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Un sublime pre-testo. Redenzione del significante e logos della musica

PIERANGELO SEQUERI
Articolo pubblicato nella sezione Rappresentazioni del tempo.

1. La nostra sembra, culturalmente parlando, l’epoca di una coscienza tenuta in vita dall’esegesi della morte di tutto ciò che una volta svolgeva di per sé il compito di tenere in vita nonostante la morte. Nella contemporaneità, questa figurazione assume i contorni della fine del trascendentale, non solo della sostanza. Fine dello spirituale-universale moderno, non solo di quello medievale.
La spinta più potente e insieme persuasiva alla generazione di teorie sugli oggetti classicamente sovra-contingenti – estetici, etici, religiosi – sembra venire dalla meditazione della loro morte. La meditatio mortis li tiene in vita nella filosofia, o forse proprio come filosofia. Il passivo della naturale de-composizione è in qualche modo riscattato (è la verità tragica del gioco serio di Nietzsche) dalla consapevole attività della de-costruzione, che ci restituisce l’iniziativa. “Morte di dio”, “morte del soggetto”, “morte dell’arte”. Nella cosiddetta post-contemporanità, il nome post-obitum che ci siamo già dati, la costatazione ha ceduto il passo ad una più morbida osservazione del decorso – cautela o pietas che sia. Declino del sacro, superamento della metafisica, terminalità della storia. Se mai si tiene in vita un qualche movimento “progressivo” esso va in certo modo dissimulato (è diventato comunque “volgare” enfatizzarlo) attraverso una doverosa “regressione” all’originario (il mito genealogico è una necessità etica, nell’assenza di un metodo della destinazione). L’assecondamento di una eventuale progressione, in ogni caso, va condotto al modo dell’Angelo di Klee interpretato da Benjamin: verso il futuro ci si muove di spalle, con lo sguardo rivolto alle macerie che il curioso movimento retrogrado lascia davanti a sé.
La teo-logia, intesa qui nel suo senso radicalmente centrato sull’oggetto, ha incominciato da tempo, a suo modo, a fare i conti con il motivo della “morte di dio”. Più incerta mi appare, secondo la mia visione, nei confronti della “morte del soggetto” (anche se il grumo di addensamento dei suoi risvolti eticamente sensibili incombe, annunciando la necessità di una più ampia ricognizione del tema antropologico, o umanistico che sia). Decisamente a-tona – dal punto di vista del pensiero, in termini di analisi critica e di teoria corrispondente – la vedo nei confronti della costellazione di motivi che allestiscono la provocazione della “morte dell’arte”. (Mi permetto di inserire qui una rapidissima annotazione che esplicita, per quanto ellitticamente, il senso e limiti di questo contributo, per la cui ospitalità ringrazio con molto apprezzamento. Nel nostro paese è al momento quasi impossibile trovare, nell’ambito della mia disciplina, interlocutori attrezzati e disponibili per il tipo di ricerca e di discussione all’altezza esatta della problematica estetico-filosofica del fatto musicale nella sua interezza. Esperienza tanto più imbarazzante, se si tiene conto del fatto che, nel panorama della letteratura internazionale, ricco di produzione molto interessante soprattutto sul versante estetico-analitico, la qualità propriamente storico-filosofica della nostra ricerca ha conquistato una originalità affatto degna di rispetto. In ogni modo, ma anche a motivo di questa virtuale ampiezza di recezione pertinente, la mia offerta di elementi di riflessione, ha in vista la possibilità di evidenziare, sintomaticamente, l’interesse reciproco di una “contaminazione” dei motivi di riflessione filosofico-musicale con la la storia estetico-teologica del musicale. Ovviamente, per una più articolata giustificazione dei termini di questa impostazione, devo rimandare alle pubblicazioni nelle quali l’ho più formalmente abbozzata ed esemplificata – Sequeri 200; 2006; 2005).
L’arte – la musica “per natura” e “per vocazione” (Wackenroder) era stata, nella lunga e non-finita transizione romantica, il nome di una religione veramente universale, e sostitutiva di quella dei dogmi e del culto. L’odierno élan religioso di ricomposizione della religione e dell’arte, che non ha in alcun modo indagato a fondo le ragioni e i modi di quella costellazione, ne pratica ora il linguaggio “spirituale”, senza poterne trarre pensiero e pratiche, a motivo della incomprensione della ambiguità del concetto di “rivelazione” che esso nasconde.

2. L’ambivalenza religiosa di Wagner – in definitiva la più scoperta, e in questo senso la più semplice da inquadrare – è stata messa a nudo da Nietzsche, in primo luogo, e brillantemente anticipata dalla straordinaria intuizione di Kierkegaard a riguardo di Mozart, ossia del punto esatto in cui essa consegue la perfezione del suo dispositivo di simulazione/dissimulazione. Eppure, sia detto per ora allusivamente e solo en passant, proprio la musica di Mozart e di Wagner è superiore - con logos di vettore simmetricamente opposto - al dispositivo di quella riduzione all’ambivalenza, escogitata dal pensiero.
L’implacabile “giustezza” della “spontaneità” mozartiana dice di un logos – intrinsecamente musicale, dato che, lo hanno notato persino i teologi, è irriducibile alla opposizione pensabile dello spirituale e del sensibile – che sporge sistemicamente dal materiale musicale disponibile (nel senso adorniano ben illuminato da Sara Zurletti), e nel quale nuota nondimeno come nella sua acqua. Non c’è innovazione di “codice” del significante, in Mozart, e nondimeno, non sono i “contenuti” del significato che fanno la sua differenza. Del resto, per il “riscatto” che lo spirito musicale mozartiano annuncia ed esegue, l’assimilazione di un senso religioso disponibile (quale che sia) non esiste semplicemente in natura: neppure nel senso di una “seconda natura” storicizzata, e neanche nella cultura contestuale (teologica o laica). Analogamente, il dispositivo della implacabile “costruttività” dell’innovativo “espressionismo” wagneriano dice di un logos musicale che guarda al suo passato, e alla sua acquisita naturalezza espressiva, proprio come a qualcosa che non basta più a se stesso. Proprio come denuncia il contestuale ricorso alla contaminazione del “mito”, con ambizione rigenerativa, proprio nel passaggio dell’epoca che al mito teogonico e cosmogonico dell’origine non crede più.
L’epoca si domanda ormai se veramente ci sia amore – eros o agape, purchessia – nella genesi della totalità. L’epoca cercherà di supplirvi insediando nel luogo dell’amore, che unisce, guarisce, sconfigge la tragica scissione (infraterrena) dei due regni in cui la storia va in stallo, l’auto-nomia della potenza: che non ha bisogno di “giustificarsi”, se non per le ragioni della propaganda e della psicologia delle masse, in un logos dell’origine e della destinazione (Nietzsche). Eppure, proprio qui e di nuovo, il logos musicale che mette scopertamente in scena la metodica sovrapposizione del puntiglio ordinatore e della pulsione contraddittoria, attesta una enigmatica volontà di confessione e di sacrificio, che è antifrastica nei confronti della volontà di dissimulazione apparente e di godimento reale che annuncia l’etica religiosa del capitalismo borghese. (E il suo manierismo wagneriano).
D’altro canto, siamo ormai – filosoficamente, per così dire – nella condizione di una compiuta storicizzazione dell’anti-romantico, con il suo portato di sperimentazione “redentiva” della musica (e della società, per suo tramite). Non direi in virtù del fatto che questa storicizzazione viene qualificata dall’intenzionale riferimento ad una coscienza più teoricamente attrezzata e consapevole del suo logos, rispetto a quella romantica (Adorno). Né basta, di per sé, l’assalto al “sistema tonale” per darle un originale fondamento teorico (essendo, dopo tutto, l’assalto al “sistema totale” ben saldamente impiantato nella filosofia romantica e post-hegeliana, che ne ha pure sperimentato in vivo la sanguinosa poissibilità aporetica: il senso di impotenza del “dopo Auschwitz”, alla fine, vale per entrambe).
Come che sia, l’antifrasi avanguardistica della romantica religione dell’arte rimane corposamente marcata dal debito – e dal vincolo – con il suo oggetto polemico (e ultimamente nostalgico). Il “concilio di Darmstadt”, alla metà esatta del “secolo breve”, quando ormai era tutto successo, ha assunto e mantenuto a lungo il ruolo di icona della “nuova ortodossia” della trasgressione, eticamente legittimata. In che senso, spiegare – e soprattutto intendere – questa funzione emblematica, il cui portato simbolico conserva un effetto di soglia per l’istituzione “filosofica” della contemporaneità musicale, senza il quale tutto si fa enormemente più complicato, è permanentemente in discussione. Non solo legittimamente, credo, ma anche doverosamente. L’aporia di una musica che non si fa ascoltare, né in senso formalistico (alla Hanslick) né in senso associativo (l’orecchio immaginativo della comunità l’ha assimilata, inconsciamente, come musica-da-film: effettismo, più che espressionismo) è diventata essa stessa un tema di riflessione sulla possibilità della musica. E nondimeno, il raggrumarsi dell’antifrasi intorno alla volontà di rompere la vecchia alleanza fra il significante musicale e un sistema-mondo sentito come esaurito, incalzato da un desiderio di palingenesi e di utopia, rimane un buon pretesto per ragionare sul senso etico, e non puramente estetico, delle possibilità di innovare il codice. In alternativa, appunto, si profila non meno che la notarile certificazione della morte dell’arte. Conserva perciò un qualche senso, persino l’impulso imitativo – sub contraria specie – della romantica religione dell’arte. Il tratto monastico, per incominciare, che organizza in liturgia collettiva l’individuale isolamento dell’artista romantico; il contemptus mundi, che trae da una coltivata ascesi del risentimento, che serve devotamente la musica, la forza per resistere alla mistica del sentimento, che omologa la musica della quale la cultura borghese si serve.
La vagheggiata “redenzione” del significante musicale, sacramento del rischiaramento sociale affidato all’arte più affine all’interiorizzazione del senso, vuole stare, qui, in ogni modo, dalla parte del logos, non della devozione. Il gesto, infine, è quello hegeliano. La religione dell’arte, come l’arte religiosa, può morire senza danno per lo spirito, dato che il logos è ormai in grado di ereditare tutto quello che serve allo “spirito” per “significare” se stesso. Il “pericolo”, iscritto in questa rivelazione di “salvezza”, dovrà essere identico.

3. La “redenzione del significante”, alla quale abbiamo alluso nel nostro assunto, non è in ogni modo la questione della riabilitazione di una sua specifica “sacramentalità” (o “sacralità”) – magari apofatica, negativa, critica – della semantica trascendente, spirituale, sovrasensibile del logos musicale. E neppure, a fortiori direi, il tema di una perorazione a favore di una più ingegnosa ed efficiente “ricomposizione” sociale della dignità formale, del codice linguistico, delle regole sintattiche, delle valenze estetiche, in cui l’arte musicale rappresenta se stessa. Temi invero che, portati fuori dagli equivoci storici dell’arte sacra e della religione dell’arte, come anche da quelli delle dispute logicistiche sulla semanticità e asemanticità del musicale, hanno certamente più di una ragione di interesse per essere indagati e svolti. Ma qui vorrei insistere più essenzialmente sulla questione della musique d’abord, ossia del suo modo di essere, anzitutto, e specificamente nella nostra cultura, la singolare celebrazione simbolica della vitalità sintattica del significante come qualità relazionale. Del significante tout-court, intendo. Non semplicemente come parola, gesto, rappresentazione (la costellazione essenziale del semantico). Del fatto che esista, ed esista come essere vivente, affettivamente intonato, sintatticamente lussureggiante, l’essere-significante.
La musica riflessiva coglie per prima questa strana cesura non scientifica fra significante e significato: una metà del mondo, sempre cangiante, che è capace di rendere attraente, desiderabile, sempre nuova da scoprire, un’altra metà del mondo che aspetta di lasciarsene frequentare e sfogliare. Separazione fatta per relazionarsi, anzi organo di possibilità della relazione, che non si esaurisce in nessuna delle sue frequentazioni. Indicibile in tutti i linguaggi che frequenta e in cui si incorpora, irriducibile al sistema delle loro frequentazioni e delle loro incorporazioni. Della loro prossimità vive, ma della loro distanza non muore. Anzi.
Il musicale, arte e techne – è la mia ipotesi – si ritaglia, in presa diretta con il fluire della vita come durata-del-significante, l’orlo sonoricamente apprezzabile della qualità intenzionale-relazionale del semantico, lavorandone l’autonoma distanza dal significato e restituendone il senso. Il semantico “vive” della sua qualità relazionale rivolta al significato, però non si consuma in essa, ed è ad essa irriducibile. (Il tono di voce della parola, il ritmo del gesto, la sintassi dell’immaginazione). Il limite della metafora linguistica, nel quale si impigliano le discussioni sulla semanticità e a-semanticità del musicale, ritengo, appare così definitivamente chiaro. La musica ha a che fare col linguaggio, ma non è essenzialmente un linguaggio. Il senso della musica è il festeggiamento della qualità del significante liberato dal linguaggio, e dotato di una vitalità e di un senso sintatticamente irriducibile a strumento o autocostituzione del significato. La musica non lo nomina neppure, non lo gestisce, non lo rappresenta in alcun modo. Lo fa semplicemente sentire. (La musica, tramite la notazione, è l’unica parte “viva” del significante passato, che possiamo in certo modo “rivivere” in movimento e in presa diretta).
La musica sperimenta e sviluppa, in proprio, l’esercizio di una sintassi della risonanza di tutte le possibilità di sintassi delle relazioni significanti, risolvendole in relazioni interne alla qualità sonorica del significante. In questo senso, l’idea della musica come “linguaggio delle emozioni” è, ai miei occhi, di una trivialità insopportabile. La sua capacità di azzerare, nel naturalismo di un immediato pulsionale, estraneo alla riflessività, l’intera storia della musica, mi appare responsabile della nostra odierna incapacità di comprendere il significato di una civiltà musicale del pensiero.
In ogni modo, ci possiamo chiedere se non sia forse a partire di qui, ossia da questa individuazione dell’autonomia – simbolica-affettiva, ma non formalistica o emozionale – del musicale, che possono essere rivisitate anche le questioni della “funzione redentiva” del musicale, nella dimensione culturale e sociale del significare? Nell’odierna lamentata afasia, o impasse, è la musica che non non ha (più) niente da “dire”, o è il dire stesso che non è (più) “niente”? La “svolta linguistica”, intesa come definitivo congedo della “cosa in sé”, che ha come compenso una più debole, ma praticabile “costruzione della realtà”, non ha come contropartita il diffondersi di una malinconica radiazione di fondo sulla meraviglia del significante, che strangola nel paradosso dell’impossibile autoreferenzialità di un super-linguaggio che censisce tutti i linguaggi che non nominano se stessi? Il musicale non è questo, perché non è un linguaggio. E non è neppure un super-linguaggio, perché il significante non lo è: in ciò sta la forza vitale del suo nomos e la debolezza semantica del suo logos. Non svolgo di più, sulla formalizzazione dell’ipotesi e sull’esplorazione di queste implicazioni, lasciandole al piacere della discussione. Desidero tuttavia, nella speranza di evidenziare ulteriormente l’interesse metodologico, oltre che analitico, che attribuisco alla interrogazione della storia musicale (e filosofica) della nostra tradizione da questo punto di vista, aggiungere un’esemplificazione di questo approccio, per visualizzarne le potenzialità anche ermeneutiche, per così dire.
L’idea è che il motivo della “redenzione del significante”, nel senso emancipativo, ma non ingenuamente progressivo o eurocentrico, che abbiamo indicato, abbia appunto anche una sua storia riconoscibile nel pensiero e nel lavoro della musica. La mia personale convinzione è appunto che questo approccio aggiunga uno specifico motivo di interesse anche per una possibile storia del pensiero musicale, nella sua differenza dalla semplice recensione del pensiero sulla musica, come anche dalla forzata simulazione filosofica del suo proprium sonorico.

4. Il riferimento è ad Agostino d’Ippona. Riferimento più che convenzionale e omologato, me ne rendo conto. La mia sottolineatura, comunque, è questa. Agostino, com’è noto, vive per un periodo non esiguo in una sorta di sintesi fra platonismo e cristianesimo. Essa rappresenta un punto di equilibrio, in rapporto alla frequentazione gnostica in cui Agostino è stato corposamente coinvolto. E precede la rottura dell’equilibrio neoplatonico fra mente e volontà, fra anima corpo, che consegue alla folgorazione della lettura paolina di Romani 7.
Nell’ultimo capitolo del suo incompiuto De Musica, che appartiene al periodo neoplatonico di transizione, Agostino parla del ritmo-suono (numerus), come di un motus e di un logos dell’anima che mettono in comunicazione l’anima con la dimensione spirituale e le anime fra loro, mediante la vibrazione dei corpi sensibili: è così che deve essere, perché sono «sensibili i segni con cui le anime… influiscono sulle anime» (DM, 258). In conclusione, poi, al momento di stabilire un ordine – una gerarchia – della perfezione qualitativa dell’armonia del significante musicale, Agostino non indica come compiuta saturazione della sua bellezza (e del suo senso) l’armonia del cosmo, i cori degli angeli, la lode delle pure anime, bensì la condizione sensibile-spirituale della musica dei corpi risorti. Com’è noto, nella concezione cristiana, i corpi risorti sono il massimo compimento dello stato di beatitudine. Nessun filosofo greco avrebbe potuto immaginare una simile associazione. L’ideale della perfezione spirituale, per i saggi del neo-platonismo, che pure si servivano della metaforica dell’armonia musicale per descriverla, è la vibrazione perfettamente a-fona e silenziosa dell’anima. La musica delle sfere è tipicamente “inudibile”. La musica effettiva rimane una buona propedeutica, a certe condizioni, per l’allenamento del corpo all’autoregolazione degli affetti e della mente. Il suo scopo è però quello di dissolversi, perché essa non contiene in sé nessuna ragione di fine, nessuna iconicità della reale perfezione del logos. Il massimo del compromesso, biblicamente inevitabile (l’uomo biblico vive, religiosamente, di canti e di suoni), lo troviamo nel giudeo-ellenista Filone di Alessandria, che ha molto ispirato anche la teologia patristica cristiana. «Non si può ringraziare Dio, come fa la massa, con oggetti materiali, con regali consacrati o sacrifici […] è meglio farlo con canti di lode e inni, ma senza far percepire le voci normalmente udibili: è meglio infatti far risuonare la musica nello spirito invisibile» (La piantagione di Noè, 126).
Ma Agostino fa anche di più, nella teorizzazione della qualità spirituale del significante musicale che risuona sensibilmente. Nelle Confessioni, e nel Commento ai Salmi, soprattutto, Agostino abbozza un ordinamento del significante sensibile, che risuona responsorialmente, di grande portata innovativa (in termini di codice filosofico-teologico, prima ancora di diventare nucleo di invenzione estetica-compositiva). Gli elementi di questo ordinamento, che legittima la qualità superiore del logos musicale del sensibile, rispetto quella del logos mentale e nominale, sono tre: la salmodia espressiva, l’inno ambrosiano, l’articolazione dello jubilus.
Nel primo elemento riconosciamo il germe di quel lungo apprendistato sintattico e modulativo, attraverso il quale la musicalità-vocale si è fatta responsoriale (discorsiva, interpretativa, creativa) aderendo all’orlo espressivo della prosodia semanticamente indirizzata della parola (della Parola). “Responsoriale” qui, è da intendere in dialettica con il modello ieratico della proclamazione sacra, che annulla l’espressività e rimane sostanzialmente indifferente al semantico. Come anche all’uso poetico del recitativo accompagnato, dove il tratto musicale dello strumentale imane estrinseco alla cadenza ritmica della parola narrante. Nell’ispirazione biblico-cristiana non c’è l’idea dell’infinito rispecchiamento di una matrice musicale dello spirito e del cosmo, che va semplicemente adeguata e ripetuta. Il “gregoriano” che noi conosciamo (e ancor più quello che non conosciamo, per mancanza di notazione) è l’emblema di questa articolazione del valore aggiunto dalla qualità musicale del significante sonoro (che oltrepassa i limiti del significante prosodico della qualità espressiva del significante). La benedizione che Agostino dà a questa “nuova pratica” (che precede la cosiddetta “seconda pratica” della storia della musica, ma ne ispira il “recitar cantando”), vincendo le perplessità di molti Padri, avrà un influsso enorme, come si sa, sulla idea stessa della composizione musicale: ossia sull’arte di lavorare artisticamente e autonomamente sulla qualità prosodica/modulativa del significante.

5. Il secondo elemento, l’inno ambrosiano, è l’evento-choc del “pezzo chiuso”, ossia del significante musicale di senso compiuto, che lavora sull’alleanza infinita con una matrice combinatoria finita. È l’esaltazione del singolare-finito del significante, che possiede una intrinseca dignità e un’autonoma capacità di rappresentare l’intero del senso. La simulazione di infinità dell’arabesco senza fine, la ripetizione infinita dei modelli archetipi, non sono più necessari per l’evocazione del significato divino e trascendente. In più, l’idea di una matrice combinatoria (prosodica, melodica, ritmica) si porta oltre la mera estemporaneità dell’articolazione espressiva del musicale: rende possibile un codice autonomo per l’elaborazione del costrutto musicale, fa emergere la possibilità di organizzare un tempo parallelo a quello dei ritmi naturali della parola e del respiro. Il modello ha generato un’intera cultura della composizione musicale del “temperamento temporale” (quello della musica “figurata”, che compone e scompone l’elemento apparentemente più inesorabile e inscalfibile del significante: il tempo, e il suo procedere verso la morte). Nella sua forma originaria, l’invenzione sopravvive comunque, rigogliosissimo, nella canzone d’autore e di consumo. (Era già, all’origine, la nobilitazione e l’ospitalità musicale più prossimo al significante senso-motorio del melos-ritmico, il più “universale” e “popolare”).
Infine, il terzo elemento, forse il meno studiato e il più interessante, è nell’esaltazione agostiniana dello jubilus, elaborazione musicale del significante sonorico senza parole. Il germe della “musica pura”, che esalta la singolarità performativa e sintattiva del modo in cui la musica celebra ed enfatizza sonoricamente la vitalità e l’eloquenza “immateriale”/”spirituale” del significante. «Qui jubilat non verba dicit, sed sonus quidam est laetitia sine verbis; vox est enim animi diffusi laetitia, quantum potest, exprimentis affectum, non sensum comprehendentis» (Enarrationes, 99, 4). Per assistere agli effetti inimmaginabili di questa consacrazione dell’autonomia del significante musicale, abbiamo dovuto attendere molto. La sua compiuta visione, in cui la musica appare come il linguaggio di Adamo in confidenza interlocutoria con Dio, prima che le lingue si formassero, e lo strumento musicale come il tema di una investitura “profetica” dell’alleanza fra il mondo della natura e il mondo della parola, appare già tutta intera nella poetica e nella pratica di Hildegarde von Bingen, la cui strepitosa invenzione – senza antecedente e, all’epoca, senza conseguente, è stata escurata dalla sua celebrazione come erborista esoterica. Ne è potuta nascere, infine, con improvvisa accelerazione – tra Mozart e Wagner, appunto, l’evidenza della possibilità di incorporare musicalmente un orizzonte del significante che precede il testo e la parola, e incorpora nella sua vitalità, rendendoli “strumenti”, anche gli elementi della natura che si sono congedati dalla loro vita e significazione “naturale” (legno secco, gusci vuoti, budelli e pelli). Ne è derivata anche l’immaginazione della possibilità di abitare, nella celebrazione musicale del significante, un “mondo parallelo”, immateriale eppure sensibile, incorruttibile eppure capace di pathos, privo di potenza macchinica eppure saturo di senso. Un mondo che sorge e risorge – mediante la musica – anche dall’impotenza della parola, dalla corruzione della natura, dalle rovine della storia.
È pur anche il “demoniaco” della musica, naturalmente, come idealismo senza responsabilità e come evasione senza sacrificio, come come ha pertinentemente illustrato Vittorio Mathieu (ma l’Ottocento ne aveva consapevole dimestichezza). È ciò che accade dove la musica voglia oltrepassare, come illusoria volontà di potenza – costruttiva e o decostruttiva – la sua debolezza: immaginandosi di poter/dover trasferire l’agilità e la duttilità, la felicità e la drammatica che il significante abita e sperimenta musicalmente, sulla confromità del significato desiderato per lo spirito oggettivo e del corpo-mondo. Ne può venire invece un contrappunto dialettico decisivo per la vitalità del significare – tutt’altro che sterile, per la qualità dello spirito soggettivo – là dove la musica fornisce – in modo del tutto non apologetico o strumentale – un buon pre-testo e un buon con-testo, in un modo che non è per nulla privo di logos e di nomos, per sostenere la pratica discorsiva del pensiero. A patto che sia un pensiero che si prende cura della intrinseca qualità riflessiva che si esercita mediante la risonanza delle possibilità compositive del significante. Anche là dove il significato appare, al momento, ottuso, incivile, s-composto. Qui sta la sfida, per una nuova civiltà della musica forte (Quirino Principe), della quale abbiamo troppo a lungo patito la mancanza, per eccesso di ascesi e contrapposto eccesso di edonismo. Dio sa se ne abbiamo bisogno. «Se rimaniamo senza giustizia, Dio ci lascerà senza musica» (Quintiliano).
La ri-composizione della grande musica con l'appassionata curiosità di un nuovo tempo del mondo, che deve venire, non è una faccenda ornamentale. Non appena l'impresa riuscisse, l'alleanza fra le generazioni ritroverebbe la continuità della storia, il piacere creativo dell'invenzione batterebbe le mistiche fasulle del godimento, l'appassionata curiosità di un nuovo umanesimo aprirebbe in due il guscio della rassegnazione, che ci impedisce di credere che non abitiamo la terra invano. La musica può davvero fare questo? Capisco l'obiezione della saggezza all'azzardo rischioso dell'assunto. Risponderei con un'altra domanda: non è forse questo che ha fatto, la musica, finora?


Riferimenti biliografici

P. Sequeri (2008), La risonanza del sublime, Studium, Roma.
Id. (2006), Eccetto Mozart, Glossa, Milano.
Id. (2005), Musica e mistica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano.



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