazio dato, pochi mesi fa, alla decisione del governo malese di imporre che le fotomodelle che lavorano nel paese abbiano “tratti malesi”, lanciando nel panico innumerevoli agenzie di pubblicità, e sollevando accuse di discriminazione. Toccando il mondo della moda, la cosa ha suscitato meno scalpore di quanto non avrebbe fatto in un altro settore, ma non di meno, la perplessità è stata unanime, seppure messa in fretta a tacere per non danneggiare le proprie possibilità commerciali. Per Kuala Lumpur, e per la coalizione al potere, chiamata Fronte Nazionale o Barisan, dove il principale partito è la United Malays National Organisation, mantenere i voti della maggioranza significa portare avanti politiche che favoriscano i “bumiputra”, e non dà mostra di alcun imbarazzo nel parlare, nel modo più ufficiale possibile, di “politica razziale” – intendendo con questo proprio la politica volta a proteggere politicamente i bisogni, veri o presunti, di determinati gruppi etnici, anche a scapito di altri. La Malesia è un caso su cui vale la pena soffermarsi data la particolarità di alcune sue caratteristiche, la complessità della sua storia recente e il modo in cui il governo del paese ha scelto di gestire la situazione, proponendo così un approccio estremo a una questione che, in Asia, viene affrontata con scarsa flessibilità. Ricordiamo infatti che in quasi nessuno dei paesi dell’Estremo Oriente è consentito ad un cittadino originario da un’altra nazione di essere naturalizzato: ovvero, non è possibile chiedere la nazionalità giapponese, o cinese, o malese, e qui, dove le leggi contro la discriminazione razziale scarseggiano, si resterà per sempre stranieri.
Per un paese come la Cina, ciò può tradursi in complessi tentativi di definire in che cosa consista l’essere cinesi, ritrovandosi a parlare con frequenza di quello che è il “sangue cinese”. Per ottenere la nazionalità cinese, infatti, bisogna provare di avere una “connessione di sangue” con la Cina, almeno parziale. Per esemplificare questo concetto, è utile ricordare dunque il caso di Mike Rowse, cittadino britannico fino al 2003, residente a Hong Kong, che si è visto conferire la nazionalità cinese grazie al fatto che i suoi due figli sono di madre cinese. La nazionalità è stata infatti concessa in virtù del fatto che il sangue del signor Rowse si sarebbe mescolato al sangue cinese della moglie nel corpo dei due figli, permettendogli di divenire cinese. Un caso che suscita perplessità, portato alla ribalta dal ritorno di Hong Kong sotto la sovranità cinese nel 1997 (dopo un secolo e mezzo di colonizzazione britannica). Di nuovo, si tratta di una questione nata dalle conseguenze della presenza europea coloniale in Asia, e che ha portato sotto Pechino una popolazione composta da immigranti dalla Cina ma anche dal resto dell’Asia e dall’Europa. A lungo, nel corso delle trattative con Londra per la restituzione alla Cina di Hong Kong, Pechino si era fra l’altro premurata che nessun profugo rimanesse nel paese, venendo meno al riconoscimento del valore del “sangue cinese” nel caso di quei profughi vietnamiti, o boat people, che erano approdati sulle coste di Hong Kong con dei certificati che provavano i loro legami di sangue con cinesi d’oltremare. Malgrado questa rigidità nei confronti di possibili nuovi venuti, la Cina si considera già uno stato “multietnico”, dopo aver suddiviso (in modo che molti considerano arbitrario) la popolazione che abita all’interno dei suoi confini in 56 gruppi etnici.
Quelli che vengono chiamati comunemente “cinesi” sono, in Cina, definiti come Han: un nome che deriva dalla dinastia Han (che ha regnato dal 200 a.C. al 220 d.C., per quanto con significative interruzioni), la prima ad aver unificato le zone a Nord ed a Sud del Fiume Giallo e dello Yangtze. Malgrado quest’origine, parlare di Han sperando di definire così un gruppo etnico o culturale unitario è non privo di enormi problemi. Con questo nome infatti si definiscono persone come i pechinesi e i cantonesi, diversi per tradizioni, riti funerari, cucina, lingua, religione … e una distanza di tre ore di volo fra un luogo e l’altro. La suddivisione in diverse etnìe però è stata fatta in tempi moderni seguendo le teorie sovietiche, ed oggi la vasta Cina, che sarebbe forse meglio definibile come una civiltà che non una nazione, ha deciso di presentarsi al mondo come paese per lo più unitario, ma diverso tanto dall’Occidente (concetto vago quanto non mai) che dal resto dell’Asia, che, come vedremo, dall’Africa. Ora che ai cinesi è consentito viaggiare liberamente, o quasi, nel proprio paese, ecco che i diversi gruppi etnici assorbiti dall’espansione centenaria dei confini cinesi sotto le varie dinastie imperiali, in particolare nelle regioni di frontiera, diventano uno dei principali punti di esotismo promossi dalle guide e agenzie turistiche. Nel boom del turismo interno a cui si assiste in questi anni, le zone “esotiche” della Cina sono fra le più gettonate, tanto dai viaggiatori che possono permetterselo che dall’editoria: il Tibet, prima di tutto, poi il Xinjiang (regione centro-asiatica, a maggioranza Uigura, una popolazione musulmana con molte affinità culturali con la Turchia, da cinquant’anni sotto controllo cinese), e le regioni confinanti con la Birmania, il Laos e il Vietnam – territori che vengono presentati come un ibrido fra il selvaggio e l’addomesticato, per viaggiatori intrepidi. In una qualunque libreria di Pechino, di Shanghai, o di Canton che sia, si resta colpiti dalla quantità di guide e libri sul Tibet che vengono sfornati oggi, e che corrispondono ad un fenomeno chiamato dalla stampa nazionale “febbre tibetana”, e che miete vittime soprattutto fra la gioventù urbana. La seconda meta preferita da chi è smanioso di avventure è il Xinjiang, con maggior prudenza, però, dato che anche in Cina l’Islam è visto con più sospetto di quanto non lo sia il buddismo. Prendiamo ad esempio una qualunque guida turistica al Xinjiang come il Manuale di viaggio per il Xinjiang – Il manuale indispensabile [1], edita dalla Sanlian, emblematica della visione che i cinesi hanno di queste terre. La copertina, tutta metallizzata, attira lo sguardo con alcune belle foto di paesaggi montani intoccati, una moschea ricoperta di piastrelle in ceramica, e una ragazzina molto bella, dal sorriso morbido e seducente, che veste l’abito nazionale uiguro. La guida piena di utili consigli pratici rispecchia il curioso, seppur zoppo progresso fatto negli ultimi dieci anni dai mezzi di comunicazione cinesi, che si tratti di televisione, di stampa, o anche di alcuni tipi di libri dove a un packaging moderno non corrisponde ancora molta libertà di contenuti. Così, anche le colorate, ammiccanti pagine della piccola guida non si allontanano mai dalla versione ufficiale di come vada visitato e letto il Xinjiang e portano alto lo stendardo dell’“unità fra le minzu” (“minoranze etniche”), sorta di formula magica applicata come uno scongiuro a tutte le situazioni di forte tensione etnica e politica. Le prime pagine sono riempite da schede descrittive dei vari gruppi etnici che il visitatore può incrociare in Xinjiang. Leggiamo:
“Popolo Uiguro: Vestiario: Gli uomini preferiscono indossare delle tuniche (chapan). Le donne indossano un tipo di giacca in stile cinese abbottonata sul davanti, e abiti colorati. Uomini e donne, senza distinzione di età, amano portare cappellini quadrati, chiamati ‘gaiba’. Cibo: Te col latte, pilaf, pasta fatta a mano, agnello arrostito. È proibito il maiale, la carne di cane, di mulo, e di cammello. Artigianato: Tappeti, tessuti di seta, ricamo, cappelli, teiere di rame, piccoli coltelli e strumenti musicali”. |
Una simile lista, altrettanto sterile e saccente, è poi offerta per i kazachi (che amano lo yogurt) e i tajiki (che indossano alti stivali), gli xibe (portati per le lingue), gli hui, i mongoli, e via dicendo, facendo rientrare tutti in piccole caselle ben definite, che condannano ad un esotismo senza appello. E che rendono ben evidente come il potere sia saldamente detenuto da chi descrive, e non da chi viene così sommariamente descritto.
Quello che è stato sottolineato da alcuni studiosi, in particolare dall’antropologo americano Dru C. Gladney [2], è come in questo tipo di definizioni schematiche sia data per scontata una relazione da superiore ad inferiore, dove gli Han (i “cinesi”), maggioritari, influenzano gli altri popoli, colorati, curiosi, eroticamente attraenti, ma non certo portatori di una cultura o di una civiltà più di tanto significative. Gladney nota come tanto il concetto di “94% di Han”, quanto quello secondo cui le minoranze etniche abbiano avuto solo un ruolo marginale nella storia cinese, siano del tutto fallaci. Non solo, questa classificazione rapida e politicamente motivata ignora di fatto il forte contributo dato alla cultura genericamente chiamata “cinese” da popolazioni divenute “minoranze etniche” solo una volta compiutasi l’invasione del loro territorio. L’esempio più clamoroso, naturalmente, è quello dei mongoli, che invasero la Cina governandola con la dinastia degli Yuan (1279—1368): per la storiografia cinese oggi, anche il noto condottiero Chingghis Khan (Genghis Khan) sarebbe stato un cinese, in virtù del fatto che suo nipote, Kubilai Khan, fu il fondatore di una dinastia cinese… [3] Ma anche volendo fare astrazione da questo, l’ideologia corrente sottolinea le differenze, e cerca con insistenza di sancire che i cinesi non siano proprio come tutti gli altri, ma una razza a parte fin da tempi antichi. Non si tratta solo di un attaccarsi ad una particolarità somatica o epidermica, ma di utilizzare questa presunta unicità cinese per rifiutare anche le pressioni della comunità internazionale rispetto ai diritti umani, per esempio, o alla desiderabilità di maggiore trasparenza e democrazia.
I concetti razziali, tema sempre scivoloso, non sono certo di facile spiegazione nemmeno in Cina, per quanto anche qui regni sovrana la questione del colore della pelle. Secondo un antico mito cinese sulla creazione dell’umanità, per esempio, l’intera razza umana sarebbe nata dalle mani di un mitologico ceramista. Questi prese dell’argilla, la modellò per farne un essere umano, ma sbagliò i tempi di cottura, lasciando la statuina troppo a lungo in forno. Si ritrovò così fra le mani una persona tutta nera e bruciacchiata. Insoddisfatto del risultato, che giudicò di brutto aspetto, il divino vasaio lo scagliò il più lontano possibile – e fu così che il primo uomo si ritrovò scaraventato in Africa. Poi il creatore ci riprovò, ma questa volta, con eccesso di prudenza, tolse troppo presto la sua opera dal forno. Ne venne dunque fuori un secondo ometto, questa volta troppo chiaro, quasi bianco, meno insoddisfacente ma ancora poco attraente. Così, anche questo secondo progenitore venne scagliato via, ma con meno rabbia, atterrando quindi più vicino, in Europa. Al terzo tentativo il mitologico ceramista stette ben attento ai tempi di cottura ideali. Ed ecco che ne saltò fuori un terzo esserino, d’un bel colore dorato splendente, che adagiò con dolcezza in Cina e da cui sarebbero discese tutte le popolazioni asiatiche. Un mito creatore che stabilisce tre ceppi razziali diversi per i popoli che abitano l’Africa, l’Europa e l’Asia e che, malgrado le origini chiaramente favolistiche della storia, è molto radicato nella mentalità di molti, tanto da apparire spesso impermeabile alle diverse ondate di amicizia internazionale con i paesi africani. La Cina, infatti, è il paese dove vi è il più grande numero di studiosi che continua a portare avanti ricerche che possano controbattere in modo conclusivo la teoria di un’evoluzione umana che vedrebbe l’alba di tutta la nostra stirpe in terra africana. Come è risaputo, la teoria che sembra essere ormai quasi unanimemente accettata fra antropologi e paleontologi determina un’origine africana dell’intera umanità, descritta cioè come un’evoluzione umana “Out of Africa”. Ovvero, evolutisi in homo erectus in Africa, i nostri antenati si sarebbero poi spostati ai quattro angoli del pianeta in diverse ondate migratorie, per cause ancora in gran parte sconosciute, adattandosi ai climi e alle circostanze incontrate in un modo che, attraverso varie decine di migliaia di anni, avrebbe portato all’attuale diversificazione somatica e cromatica dei vari tipi umani. Questa teoria viene a volte accompagnata da una seconda possibilità, che suscita però forti controversie date le sue implicazioni politicamente manipolabili, ovvero quella di un’evoluzione umana multiregionale, secondo la quale l’attuale diversificazione fisica fra i popoli sarebbe il frutto di evoluzioni genetiche parallele ma diverse, forme simili ma non perfettamente uguali di homo sapiens, che si sarebbero sviluppate nelle differenti parti del pianeta. Finora, dato che tutte le prove a nostra disposizione tendono a favorire la versione di un’umanità africana, la maggior parte della letteratura specializzata che presenta gli estremi della teoria multiregionale lo fa in modo quasi derisorio, per lo più apportando nuovi argomenti che ne riaffermano la fallacità. Non così fra gli scienziati in Cina, fra i quali si trovano invece accaniti sostenitori della teoria multiregionale, che non badano a spese per dimostrare come i cinesi siano davvero una “razza a parte”, con tutte le conseguenze culturaliste (e anche politiche) che ciò implicherebbe. E questo malgrado le grandi dichiarazioni di rispetto e amicizia formulate nei confronti dei paesi africani (e di tutti gli altri, si intende, ma il problema sembra essere più acuto dato che l’ipotesi è Out of Africa). A poco o nulla sono contate le clamorose smentite su riviste accademiche di prestigio: a ogni fossile, pezzo di mascella o scheggia di osso di caviglia che venga ritrovato nelle vastità cinesi, ecco che qualcuno cerca di dimostrare come si tratti sì di un pezzo di molare o un frammento di femore, ma diverso da quelli rinvenuti in Etiopia o in Algeria. Per quanto riguarda frammenti o crani di antenati già ben sviluppati e riconoscibili come “umani”, provare l’esistenza di reali differenze comporta difficoltà quasi insormontabili. Motivo per cui la ricerca cinese si è spostata ora nel campo ancor più misterioso degli antichi primati. Infatti, se i primi resti umani rinvenuti fissano la nostra comparsa sulla terra a non meno di 195.000 anni fa (stando alla nuova datazione apportata dagli ultimi fossili scoperti in Etiopia), i primati da cui discenderemmo tutti noi rimandano a più di 35 milioni di anni. Nel 2004, delle scoperte cinesi avrebbero spostato la comparsa di questi primati a 45 milioni di anni fa, con il ritrovamento di fossili di una specie che è stata chiamata “scimmia cinese dell’alba” (Eosimias sinensis), che non solo precede le specie di primati trovate in Egitto (l’Aegiptopithecus, di 33 milioni di anni fa, rinvenuto nei pressi di Fayum nel 1965) ma sarebbe coeva, e forse anche più anziana, dei primati algerini (Algeripithecus, risalenti a 45 milioni di anni fa). Da lì a dire che l’umanità si è sviluppata per linee parallele il passo, almeno per alcuni studiosi cinesi, sembra essere piuttosto breve.
Pur non volendo entrare qui in eccessivi dettagli, è bene sottolineare che si tratta di eventi che si perdono talmente nella notte dei tempi da rendere controverso perfino il postulato iniziale, ovvero che i resti ritrovati in Cina siano di primati riconoscibili, trattandosi solo di frammenti. Questo però non sarebbe nemmeno impossibile, considerando che anche in Birmania sono stati rinvenuti fossili di un potenziale primate, che secondo alcuni studiosi potrebbe essere non africano. Ed anzi, ribaltando la teoria di uno sviluppo umano “Out of Africa”, alcuni scienziati cercano di proporne uno “Out of Asia”, avallando dunque l’importanza dell’Eosimia cinese e birmana. Sarebbe stata lei, dicono, a recarsi dapprima in Africa, restandoci qualche milione di anni per poi ripartirne e popolare il mondo. Come a dire che, se proprio dovessimo essere tutti figli della stessa scimmia, che almeno questa non sia africana, ma un pochino cinese, o se non altro asiatica. Non vi è consenso, però, sul fatto che l’Eosimia sia un vero antropoide. Anzi, proprio questo punto è fonte di un’accesa disputa fra eminenti paleontologi: secondo un articolo comparso nel 2004 su “The New Scientist”, un gruppo di specialisti statunitensi è rimasto per diversi mesi impegnato con la scimmia birmana, stabilendo infine che gli antropoidi asiatici sarebbero arrivati nel continente circa 25 milioni di anni fa, che si tratta di “prosimians” e non primati pienamente sviluppati e che insomma l’albero evolutivo dell’intera razza umana – per quanto se ne può dire con certezza finora – continua ad avere le radici ben piantate in Africa. Non solo: la morfologia terrestre, all’epoca, prevedeva masse d’acqua tali da non permettere a queste scimmie o protoscimmie che fossero di avventurarsi dall’Asia all’Africa in epoche così remote. Ma nulla è risolto. Zheng Shaohua, di un gruppo di ricerca dell’Accademia delle Scienze Cinese, è ancora impegnato a studiare i resti dell’Uomo di Changyang, che secondo lui daterebbe a 200.000 anni fa, il che “sarebbe di grande significato per la teoria multiregionale”. Per lo meno per quel che riguarda gli umani, se non anche le scimmie, dato che la teoria parallela sullo sviluppo dell’umanità in ceppi diversi è più propensa ad accettare che ad essere “Out of Africa” siano stati non uomini fatti, ma primati avanzati. Secondo quanto annunciato nel 2005 dall’agenzia di stampa Nuova Cina, la Cina si è anche unita a un progetto paleontologico portato avanti da dieci nazioni, che prevede di stendere una mappa del DNA di 100.000 persone provenienti dall’intero pianeta, per poter determinare l’esistenza di un’origine comune. Secondo quanto dichiarato dal professor Li Hui, dell’Università Fudan di Shanghai, i risultati ottenuti fin adesso da campioni di DNA prelevati da diversi gruppi etnici cinesi «stabiliscono che gli antenati cinesi sono partiti circa 50.000 anni fa dalla regione nord-est del continente africano, hanno attraversato il Medio Oriente, l’Asia del Sud e il Sud Est asiatico e si sono insediati in Cina circa 30.000 anni fa». Un’affermazione fatta in modo perentorio, che sembrerebbe aver messo a tacere, una volta per tutte la controversia. La dichiarazione infatti proviene da un’istituzione molto prestigiosa e la notizia è stata diffusa dal principale organo di informazione del paese: il che potrebbe far pensare che il Dipartimento di Propaganda abbia deciso di accantonare la teoria multiregionale e accettare dei comuni antenati africani. Ciò malgrado, gli studi sui poveri resti dell’Eosimia continuano, tuttora sponsorizzati da fondi pubblici. Infine, il lancio Nuova Cina aggiunge un’ultima curiosità sulla faccenda delle nostre origini: «Gli antenati dei cinesi si sono poi evoluti, nel corso di migliaia di anni», dice infatti il comunicato, «in 56 gruppi etnici (ovvero, gli stessi voluti dalla classificazione e suddivisione fatta dal Partito Comunista sotto l’influenza delle teorie razziali di Lenin e Stalin). Gli ultimi a separarsi dal ceppo comune sono stati gli Han [gruppo cinese maggioritario secondo la suddivisione ufficiale] e i Tibetani, che sono dunque i più vicini per legami di sangue». Così, per quanto il principale organo di stampa ufficiale sembri voler dire che i cinesi debbano abituarsi all’idea di essere anche loro, come tutti, un po’ africani, fa in modo di assicurare che, se non altro, la scienza dà il suo consenso alla dominazione cinese dell’altipiano tibetano, dato che le differenze culturali, storiche e linguistiche o il sopruso politico e militare a poco varrebbero davanti ad una parentela così stretta.
Nulla della resistenza ad apprezzare la bellezza della pelle marrone o nera dunque è recente: la Cina è, come il Giappone, uno dei paesi in cui le principali case di cosmesi internazionali vendono fior di prodotti per avere la pelle più bianca, in modo “scientifico”, facendo ottimi affari. L’idea che la pelle chiara sia segno di raffinatezza, bellezza, classe e via dicendo è radicata nei canoni estetici nazionali e venne perfino adottata in tempi moderni da alcuni dei pensatori illuminati del periodo rivoluzionario. Kang Youwei, per esempio, uno dei più importanti riformisti politici dell’era moderna cinese (1858 – 1927), considerato uno dei primi difensori dei diritti delle donne, ma opposto al rivoluzionario Sun Yat-sen in quanto sfavorevole alla Repubblica, aveva proposto numerose riforme alla famiglia, che prevedevano una graduale abolizione della stessa. Nel frattempo, però, Kang, mosso da compassione nei confronti dei suoi simili di pelle scura, aveva ipotizzato che venissero date delle medaglie a chi, fra i popoli “bianchi” e “gialli” acconsentisse a sposare dei “neri”, dato che questo avrebbe portato ad un progressivo schiarimento generalizzato [4], con miglioramento della razza umana. Pur nel pregiudizio, il suo pensiero che la razza fosse, effettivamente, una ed umana, è raro a queste longitudini.
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[1] Xinjiang Luyou Shouce, Xianggang Zhongguo Luyou Chuban She, Hong Kong, 2000.
[2] D.C. GLADNEY (ed.), Making Majorities – Constituting the Nation in Japan, Korea, China, Malaysia, Fiji, Turkey, Stanford University Press, Stanford 1998.
[3] Un’illustrazione di ciò può essere vista al Mausoleo di Chingghis Khan, nella regione della Mongolia Interna dell’Ordos, vicino alla città di Ouerduosi. Vedere anche U.E. BULAG, in particolare The Mongols at China’s Edge – History and the Politics of National Unity, Rowan and Littlefield, Lanham 2002.
[4] Per questo e molti altri interessanti aneddoti sulla percezione razziale in Cina, cfr. F. DIKOTTER, The Discourse of Race in Modern China, Stanford University Press, Standford 1994.