È questo il momento in cui ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità. La protesta dei “laici” per la presenza del Papa all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Roma è una vergogna, un’umiliazione dell’intelligenza critica e della cultura europea.
Non è il caso di prendere in considerazione le banalità di Marcello Cini sulla necessità di contrastare le interferenze della lobby cattolica nella nostra vita pubblica o di Alberto Asor Rosa e di altri intellettuali sulla difesa dell’indipendenza dell’Università dalla presenza del Vaticano e della memoria di Galileo. Bisognerebbe mettersi sullo stesso piano e chiedersi come mai questi difensori della ricerca si agitano per la presenza del Papa quando tutti sanno quali generi di lobby imperversano la vita accademica.
Mi ha lasciato altrettanto l’amaro in bocca il significato che ha assunto la manifestazione di “solidarietà” al Papa promossa dal Cardinale Ruini, in cui ho percepito l’abisso fra una concezione “legionaria” della subordinazione allo stato maggiore delle gerarchie e un’intima adesione alla rilevanza etico-filosofica del messaggio di Cristo come apertura di un capitolo nuovo del rapporto fra umano e divino. Apertura che ha nel suo orizzonte ultimo il problema stesso della legge, non come “lettera” affidata all’autorità interpretativa del “direttorato rabbinico”, ma come incontro d’amore fra la Persona del Cristo e il suo interlocutore sofferente. La novità assoluta del Vangelo è quella di aprire all’esperienza dell’incontro fra Uomo e Dio (il figlio dell’Uomo è padrone anche del sabato, dice Gesù per legittimare il lavoro anche nel giorno festivo), andando oltre il rispetto “letterale” delle Scritture e del Vecchio Testamento.
Perché ridurre un mistero così grande alla misura di una manifestazione trionfalistica di un Cardinale che vuole solo ribadire una precettistica in cui scompare ogni autentica pietà per la sofferenza e gli errori degli uomini? Per dialogare con il mondo non si addice alla Chiesa l’aspetto di Chiesa trionfante, ma quello di Chiesa profetica e sofferente.
Doveva essere, inoltre, ben chiaro al Cardinale Ruini che un appello alla manifestazione di massa in piazza S. Pietro avrebbe significato consentire a esponenti politici di centro destra di tentare di appropriarsi strumentalmente della vicenda del Papa come un certificato di garanzia di obbedienza alle gerarchie ecclesiastiche in vista di prossime elezioni.
Chi ha a cuore la ricerca della verità profonda della condizione umana non può accettare nessuna strumentalizzazione politica: invece sia “i professori dissidenti”, sia il Cardinale Ruini e la curia romana hanno cercato a tutti i costi la prova di forza e la possibilità di cantare vittoria sull’altro. Non appellandosi alla “riflessione” ma alla folla dei manifestanti, ne hanno fatto una questione di “massa” d’urto e non di occasione per meditare sui grandi, drammatici problemi irrisolti del mondo contemporaneo.
La questione è più grave ed è necessario trattarla all’altezza del tema che essa pone: il rapporto fra sapere scientifico specialistico da un lato e fede, speranza e amore, dall’altro, nella riflessione sul destino dell’uomo e la nostra capacità di comprendere il mondo in cui viviamo.
Non è necessaria una grande memoria storica per essere consapevoli che la nostra civiltà europea è costitutivamente intrisa di messianesimo ebraico, di messaggio evangelico e di “secolarizzazione” filosofica: senza la Bibbia, il Vangelo, la tragedia greca e l’“invenzione” della filosofia come interrogazione sulle questioni ultime della vita noi non saremmo quello che siamo e la scienza non avrebbe potuto arrivare alle “scoperte” di questi decenni. La grande filosofia europea, Hegel, Marx, Husserl, Heidegger, non avrebbe “pensato” quello che ci hanno trasmesso se non avessero raccolto la grande domanda di senso che le religioni del Mediterraneo avevano già posto, se il grande mistero del rapporto fra sacro e profano, non avesse spinto la riflessione sulla precarietà delle cose, sulla morte e sul dolore al massimo livello di tensione fra esperienza della finitezza e domanda di infinito, di eterno incondizionato e immutabile.
Trovo perciò mediocri e incolti coloro che hanno stigmatizzato il Papa come oscurantista, medievale e perciò non legittimato a rivolgersi alla comunità universitaria.
A chi si chiede perché io, laico, marxista, vissuto nell’esperienza del movimento comunista, mi sento coinvolto nelle encicliche del Papa, la risposta è data da questa memoria storica. Bloch è un marxista che ha scritto un grande libro sul “principio di speranza”; Beniamjn si è chiesto se il Messia non sia la metafora della rivoluzione o se al contrario l’utopia rivoluzionaria non sia una prova del bisogno di un “dio a venire”; Gramsci ha scritto pagine sulle religioni che dovrebbero essere meditate da tutti; Luisa Muraro, che è una grande pensatrice e una teorica del pensiero femminile, ha scritto che le encicliche del Papa sono una sponda decisiva del pensiero laico del cambiamento; Julia Kristeva, atea, psicoanalista e autorevolissima studiosa di semeiotica, ha scritto qualche mese fa che il bisogno di credere è un cantiere aperto che sta a noi continuare a costruire.
E infatti sono convinto che se prendessimo sul serio il bisogno di credere pre-religioso, potremmo affrontare meglio, oggi, non solamente le derive integraliste delle religioni, ma anche molte impasse delle società secolarizzate. In particolare l’incapacità di queste ultime a istituire un’autorità, lasciando così spazio libero alla violenza da un lato e all’automatizzazione della specie dall’altro. Infatti come si può pretendere di imporre un’autorità cui nessuno crede, se si è annullata la problematica della fede, se non si incoraggiano le proprie «sublimazioni», come dice Freud? Anche l’autorità della giurisprudenza ha bisogno di un consenso generale intorno ai principi morali essenziali su cui fondarsi. Eppure manca proprio questo consenso alle nostre società multiculturali e composite; esse sono prive di fondamenti morali perché si mostrano incapaci di federare fedi eterogenee intorno ai soli «diritti dell’uomo», che sono sempre più avvertiti come «astratti» (Kristeva).
Io non sono un “ateo devoto”, sono uno che ha maturato la convinzione che la scienza e la “metafisica” della ragione illuministica non danno alcuna risposta alla domanda di senso e al bisogno di credere oltre l’orizzonte della terribile caducità, come diceva Pasolini.
E sono anche convinto che il progetto scientifico del progresso e dello sviluppo illimitato hanno fatto un clamoroso fallimento di fronte alle catastrofi ambientali, alla violenza quotidiana che si scatena nei rapporti più prossimi, alle guerre infinite, agli eccidi di massa, alle barbarie dell’iperconsumo e dei rifiuti ingestibili, all’indifferenza morale, all’egoismo di massa.
Il monopolio scientifico della verità è solo il frutto di una sfrenata volontà di potenza degli epigoni dell’assolutismo intollerante, che ha caratterizzato la storia occidentale ogni volta che si è pensato di governare il mondo in nome del primato scientifico-tecnologico: non è un caso che i terribili totalitarismi del secolo scorso hanno sempre sposato le tesi dello scientismo e del dominio assoluto della natura per assicurare ai popoli il benessere (il modernismo reazionario di Hitler intreccia la tecnica e il razzismo).
Certo la scienza non è il male e molte scoperte scientifiche hanno migliorato la nostra esistenza, ma un bilancio serio non può ignorare i danni enormi che sono derivati e derivano dagli scienziati che si arrogano il diritto di essere gli unici detentori della verità.
C’è un problema immenso davanti al futuro dell’Umanità e l’Occidente ne risponde direttamente: il rapporto fra fede, politica e apertura culturale. Non ci sono vie per la pace e la cooperazione fin quando una parte del mondo si pensa “superiore” all’altra. L’Occidente non può arrogarsi il diritto di omologare tutti gli abitanti del pianeta alle sue forme di razionalismo astratto e di cinismo disincantato.
La maggior parte del mondo vive dentro universi culturali fortemente imbevuti di elementi religiosi. Non abbiamo il diritto di giudicarli solo come fanatici arretrati e superstiziosi, ma abbiamo il dovere di incontrarli sul terreno del comune destino della specie umana. Sono convinto che l’apertura di un futuro meno apocalittico dipenda dalla capacità dell’intelligenza europea di capire che il terreno della “fede” è più profondamente radicato nella comune condizione degli uomini di tutte le razze e di tutte le forme di vita, di quanto non lo siano le procedure giuridiche.
Marcello Cini, Alberto Asor Rosa e gli altri firmatari degli appelli contro l’ingerenza vaticana dovrebbero porsi in termini più seri il problema del dialogo fra le civiltà, che non può non essere che un dialogo fra le diverse visioni del mondo e del senso della vita. Come vorrei che ricordassero che l’eredità del grande pensiero laico non è quello di negare la parola a chi dissente, ma al contrario di garantire il diritto di parola a chi esprime punti di vista diversi, anche estremi. Contestare l’invito del Papa all’Università rappresenta una faziosità cieca; convocare le masse popolari per “compensare” questo grave episodio di ottusità intellettuale, esprime fanatismo e spirito di rivalsa. Paradossalmente l’esibizionista ateo è simmetrico al devoto fanatico. Entrambi vietano alla mente umana di entrare in contatto con il mistero.
Ciò che dovrebbe accomunare tutti, nella giusta dialettica della differenza, è la consapevolezza che c’è una caduta gravissima di modelli educativi e di principi ideali e che, senza questi, l’intero mondo giovanile rischia di annegare nell’abulia e nel godimento effimero. L’arruolamento negli eserciti contrapposti è il contrario dell’educazione alla ricerca autonoma delle proprie idealità e del proprio progetto di vita.
Purtroppo il provincialismo e il settarismo identitario da cui siamo pervasi non lascia sperare che la cultura del confronto aperto prevalga sulla paura del “diverso”, perché in fondo temiamo che chi ci contrasta abbia più argomenti dei nostri. Il rifiuto di dare la parola all’Altro è sempre segno della nostra debolezza e della nostra scarsa fiducia nelle nostre ragioni.