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Il socialismo riformista e liberale di Filippo Turati

Maurizio Punzo
Articolo pubblicato nella sezione "Libertà e democrazia nella cultura politico-giuridica italiana tra ’700 e ’800"

Il merito storico di Turati, quello che gli assicurerà immortalità negli annali della democrazia italiana, sarà in effetti l’inserzione dei bisogni concreti, e delle pressioni quotidiane della classe operaia nel processo di sviluppo dello stato democratico-liberale, che appunto perciò prenderà la strada della legislazione sociale a tutela del lavoro, e la parallela educazione politica, e organizzazione sindacale e amministrativa, del proletariato, la cui forza elettorale e le cui capacità di fare conquiste economico-sociali aumenteranno, oltre ogni speranza di pionieri, nella misura in cui batterà la via turatiana (Valiani 1958, pp. 418-419).

Formulando nel 1958 questa affermazione, Leo Valiani andava controcorrente rispetto alla convinzione di molti altri storici, per i quali il riformismo di Turati rappresentava una rinuncia alla battaglia per l’emancipazione dei lavoratori e persino un vero e proprio tradimento della prospettiva socialista.
Per Giampiero Carocci, ad esempio, con l’appoggio socialista al governo Zanardelli si era chiusa «la stagione d’ora del riformismo italiano, l’epoca in cui si poté forse credere che avrebbe conseguito successi analoghi a quelli della socialdemocrazia tedesca» (Carocci 1971, p. 66).
E anche dopo la rivalutazione, da parte di Gaetano Arfé, del ruolo svolto da Turati nell’ambito del movimento socialista e della storia d’Italia, e dopo la smentita, da parte di Brunello Vigezzi, della subalternità di Turati nei confronti di Giolitti (Vigezzi 1976 e 1981), ancora nel 1987 Renato Monteleone accusava Turati di essere sempre stato «a rimorchio dell'iniziativa del governo» (Monteleone 1987, p. 356).
Molti altri studi, impossibili da ricordare qui, hanno chiaramente dimostrato che la volontà di Turati di porre la difesa delle libertà statutarie al primo posto nel programma socialista era pienamente coerente con la politica dei partiti socialisti europei, che non avrebbero potuto conseguire alcun risultato positivo in favore dei lavoratori se non avessero conquistato prima di tutto il rispetto dei fondamentali diritti civili. Del resto, già Carlo Rosselli, in un appassionato saggio scritto subito dopo la morte di Turati, aveva messo in risalto la «funzione liberale» del suo marxismo (Rosselli 1932, p. 15).
Certo, al contrario di altri esponenti socialisti, tra cui proprio Rosselli (cfr. Rosselli 1945), Turati era sempre rifuggito dalla tentazione di redigere un testo di natura «teorica», nel quale enunciare la sua concezione del socialismo. La ricostruzione del suo pensiero deve quindi basarsi sulla lettura di molteplici fonti, tra cui, naturalmente, la “Critica Sociale”, la rivista da lui fondata con Anna Kuliscioff nel gennaio 1891. La “Critica” fu sempre espressione del pensiero di entrambi, i quali, attraverso un dialogo continuo, ben documentato dalla loro corrispondenza (Carteggio 1977), riuscivano quasi sempre, pur partendo a volte da posizioni differenti, a trovare un’intesa che si traduceva immediatamente nell’indicare ai socialisti la via da seguire.
Turati e la Kuliscioff chiarirono fin dal primo numero della loro rivista che l’analisi critica e non i preconcetti e i pregiudizi di partito, sarebbe stata «uno dei capisaldi del programma nostro» e che a dettare gli argomenti da trattare sarebbero stati «i fatti», attentamente esaminati (**** 1891, pp. 22-23). Solo rispettando questa regola sarebbe state fornite indicazioni concrete all’azione del Partito socialista. Lo stesso Antonio Labriola, maestro indiscusso della dottrina marxista in Italia, nel primo fascicolo della «Critica Sociale», risorta dopo la forzata interruzione del maggio 1898, sosteneva che non era quello il momento di dare spazio alle discussioni sulle dottrine né di «lasciare soverchio spazio alle definizioni», poiché l’ora presente imponeva «degli obblighi positivi». «L’essenziale - aggiungeva - oggi è nello studio dell’attualità nell’indirizzo politico, nel da fare» (Labriola 1898-1899, pp. 145-147).
Quel «da fare» presupponeva l’esistenza di un regime di libertà che consentisse ai socialisti e alle organizzazioni sindacali di poter esplicare la propria azione, superando le restrizioni imposte dai governi reazionari di fine secolo.
Del resto già lo Statuto dal Partito socialista, redatto in larga misura proprio da Turati nel 1892, al momento della sua fondazione, dichiarava che «l’azione del proletariato organizzato in partito di classe, indipendente da tutti gli altri partiti» si sarebbe esplicata sotto il doppio aspetto

della lotta di mestieri per i miglioramenti immediati della vita operaia (orari, salari, regolamenti di fabbrica ecc.), lotta devoluta alle Camere del lavoro ed alle altre Associazioni di arti e mestieri» e «di una lotta più ampia intesa a conquistare i poteri pubblici (Stato, Comuni, Amministrazioni pubbliche ecc.) per trasformarli da strumento che oggi sono di oppressione e di sfruttamento, in uno strumento per l’espropriazione economica e politica della classe dominante (Lotta di Classe 1892).

Se la decisione di agire all’interno del sistema liberale disegnato dallo Statuto, facendo ricorso alle elezioni, oltre che alla propaganda e all’organizzazione, era per il momento implicita, divenne poi del tutto esplicita quando le libertà statutarie furono conculcate dai governi reazionari di Crispi, Rudinì e Pelloux. «La difesa della libertà - scriveva la «Critica Sociale» nel novembre 1894 per giustificare l’adesione dei socialisti alla Lega per la difesa della libertà insieme ai repubblicani e ai radicali - non fa parte di un determinato programma, né massimo né minimo; piuttosto è la condizione della lotta dei programmi, e quindi di ogni nostra vittoria» (La Critica Sociale 1894, pp. 322-324).
Negli anni successivi molto si discusse, nei Congressi e sui giornali socialisti, intorno alla relazione che doveva stabilirsi tra il programma minimo, per la cui realizzazione il partito doveva impegnarsi nell’immediato futuro, e il suo programma massimo ossia il socialismo. La discussione si concluse nel settembre 1900 al Congresso di Roma, durante il quale, confermata l’alleanza con i «partiti affini», fu stabilito che l’unica politica autenticamente socialista era la politica delle riforme. Nella relazione, scritta con Claudio Treves e Carlo Sambucco (cfr. Turati, Treves, Sambucco 1900), Turati specificava che non era opportuno stabilire un lungo elenco di riforme da attuare, dato che l’azione socialista non poteva prescindere «dalle condizioni di ambiente». Era dunque sostanzialmente d’accordo con Salvemini, che nell’aprile 1898 aveva sostenuto la necessità di formulare un unico programma pratico di riforme socialiste, oggetto di una continua trasformazione e di un continuo aggiornamento. Il carattere socialista del programma non poteva consistere in nessuna di esse in particolare, ma solo nella loro concatenazione. Il socialismo, in definitiva, era essenzialmente «un metodo riformatore» (Un Trevet 1898, pp.117-119).
Ai sedicenti rivoluzionari, che si ostinavano a negare il necessario gradualismo dell’azione socialista Turati e la Kuliscioff apponevano la loro idea di rivoluzione (t. k. 1900, pp. 1-4):

Per noi la rivoluzione viene dalle cose. L'attendiamo, e le viviamo in mezzo. Ogni scuola che si apre, ogni mente che si snebbia, ogni spina dorsale che si drizza, ogni abuso incancrenito che si sradica, ogni elevamento del tenore di vita dei miseri, ogni legge protettiva del lavoro, se tutto ciò è coordinato ad un fine ben chiaro e cosciente di trasformazione sociale, è un atomo di rivoluzione che si aggiunge alla massa. Verrà un giorno che i fiocchi di neve formeranno valanga. Aumentare queste forze latenti, lavorarvi ogni giorno, è fare opera quotidiana di rivoluzione, assai più che sbraitare su pei tetti la immancabile rivoluzione che non si decide a scoppiare.

L’anno seguente Turati (Turati 1901, pp. 209-214), dopo aver dichiarato che l’appoggio socialista al governo Zanardelli non doveva dipendere tanto dalle singole riforme proposte, quanto dal carattere liberale della sua azione complessiva, affermava che la trasformazione sociale a cui i socialisti aspiravano non poteva «farsi né per decreti dall'alto, né per impeti subitanei dal basso», ma presupponeva

tutta una lenta e graduale trasformazione, anzitutto dell'ossatura industriale (e questa è in via di farsi da sé, e poco e nulla vi può l'azione individuale e dei partiti), poi, e coerentemente, una trasformazione e un elevamento, non meno lenti e graduali, del pensiero, delle abitudini, delle capacità delle stesse masse proletarie. Questo elevamento non avviene per rivelazione mistica o per trasfusione precettuale; bensì coll'esercizio, che crea le forze, e colle riforme, che o rendono l'esercizio possibile, o ne fissano i risultati e le conquiste in istituti legali.

Ponendo sullo stesso piano, e in intima relazione tra di loro, esercizio e riforme Turati sosteneva che l’insostituibile attività dei deputati socialisti in favore delle riforme non doveva essere disgiunta dall’«organizzazione economica» del proletariato, e che la «graduale conquista dei pubblici poteri» non si sarebbe operata «col personale insediarsi di alcuni socialisti in cariche determinate, ma colla crescente pressione degli interessi proletari sulla politica generale dello Stato». E, ribadiva Turati,

perché l'azione quotidiana del Partito socialista possa svilupparsi su questi due schemi, e influire sulle grandi masse del proletariato moderno e, di rimbalzo, sulla legislazione dello Stato, l'esperienza insegnò essere condizione imprescindibile l'uso, da parte delle masse, dei diritti politici elementari: le libertà fondamentali (riunione, associazione, coalizione, stampa, propaganda) e il diritto di voto.

La libertà, quindi, era il presupposto imprescindibile per le riforme e per il coinvolgimento diretto dei lavoratori organizzati nel cammino della loro emancipazione.
All’azione parlamentare, che conseguì presto importanti risultati, come la legge del 1903 a tutela delle donne e dei fanciulli, si doveva affiancare quella amministrativa. Il «socialismo municipale», a cui la “Critica Sociale” dedicava una grande attenzione, era considerato un tassello importante della trasformazione socialista della società. Non a caso Turati partecipò assiduamente per vent’anni ai lavori del Consiglio comunale di Milano, città da lui considerata un «faro nazionale» per il socialismo italiano. Nel 1910, in occasioni delle elezioni comunali milanesi, scrisse che il «Comune popolare» amministrato dai socialisti sarebbe stato il «preludio, sia pure lontano, della futura città socialista nello Stato socialista». E così concludeva: «La politica delle cose, la politica dell'interesse di tutti, prenderà il disopra sulla astiosa e gretta politica dei Gruppi e delle fazioni» (Turati 1910, pp. 134-137).
La «politica delle cose», che avrebbe ispirato l’azione delle grandi Amministrazioni socialiste, guidate a Milano da Emilio Caldara e a Bologna da Francesco Zanardi, consisteva nel seguire una linea pragmatica, senza però dimenticare l’obiettivo che si intendeva raggiungere. Appare evidente il nesso tra questa politica e il revisionismo teorizzato da Eduard Bernstein, anche se è difficile rintracciare negli scritti di Turati un’adesione esplicita a quelle teorie. Ma nel 1907 la “Critica Sociale” riportò un ampio stralcio del saggio di Ivanoe Bonomi, Le vie nuove del socialismo (Bonomi 1907a), ispirato da Bernstein, scrivendo: «E veramente il libro del Bonomi è “l’esame di coscienza”, il più profondo e il più coraggioso che ci sia avvenuto di leggere, del socialismo contemporaneo» (Bonomi 1907b, pp. 340-342).
Turati non condivideva però la proposta di Bonomi di trasformare il Partito socialista italiano, sulla falsariga del Labour Party britannico, in un Partito del lavoro, espressione politica del movimento sindacale, dal momento che considerava irrinunciabile la netta separazione dei compiti tra partito e sindacato.
Convinto assertore della centralità del Parlamento, Turati, che rimase ininterrottamente alla Camera dal 1906 fino alla secessione dell’Aventino (escluso naturalmente il periodo trascorso in carcere tra il 1898 e il 1899), difese strenuamente l’autonomia del Gruppo parlamentare socialista anche dalle intromissioni provenienti dalla direzione del partito, soprattutto quando questa era in mano ai rivoluzionari.
La sua fu sempre una presenza attiva, sia nelle sedute dell’Aula sia in quelle degli Uffici. Considerato da tutti come il vero leader del suo gruppo, mantenne costantemente vivo il dialogo con gli altri gruppi parlamentari e con i governi, persino con quelli verso cui l’opposizione era più netta.
Turati è stato spesso rimproverato di essersi dedicato eccessivamente a questioni secondarie, smarrendo il senso della battaglia per le «grandi riforme», ma per lui, in realtà, non esistevano grandi e piccole riforme, dal momento che ogni riforma costituiva un miglioramento della condizione di vita dei lavoratori. Era inoltre convinto che la difesa degli interessi degli impiegati pubblici, soprattutto dei postelegrafonici, per cui si batté strenuamente (Melis 1980), sarebbe servita anche a contribuire alla democratizzazione dell’apparato dello stato, coinvolgendo i lavoratori nei processi decisionali.
Era quasi sempre a Turati che il suo Gruppo si rivolgeva nei momenti cruciali. Spettò infatti a lui illustrare, il 19 giugno 1913, le proposte dei socialisti per affrontare le gravi condizioni dell’Italia alla fine della guerra di Libia (Turati 1913, pp. 1276-1293). A suo giudizio, per fronteggiare la crescente disoccupazione operaia e contadina, dovuta soprattutto alle spese di guerra, non sarebbe bastato ricorrere al vecchio e abusato sistema dei lavori pubblici, ma bisognava risolvere il problema «impellente, assorbente, pregiudiziale» della produzione, inserendo i necessari lavori pubblici in un piano organico, che assicurasse il coordinamento delle singole opere. Sarebbe stato inoltre necessario realizzare al più presto l’elettrificazione dell’Italia, una scelta fondamentale per lo sviluppo di un paese povero di carbone. Il socialismo, precisava poi Turati, era favorevole allo sviluppo delle industrie e contrario alle imprese antieconomiche: «e tali sono oggi ancora in gran parte le imprese industriale compiute dallo Stato». Dunque, poiché era ancora lontano il giorno in cui sarebbe finalmente sorto lo stato industriale, in cui, come aveva previsto Marx, al governo degli uomini si sarebbe sostituito quello delle cose, i socialisti riconoscevano «perfettamente la funzione, ancor oggi, di un capitalismo audace ed illuminato».
Quattro anni dopo, nel maggio 1917, incaricato espressamente dalla Direzione del partito, dal Gruppo parlamentare e dal Comitato direttivo della Confederazione del lavoro, Turati aveva redatto un programma (Turati 1917) in cui, oltre a esprimere l’auspicio per una pace ispirata alle richieste dello «storico Convegno di Zimmarwald», proponeva che tutti gli stati impegnati nel conflitto adottassero la forma di governo repubblicana, con una sola Camera eletta a suffragio universale di entrambi i sessi mediante lo scrutinio di lista e il sistema proporzionale; delegassero la politica estera ai rispettivi parlamenti; assicurassero lo sviluppo delle autonomie comunali e regionali, il decentramento regionale delle attribuzioni amministrative e i relativi controlli; riformassero la burocrazia e affidassero la giustizia, gratuita, a giudici elettivi. Relativamente all’Italia Turati riprendeva in larga misura le proposte del 1913:

Politica di lavoro, intesa a mettere in valore le forze e le ricchezza latenti del Paese; a riparare prontamente l’immiserimento e la devastazione, conseguenze della guerra; a scemare, senza coercizione di sorta quella emorragia migratoria di massa, che è l’effetto forzato della disperata miseria; bonifiche, nazionalizzazione e sapiente utilizzazione delle forze idriche e delle ricchezze del sottosuolo, da affidarsene preferibilmente lo sfruttamento agli Enti pubblici locali; trasformazione agricola e industriale, la mercé di Consorzi obbligatorii, col contributo dello Stato, dei proprietari e degli Enti locali interessati, affidando le opera ad associazioni di lavoratori.

Proponeva poi la difesa dei consumatori; il riconoscimento effettivo a tutti i lavoratori «del diritto a una esistenza dignitosa ed umana», che presupponeva l’instaurazione di un sistema generale di assicurazioni; la trasformazione della beneficienza in assistenza sociale e di altre analoghe misure; lo sviluppo della cooperazione e dell’istruzione; il minimo di salario e l’eguaglianza delle retribuzioni tra uomini e donne; il «largo riconoscimento dell’azione e dell’intervento delle organizzazioni proletarie in tutto ciò che riguarda la tutela del lavoro ed il contratto di lavoro»; la soluzione del problema agrario, con l’avviamento alla socializzazione della terra, la formazione di un vasto demanio collettivo e l’affidamento delle terre solamente ai coltivatori che si sarebbero dovuti obbligatoriamente associare; un «sistema tributario fondato essenzialmente sulla imposta diretta e progressiva, con accertamento integrale ed esatto». Tra le altre proposte figurava pure l’«estensione dei monopoli di Stato, sia a scopo di sfruttamento industriale nell’interesse collettivo, sia come mezzo di controllo dei grandi servizi di trasporto, comunicazioni ed approvvigionamento».
Se nel 1913 e anche successivamente i riformisti, pur essendo ormai in minoranza, potevano continuare, pur tra mille difficoltà, a dettare la linea del partito, approfittando dell’incapacità della maggioranza rivoluzionaria di formulare programmi concreti da proporre al Parlamento e al paese, la Rivoluzione russa d’Ottobre mutava radicalmente la situazione.
Nel discorso alla Camera del 23 febbraio 1918 in cui, tra l’altro, esclamò: «Grappa è la nostra patria» (Turati 1918, pp. 1548-1558) Turati, oltre ad affermare che patriottismo e internazionalismo non erano incompatibili, mostrava di aver compreso che, alla fine della guerra, per cambiare l’Italia mediante una vasta politica di riforme sarebbe stato necessario coinvolgere un ampio arco di forze politiche, lasciandosi alle spalle l’ormai superata contrapposizione tra neutralisti e interventisti. I rivoluzionari, chiamati ora massimalisti, erano di tutt’altro avviso e infatti il piano di riforme presentato da Turati nell’ottobre 1918 al Congresso socialista di Roma non venne assolutamente preso in considerazione da un partito che, ormai sedotto dall’idea di «fare come la Russia», al successivo Congresso di Bologna del novembre 1919 decise di indicare come proprio modello quello dei Soviet e di aderire alla Terza Internazionale.
Turati, rimasto praticamente da solo nel sostenere la partecipazione socialista alla Commissione per il dopoguerra promossa dal Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, attraversò allora il momento di maggiore isolamento nel suo partito. Fu quindi a titolo personale che il 26 giugno 1920 pronunciò il discorso noto come Rifare l’Italia (Turati 1920, pp. 1737-1776).
L’occasione era quella della presentazione del programma del quinto governo Giolitti, appena succeduto a Nitti, a cui Turati aveva inutilmente cercato di far ottenere il sostegno dei deputati socialisti. Era stata la Kuliscioff a convincerlo a prendere l’iniziativa di «un discorso di grande portata politica» (Kuliscioff a Turati 27 maggio 1920, p. 538), e l’aveva poi aiutato a raccogliere molti dati utili a sostegno delle sue proposte.
Proposte che costituivano, come dichiarò Turati stesso, lo sviluppo di quelle formulate nel discorso del 19 giugno 1913. Ma poiché la situazione italiana del 1920 era ben più drammatica rispetto a sette anni prima, Turati ora intendeva illustrare alla Camera un vero e proprio programma di governo, dettagliato e articolato, capace di risollevare le sorti del paese, al contrario di quello, del tutto inadeguato, illustrato da Giolitti.
Secondo Turati, Giolitti proponeva «un gradualismo pre-bellico, impari alle esigenze del momento, in ritardo di sei anni sul quadrante della storia». Neppure lo convincevano le proposte più innovative, come quella della nominatività dei titoli e del resto - ricordava maliziosamente - già in passato Giolitti aveva sottoposto al Parlamento un disegno di legge di riforma fiscale con l’intento di farselo bocciare dalla Camera e riuscire così ad «andarsene».
Erano dunque altri gli interlocutori a cui si rivolgeva: da un lato i socialisti, dall’altro la parte più moderna della borghesia. Non che si illudesse di poter riprendere, almeno per il momento, il controllo del suo partito. Confidava però di poter convincere i massimalisti a moderare la propria intransigenza e a riconoscere che non esisteva alcuna alternativa alla collaborazione tra il Partito socialista e la borghesia più illuminata per attuare un programma di riforme, l’unico possibile «anche in un periodo rivoluzionario, di crisi di regime: di regime politico, di regime sociale».
Si trattava, innanzi tutto, di abbandonare l’approccio prevalentemente finanziario, con cui Giolitti si illudeva di far fronte al gigantesco debito pubblico, per accettare «il solo rimedio» possibile: «trasformare l’economia, non la finanza del Paese».
Bisognava perciò realizzare davvero l’industrializzazione dell’Italia tramite una profonda revisione dei rapporti tra le classi sociali. Prima di tutto si doveva riconoscere ai lavoratori un ruolo diverso dal passato: un «nuovo statuto dei lavoratori» che li rendesse «partecipi nella gestione, nella direzione, nel controllo della produzione nazionale».
La realizzazione di questo «programma della nazione», ben più impegnativo di «un programma semplicemente di governo», richiedeva il coordinamento, da parte di uno stato che, «borghese o socialista poco importa», si sarebbe dovuto attrezzare per questo nuovo compito. Si sarebbero dovuti unificare i ministeri interessati, per creare un unico Ministero dell’economia nazionale, e riconoscere il ruolo indispensabile degli enti locali nella gestione delle risorse idriche e di tutte le altre questioni, ad esse connesse, riguardanti il governo dei loro territori.
Affrontando in modo organico i problemi nazionali avrebbe potuto avviarsi anche la soluzione dell’annosa questione meridionale. Turati, profondamente convinto che ogni progresso civile fosse «opera di un attacco al diritto di proprietà», riteneva che soprattutto per il Mezzogiorno si dovesse «mandar via i proprietari» e «chiamare al loro posto i lavoratori organizzati, i soli il cui interesse sociale coincide esattamente coll’interesse collettivo del paese». Per raggiungere questo obiettivo non proponeva un modello astratto, ma indicava come esempio da seguire quello delle affittanze collettive, diffuse da tempo in area padana per opera degli organizzatori socialisti. Se infatti in prospettiva la terra sarebbe stata di proprietà dello stato, che l’avrebbe data in concessione ai lavoratori organizzati, per il momento ci si sarebbe potuti accontentare della costituzione di consorzi, in cui fossero rappresentati gli interessi del capitale dello stato e dei lavoratori.
L’ammodernamento dell’Italia richiedeva non solo che agricoltura e industria fossero legati in un progetto complessivo, ma anche che si rinunciasse a tutte le industrie «artificiali, quindi false, antieconomiche, borsistiche, parassitarie», a partire dalla siderurgia, «la cosa più balorda che si possa immaginare!» in un paese che doveva importare dall’estero sia il carbone sia il ferro. Per sostituire il carbone si doveva ricorrere all’energia elettrica, creando «un’unica grande rete elettrica italiana» che poteva essere realizzata solo con l’intervento dello stato, indispensabile per «unificare gli interessi, evitare la svalutazione della valuta derivante dalla esportazione di denaro, e imporre la concimazione delle terre, la quale dovrebbe essere obbligatoria com’è obbligatoria l’istruzione, che è la concimazione dei cervelli». Tutto ciò richiedeva «un vero piano regolatore dello Stato» decentrato regionalmente.
Per attuare questo «programma dell’avvenire» non occorreva «essere socialisti», poiché a conclusioni simili erano in linea di massima arrivati anche alcuni esponenti della borghesia, come i relatori di quella Commissione per il dopoguerra, a cui i socialisti non avevano voluto partecipare.
Turati, in conclusione, citava «due uomini che hanno veduto queste cose». Il primo era Walter Ratenhau (Rathenau 1919), convinto che avrebbe trionfato solo quel popolo che primo avrebbe soppresso l’antagonismo fra l’operaio ed il capitale. Il secondo era Cavour, un «socialista presocialista», che aveva dato prova di «spirito profetico su tutti i problemi, e su quello in particolare delle ferrovie, in rapporto col commercio, con l’industria, coi problemi morali, con la risoluzione di tutte le grandi questioni italiane, veramente da sbalordire» (Cavour 1846). È passato quasi un secolo, ma Cavour è più che nostro contemporaneo. Orbene, quello che nel 1847 era il vapore, nel 1920 è l’elettricità. C’è un parallelismo perfetto.
Il lunghissimo discorso terminava quindi con un invito alla speranza:

Ho detto, frammentariamente, affrettatamente, le ragioni e aspirazioni pratiche del socialismo. Ma in esse è anche la salvezza del paese. Inizierete voi quest’opera? O la inizieremo noi? Una cosa mi pare indubitabile: l’evoluzione civile non può muoversi che per queste via. Checché avvenga, la classe lavoratrice non sarà sorda al duplice appello della giustizia e della civiltà!

Come ricordava Enrico Decleva (cfr. Decleva 1991), Turati aveva perfettamente capito che se il proletariato non si fosse assunto l’onere della ricostruzione del paese, qualcun altro lo avrebbe fatto, ma contro di lui. Era pertanto essenziale, perché il programma di Turati avesse qualche possibilità di successo, che i socialisti lo facessero proprio.
Questo purtroppo non avvenne, e quando i riformisti, dopo la scissione dell’ottobre 1922 che dette vita al Partito socialista unitario guidato da Giacomo Matteotti, furono finalmente liberi di provare a realizzare un’intesa con le forze politiche liberali e democratiche, era ormai troppo tardi per sbarrare la strada al fascismo.
Turati, che aveva precocemente messo in guardia dalle conseguenze negative che sarebbero derivate dalle violenze, non solo verbali, da parte dei massimalisti durante il cosiddetto biennio rosso, condannò con estrema decisione anche l’acquiescenza dei partiti costituzionali di fronte allo squadrismo e ai provvedimenti liberticidi del governo Mussolini, a cui si oppose fin dall’inizio con fermezza.
Di fronte al fascismo la difesa intransigente delle libertà costituzionali tornava nuovamente, come ai tempi della reazione di fine secolo, ad essere la priorità assoluta dell’azione politica di Turati. Nell’opporsi ad «ogni più sfrenata violazione della legge e di quella legge delle leggi che è lo Statuto: il patto giurato fra popolo e sovrano, meglio, fra popolo sovrano e capo del potere esecutivo» (Turati 1925), Turati indicava come terreno d’intesa tra tutte le forze antifasciste la coalizione dell’Aventino, che prendeva quel nome proprio da una frase da lui pronunciata il 27 giugno 1924 all’assemblea del Comitato delle opposizioni per commemorare Giacomo Matteotti, assassinato dai fascisti il 10 giugno (Turati 1924a, pp. 196-198):

Noi parliamo in quest’aula parlamentare, mentre non vi è più un Parlamento. I soli eletti stanno sull’Aventino delle loro coscienze, donde nessun adescamento li rimuoverà, finché il sole della libertà non risorga e l’imperio della legge non sia restituito, e la rappresentanza del popolo cessi di essere la beffa atroce a cui l’hanno ridotta.

Turati non ignorava i limiti di una strategia politica sostanzialmente attendista, ma intravedeva comunque nell’alleanza dei partiti antifascisti l’unica autentica possibilità di ripristinare un regime di libertà. A questo fine, guardando al di là delle tradizionali alleanze dei socialisti e superando la diffidenza che aveva a lungo tenuto lontani socialisti e cattolici, proponeva ai popolari un’intesa non effimera, da costruire sulla base dei valori condivisi da entrambi i partiti:

Sarebbe ingiusto negare al fascismo questo merito insigne: esso ha avvicinati milioni di cuori e di intelligenze che si ignoravano e si credevano nemiche, ha disigillato milioni di pupille, ha spezzato la durezza delle formule intransigenti e settarie e ha rivelato anche ai più refrattarii che, di fronte al ritorno alla barbarie, e sinché l’educazione politica e morale in Italia – massime nei ceti dirigenti – non sia molto più sviluppata, vi sarà un terreno comune non soltanto di difesa, ma anche di azione costruttiva, fra tutte le energie di redenzione democratica veramente sincere e che siano fedeli a se stesse. [...]. Noi potremo dunque fare del cammino assieme, senza perdere né le nostre caratteristiche fisionomiche né le nostre peculiari impronte... digitali. Se, almeno, non avremo al nostro canto dei pusilli o dei traditori (Turati 1924b, p. 133).

L’appello alla collaborazione tra socialisti e cattolici cadde nel vuoto. Forse era stato formulato troppo tardi per poter superare improvvisamente decenni di diffidenza reciproca, ma in effetti la prospettiva indicata in quell’intervista andava al di là della questione, pur fondamentale in quel momento, di costruire un fronte comune contro il fascismo e il «dialogo con i cattolici» divenne poi un impegno concreto per i socialisti dell’Italia repubblicana.
Turati, preso atto dell’inattualità della nascita di quella «socialdemocrazia popolare e unitaria», contro cui si era scagliato il Direttorio del Partito nazionale fascista (Silvestri 1946, pp. 179-180), continuò comunque la sua battaglia contro la dittatura che stava stringendo il paese in una morsa sempre più stretta. Quando in Italia si chiuse ogni spiraglio di libertà, prese la via dell’esilio, dove fu tra gli animatori della Concentrazione antifascista e tra i protagonisti della riunificazione socialista. Fece risuonare, fino all’ultimo, anche nei consessi internazionali, la voce dell’Italia libera, ricordando a tutti che la libertà è continuamente messa in discussione dai suoi nemici e deve quindi essere difesa ogni giorno.


Bibliografia

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