I movimenti pacifisti sono molti e diversi tra di loro, e necessariamente devono esserlo anche i linguaggi che di volta in volta vengono usati dalle differenti realtà di questo mondo per diffondere i propri contenuti e sensibilizzare l’opinione pubblica. Il Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani è un’associazione che riunisce i Comuni, le Province e le Regioni impegnate in Italia a promuovere la pace, i diritti umani, la solidarietà e la cooperazione internazionale, e che proprio ad ottobre di quest’anno ha festeggiato i suoi vent’anni di vita. Possiamo partire da questa esperienza associativa per tentare di circoscrivere un tema di così ampio respiro. Già nel nome appare chiara una dichiarazione d’intenti: i termini “pace” e “diritti umani” sono legati l’uno all’altro e considerati parti di un’unica formula. Gli enti locali che aderiscono a quest’associazione vengono definiti “Città (o Provincia o Regione) per la pace”. Qual è il significato di questa definizione e che valenza può avere dichiarare, ad esempio, il proprio Comune “per la pace”? Come e perché si è scelto, vent’anni fa, di modificare il nome dell’associazione, sostituendo a “enti locali denuclearizzati” il termine “enti locali per la pace” e poi, nel 2002, “enti locali per la pace e i diritti umani”?
Dichiarare un ente locale, Comune, Provincia o Regione che sia, “ente locale per la pace” corrisponde alla decisione assunta dall’ente stesso di riconoscere la pace tra gli obiettivi da perseguire nella propria azione ordinaria. La dichiarazione è un atto formale che corrisponde, poi, all’assunzione di una serie di responsabilità. L’impegno per la pace, ovviamente, è da considerarsi in termini molto ampi: la pace, in questo contesto, viene considerata come un obiettivo e un valore da perseguire con l’impegno e il contributo del Comune, della Provincia o della Regione. Negli anni ’80 gli enti locali dichiaravano qualcosa di diverso e cioè che il proprio territorio intendeva dissociarsi dalla corsa al riarmo nucleare. In virtù delle responsabilità di salvaguardia e di promozione della salute dei propri cittadini, gli enti locali che si dichiaravano “denuclearizzati” decidevano che nel proprio territorio non si sarebbe mai potuta installare una base o una centrale nucleare. All’inizio degli anni ’90, nel ’91 in particolare, questi stessi enti hanno fatto un passo in avanti, allargando la propria agenda e definendo in maniera più specifica come proprio obiettivo la costruzione della pace. Nel 2002 l’impegno per la pace degli enti locali si è ulteriormente precisato con un cambiamento nel nome del nostro Coordinamento, che è appunto diventato “enti locali per la pace e i diritti umani”. In realtà i diritti umani erano già contenuti in quell’idea di pace che gli enti locali hanno cercato di promuovere negli ultimi dieci anni. La necessità di mettere in rilievo questo tema accanto a quello della pace, e non, invece, di ricomprenderlo al suo interno, è dovuto esclusivamente al bisogno di rendere più esplicita l’idea di pace che abbiamo: non semplicemente alternativa alla guerra o assenza di guerra, ma piena promozione e rispetto di tutti i diritti umani per tutti. I diritti umani sono l’elemento centrale, la pre-condizione necessaria per la pace: evidenziandolo in questo modo si è scelto di comunicare in maniera più esplicita l’idea di pace che vogliamo portare avanti.
Non crede che, puntando l’attenzione esclusivamente su un unico termine, appunto la “pace”, si rischi di ottenere l’effetto contrario, e cioè svuotare di significato il concetto stesso, far perdere di vista sfumature di senso, che possono e devono esserci e, alla fine, rendere superficiale ogni tipo di discorso sull’argomento?
Il termine pace è un termine molto complesso. In realtà ancora oggi molti hanno un’idea negativa della pace, sono incapaci di definire cosa questa sia e la concepiscono esclusivamente come immagine negativa della guerra, come contrario, assenza di guerra. In realtà la pace positiva che cerchiamo di promuovere è un concetto poliedrico, che non si può sezionare. La pace ha tante dimensioni che vanno tenute tutte presenti. Da questo punto di vista non c’è un modo per aggettivare la pace: bisogna soltanto farsene carico nella sua interezza.
Il meeting di ottobre aveva come sottotitolo “Le pace costruita dalle città dei diritti umani”. Lei ha molti anni di esperienza di relazioni e di lavoro con gli enti locali. Quale ruolo può svolgere un ente locale nel “costruire” la pace attraverso la promozione dei diritti umani? Come è possible unire il livello della politica locale, molto spesso nutrita di piccoli “fatti” che sembrano estranei ai temi più grandi di politica internazionale, al livello globale?
Il titolo di questo nostro meeting mette in luce ancora di più la nostra idea di pace, poiché al centro vi è la soggettività delle città, che divengono sempre di più attori protagonisti della costruzione della pace. La dizione “città dei diritti umani” sottintende proprio l’idea che le città hanno innanzitutto una responsabilità, che è cercare di promuovere i diritti umani al proprio interno. Le città dei diritti umani sono quelle che, assumendosi tale responsabilità, orientano l’azione politica alla promozione dei diritti umani: dal diritto alla casa, al lavoro, all’alimentazione, alla salute, al diritto alla sicurezza, all’istruzione, all’ambiente, alle pari opportunità, eccetera. La pace costruita dalle città dei diritti umani è il risultato possibile, l’obiettivo di tutte quelle città che cercano al proprio interno, dentro le proprie mura, di promuovere i diritti umani e che, allo stesso tempo, proprio perché consapevoli dell’unicità dello spazio-mondo nel quale ci troviamo a vivere, cercano di dare un contributo anche al di là dei confini del proprio territorio. In che modo si possono saldare queste due dimensioni? Certamente cercando di non isolare il tema della pace come una delle tante questioni, ma traducendolo nelle politiche di tutti i giorni, da quelle locali a quelle internazionali. Una saldatura costante aiuta sia lo sviluppo delle attività internazionali della città, sia una maggiore apertura dei problemi delle città a soluzioni che si possono trovare intervenendo solo nella dimensione internazionale.
I movimenti pacifisti hanno sempre esercitato una forte pressione sul mondo politico riguardo alle questioni di politica internazionale. L’impressione, però, è che vada crescendo la consapevolezza della necessità di assumere un ruolo non solo critico ma anche propositivo, veicolo cioè, allo stesso tempo, di proposte concrete e di una cultura politica diversa da quella oggi dominante in ambito internazionale. Come si riflette questa consapevolezza nelle forme di comunicazione e nei linguaggi usati?
Questo è un esercizio continuo. Io penso che, in generale, i “pacifisti” prestino ancora poca attenzione alla propria comunicazione e al proprio linguaggio. Perlopiù si preoccupano di esprimere i sentimenti, i valori, le preoccupazioni che hanno ma tutto ciò non fa comunicazione. Anzi, se si cerca di avvicinare le realtà sulle quali i movimenti si mobilitano con la percezione che poi l’opinione pubblica ha di queste stesse mobilitazioni, penso che si faccia davvero grande fatica a trovare degli spazi di sovrapposizione. Noi ci stiamo ponendo da alcuni anni il problema della comunicazione e cerchiamo innanzitutto di affrontare le barriere che oggi impediscono il collegamento tra coloro che si attivano per la pace, i protagonisti e gli attori principali, e la grande maggioranza dei cittadini, dell’opinione pubblica, che sicuramente percepisce gli stessi problemi, ma non ha gli strumenti per poter analizzare e stabilire come comportarsi di conseguenza. Per questo, forme di comunicazione e linguaggi tendono oggi, nel movimento per la pace, a seguire l’evoluzione della comunicazione e del linguaggio moderni. Si cerca di usare tutti i canali che la tecnologia mette a disposizione, riconoscendo un ruolo centrale a internet, alle radio, alla televisione. È evidente che volendo comunicare a tutti, in linea teorica alla totalità degli interlocutori – perché non ci rivolgiamo esclusivamente a quelli che la pensano come noi, ma abbiamo sempre la pretesa di convincere anche quelli che la pensano in maniera diversa – la cura dei linguaggi da usare è sempre estremamente importante, sia nelle fasi preparatorie, sia durante le iniziative stesse, in modo che la comunicazione, che poi i media trasmettono, possa essere il più possibile definita da noi e non re-interpretata casualmente o strumentalmente. La cura della selezione e dell’individuazione dei messaggi è ormai una parte fondamentale del nostro lavoro. Ad esempio, in occasione della manifestazione dello scorso 26 agosto, c’è stata una scelta molto chiara per quanto riguarda lo slogan da usare: “Forza Onu”. Si tratta di uno slogan che doveva comunicare la sintesi, il cuore di quella mobilitazione. In altri momenti si sarebbe scelto semplicemente di dire “Manifestazione nazionale per la pace in Medio Oriente”. In questo caso, invece, si è voluto andare diritti al messaggio e lo si è valorizzato in modo tale che tutti dovessero prenderne atto. Infatti, quello slogan è stato un grande successo dal punto di vista della comunicazione. Così come l’appello, rivolto ai partecipanti alla stessa manifestazione, di portare con sé, in quella giornata, un paio di scarpe in più, a simboleggiare una delle tante vittime della guerra di cui farsi carico. Questo è stato un altro strumento per segnalare la grande attenzione a tutte le vittime di quel conflitto e alla loro sofferenza.
È molto interessante la campagna che il Coordinamento degli Enti locali, insieme alla Tavola della Pace, sta conducendo per la promozione di un’informazione di qualità nel rispetto dei milioni di cittadini che pagano il canone Rai. Potrebbe illustrarci i dettagli di questa campagna e spiegare cosa significhi battersi per “un’informazione di pace”?
La campagna che stiamo facendo nei confronti dalla Rai, a partire dallo slogan “Io ho pagato il canone Rai. Voglio più…”, cioè più qualità, più informazione dal mondo, più attenzione alle persone, alla gente, ai popoli, nasce da alcuni anni di lavoro in comune con il Sindacato dei giornalisti della Rai e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana. Questo lavoro ci ha consentito di unire, per la prima volta in una vera e propria alleanza, la parte migliore del giornalismo italiano e la nostra azione per la pace. L’obiettivo di fondo è quello di un’informazione e di una comunicazione di pace, un lavoro di lunga lena e di lungo periodo. Nel breve periodo, però, ci siamo proposti alcuni obiettivi concreti estremamente importanti: l’apertura di una sede Rai in Africa, la conquista di nuovi spazi informativi all’interno dei palinsesti e delle trasmissioni della Rai, l’abolizione della pubblicità nella fascia pomeridiana dedicata ai programmi per bambini e l’apertura della sede Rai ai costruttori di pace. Soprattutto quest’ultimo punto è da sottolineare: proponiamo, infatti, di “aprire” lo strumento televisivo dando voce non soltanto ai cosiddetti “esperti della guerra” ma anche ai costruttori di pace, quelle persone che sono in grado di indicare strade concrete per affrontare costruttivamente e positivamente i grandi problemi ancora aperti.
Non le sembra che molto spesso i mass-media, nei confronti di temi d’attualità come può essere la recente guerra scoppiata in Libano, non forniscano un’informazione degna di questo nome ma soltanto un insieme di informazioni scollegate le une alle altre, che non riescono cioè a dare una vera descrizione di ciò che accade? Non crede che troppe volte si presenti un’interpretazione dei fatti senza passare per il momento analitico-descrittivo, necessario per capire quali sono le dinamiche in campo?
Io penso che la vicenda della guerra in Libano debba essere studiata meglio dal punto di vista dell’informazione che è arrivata nelle nostre case e del ruolo che hanno avuto il nostro servizio pubblico, i media del mondo arabo, altri media internazionali e anche la carta stampata, soprattutto nel nostro paese. Penso che, nell’insieme, ci siano luci ed ombre. Ci sono stati giornalisti che, proprio in virtù della loro competenza e esperienza, sono riusciti a trasmettere porzioni significative di verità e altri che, invece, hanno contribuito ad alimentare un clima di partecipazione alla guerra, tentando di produrre due schieramenti: la parte di chi sostiene gli israeliani e quella di chi sostiene la resistenza degli hezbollah libanesi. In questo senso non c’è semplicemente l’interpretazione dei fatti che viene anteposta alla descrizione della realtà, ma c’è proprio una negazione della realtà, una sorta di trasmissione assolutamente parziale della realtà. Vorrei anche ricordare che quest’estate il servizio pubblico non ha dedicato nemmeno una sola trasmissione speciale di prima serata alla situazione del Libano, mentre è continuata la normale programmazione estiva, che è come sempre una programmazione tesa al divertimento. Si è trattato di una scelta molto grave, che corrisponde ad una situazione assolutamente inaccettabile che va sanata. La responsabilità più grave sta però nel fatto che, raccontando alcuni di questi eventi, si rischia di spingere chi ascolta a diventare parte del conflitto in prima persona. Schierandoci gli uni contro gli altri, infatti, non facciamo altro che estendere il conflitto fino a portarlo dentro casa nostra: in questo modo, chi tende una mano alla comunità internazionale, e dunque anche a noi, non ha possibilità di ricevere nessun aiuto.
Intervista rilasciata l’11 ottobre 2006