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Politicità del mercato e la crisi come sintomo

LAURA BAZZICALUPO
Articolo pubblicato nella sezione Volti della crisi.

Il dato evidente che costituisce la sfida per il pensiero politico è il fatto che l’economia governa le nostre vite in modo fino ad oggi inaudito, mentre la politica sembra travolta da una crisi senza precedenti.
Nonostante questa evidenza, la prospettiva che vorrei proporre è che quella che chiamiamo economia – non essendo semplicemente una modalità di produzione e distribuzione, ma piuttosto, come è proprio del capitalismo oggi compiutamente realizzato, la tecnica di governo neoliberale – è una forma di politica che organizza la convivenza e i posizionamenti sulla scena pubblico/privata.
Una forma di politica che però nega se stessa, il proprio ruolo formativo del sociale, sottraendo così la disposizione delle cose e dei viventi alla revocabilità politica: presenta infatti questa disposizione come naturale, costruita secondo una verità/sapere scientifico che offre il modello della loro disposizione necessaria e adeguata. Disporre secondo verità tecniche è il carattere specifico della biopolitica, oggi bio-economia. Economia cioè, che non si limita a produrre e distribuire ma investe e suscita la produttività del bios, del vivente, coinvolgendolo tutto nel processo economico: dispone delle vite e delle soggettivazioni strutturandole secondo la verità economica. Poiché questa verità/sapere ha effetti di potere, orientando condotte, scelte e gli stessi desideri, la politica propriamente detta non può che essere subordinata, nel senso di pensarsi efficace solo a condizione di legittimarsi attraverso il sapere esperto che definisce attraverso leggi economiche le regole del comportamento umano.
È necessario dunque decodificare il discorso e le pratiche nelle quali siamo immersi. E la violenta crisi economica va letta come una spia che segnala la crepa che era presente, ma invisibile nel tessuto del senso comune e dell’immaginario condiviso. Lo spazio di quella crepa può diventare uno spazio politico non più subalterno.
La mia interpretazione intende così problematizzare il sapere economico dominante e la sua aporetica negazione del legame sociale, su un doppio livello. La governamentalità neoliberale, controllando i processi di soggettivazione, sposta l’attenzione sulle dinamiche psichiche e questo ci spinge ad interrogarci sulla loro natura libidica e relazionale. Attraverso questa rotazione prospettica, il mercato diventa una rappresentazione complessa e fantasmatica, diversamente da come la presenta la teoria dominante del monetarismo. Complessità, non coincidenza, molteplicità dei piani, faglie e incrinature – messe in evidenza oggi dalla crisi – rendono possibile la rivedibilità da parte della agency politica.

La politica negata della teoria economica neoclassica

Qual è l’effetto politico della svolta della teoria economica neoclassica rispetto alla economia politica delle teorie del valore, dove centrali erano il lavoro e i rapporti socio-politici tra classi produttive? Proprio l’effetto di spoliticizzazione, di neutralizzazione e naturalizzazione quasi destinale della scena in cui siamo immersi.
Da Walras a Pareto fino a Friedman e Arrow, l’attenzione alla psicologia delle scelte, ai desideri, ai sistemi di preferenze piuttosto che alla meccanica dei bisogni e delle ore di lavoro equivalenti al valore delle merci (e tra quest’ultime, a quella strana merce che è il lavoro umano) si combina con una paradossale opzione per una rigida formalizzazione scientifica del comportamento economico dell’individuo razionale nella relazione di scambio (Friedman 1996). Una opzione che astrae dalla complessità delle coordinate reali. Le caratteristiche storiche (e politiche) del capitalismo vengono così oscurate. Postulato della neutralità della moneta ‒ introdotto dal monetarismo che è dottrina dominante nei dipartimenti di economia ‒ e primato del processo di scambio su quello produttivo si saldano in una rappresentazione non-storica e dunque non modificabile dei comportamenti. Lo scambio e il codice monetario che lo rende rigoroso e formale presiede a tutte le scelte di vita, sottoposte ad una logica economica razionale, cioè capace di valutare i mezzi atti ad ottimizzare gli scopi con il minor costo possibile (Buchanan 1989; Foucault 2005): dall’acquisto di una casa, alla decisione di vendere il proprio tempo di vita (da parte di un lavoratore immaginato sempre come libero imprenditore di se stesso), all’investimento nell’educazione competitiva per i figli o in un corpo più sano e più funzionale, fino alla preferenza per relazioni interpersonali acquisibili sul mercato, per evitare così di arrischiare il proprio capitale affettivo. Se l’astrazione dalle condizioni concrete e variabili, in questo modello di scambi estesi a tutti i rapporti tradizionalmente carichi di affettività sussunti in una logica di equivalenza assoluta, è già di per sé inquietante, vi si aggiunge il fatto che venga oscurata la complessità della macchina del desiderio.
Questa teoria è diventata da un trentennio uno tra i più potenti dispositivi ideologici di controllo e di trasmissione dell’egemonia culturale dominante: le vite acquisiscono la loro forma all’interno di questa logica economica. Se nelle accademie i modelli matematici diventano la soglia non aggirabile della scientificità, nel senso comune questo riduzionismo comporta una drastica semplificazione dell’immaginario. Si afferma una antropologia povera: concetti sfuggenti, antropomorfici quali utilità, desiderio, benessere, preferenza, vengono tradotti in funzioni matematiche. Mutamenti storici, reversibilità, incertezze delle dinamiche psicologiche, path-dipendency sono disconosciuti a vantaggio di una volontà utilitaristica presunta costante degli individui, isolati da contesti sociali e posti in ipotetiche condizioni di pari opportunità di scelta (che è qui il nome della libertà). Astrazione paradossale che evidenzia la portata performativa di questo regime di verità, che genera soggetti sempre più orientati all’isolamento egoistico, free riders organizzati sul principio di reciproca indifferenza come massimizzatore dei propri obiettivi. E produce così la propria parziale conferma. Conferma che dovrebbe essere oggi disdetta dalla grave crisi del sistema. Se non che questa scienza economica legge la crisi come generata da una non sufficiente applicazione del modello: ancora un piccolo sforzo e sarete compiutamente razionali e autonomi, perfetti homines oeconomici!

Il mercato è un legame sociale. Feticci e fantasmi

Pensare l’economia non nella sua dimensione tecnica, ma come modus delle relazioni sociali e politiche mette in gioco il punto di vista filosofico-politico, che mira a problematizzare il senso comune.
Il mercato si autorappresenta come luogo di immunizzazione dal legame sociale, dunque come slegame: insocievole socievolezza, intesa nel senso della feconda interdipendenza tra soggetti con interessi concorrenti e divergenti, oppure reciproca assoluta indifferenza come nella teoria dell’equilibrio di Walras. Di più: attraverso il mercato, gli uomini si sottraggono all’universo comunitario del debito, dell’originaria dipendenza reciproca, dell’obbligazione alla gratitudine, al munus. Comprendiamo meglio a questo punto quel paradossale combinarsi nel modello neoliberista di attenzione alla psicologia e al desiderio e opzione matematica. Pur riconoscendo nel bios-desiderio la forza motrice del processo economico, la rappresentazione la frena e la rende matematicamente prevedibile nella razionalità del comportamento di scelta, rifiutandone l’anarchia vitale, il disordine squilibrato delle passioni e delle pulsioni: tutte cose che renderebbero rischiose le relazioni tra uomini. C’è una riduzione persistente del legame economico e di quello politico a legame sterilizzato, neutralizzato (si potrebbe dire, spoliticizzato) reso prevedibile e controllabile (Bazzicalupo 2006). Teoria e pratiche economiche neoliberali, dopo avere evocato le componenti libidiche che motivano le relazioni umane, le costringono con una forzosa astrazione nello scambio equivalenziale rimuovendo dalla scena un pericoloso legame libidico, una macchina desiderante e relazionale. Contro il disordine evocato dalla riconosciuta centralità del desiderio scatta la rappresentazione neutralizzante.
Possiamo considerare ora l’altro lato della questione. La svolta postfordista in direzione del capitalismo immateriale, cognitivo, richiede una forma di consenso, di partecipazione libera/spontanea che era estranea alla vecchia forma produttiva fordista che era antagonistica sotto il profilo salariale e di classe, ed esecutiva nella definizione del lavoro. Alla produzione di cose subentra un’offerta crescente di servizi, quindi di relazioni uomo-uomo; relazioni immateriali sostenute dalla svolta verso la finanziarizzazione (Marazzi 1999). È questo l’altro versante della progressiva implicazione della vita umana nella logica economica: capacità relazionali, psicologiche, ricchezza emotiva, fantasia vengono immesse nel mercato. E questo, come sappiamo, trova una eco adeguata proprio nel modello economico neoliberale e nella sua estensione della ratio mercantile a tutte le scelte di vita! Il potere bioeconomico si esplica esattamente sovrapponendo la semantica economica su quella relazionale (sociale e antropologica), orientando comportamenti e forme di vita a sottoporsi alla logica economica, cancellandone così ogni specificità e ogni eccedenza di senso nell’ambito di una presunta equivalenza monetaria.
È questa codificazione economica della complessità relazionale e psico-sociale che occorrerebbe decodificare. Bisogna rendere al meccanismo del mercato la sua plusvalenza affettiva: luogo di desideri, conflitti, spostamenti, soddisfazioni e frustrazioni che hanno il loro senso altrove e prima dell’accesso al linguaggio economico stesso, anche se dentro di esso si costituiscono. Il processo di soggettivazione bioeconomica ci obbliga a questo approfondimento.
Oggi la cooperazione richiesta al lavoratore non sta nell’ordine del disciplinamento, ma mobilita il sé desiderante (Boltaski-Chiappello 1999). Al lavoratore cognitivo è richiesto lavoro vivo, spirito d’iniziativa, creatività, cooperazione con il team, fantasia e immedesimazione nelle fantasie di chi comprerà e userà. Si esaltano, agli antipodi del soggetto salariato, doti relazionali, affettive, stile, forma di vita. Un carattere che, sollecitando l’espressività dei soggetti, dà conto della straordinaria pervasività del modello neoliberale e del suo immaginario euforico di autorealizzazione creativa (Lazzarato: 1997). La dimensione psicosociale però esigerebbe una articolazione più adeguata, che denunci l’eccessiva semplificazione e la sua piega ideologica positiva.
Possiamo utilizzare il paradigma psicoanalitico nella sua versione lacaniana, non ovviamente in senso terapeutico ma filosofico, perché offre strumenti per allargare l’orizzonte ontologico facendo del soggetto il punto di intersezione tra identificazione immaginaria, ruolo simbolico e fantasma (Lacan 2005, pp. 5 ss.). Non è un caso se pensatori politici, come Butler, Spivak e Laclau o Mouffe, si servono con una certa libertà di queste categorie per ripensare e rilanciare la politica nello scenario stagnante della governamentalità neoliberale: il fantasma è infatti quel terzo elemento fantasmatico, rimosso o forcluso nelle autorappresentazioni immaginarie e nelle identificazioni sociali, che può dare ragione dei rovesciamenti, delle dinamiche di differimento e di sacrificio, di credito e debito, dell’attaccamento appassionato all’assoggettamento, della pulsione di morte implicata nell’ideale narcisistico dell’autorealizzazione, che la razionalità economica e la visione utilitarista non vedono. La tensione tra immaginario di autorealizzazione, ruolo simbolico sociale e fantasma rende al legame sociale del mercato un senso che eccede l’economia stessa, un plus da pensare fuori della quantificazione economica. E diventa più visibile nell’esperienza e nel racconto della crisi (Bazzicalupo-Tucci 2010) che è il momento critico in cui la casa scricchiola e dalle crepe scivolano via gli spettri che la abitano segretamente. Articolare la scena, restituire complessità al legame sociale del mercato significa rendere visibili gli spettri che sostenevano l’edificio liscio e luminoso dell’immaginario sviluppato intorno alla verità economica egemonica.
Riordiniamo gli strumenti interpretativi: l’immaginario struttura e sostiene i comportamenti, anche al di là ma non indipendentemente dalle identificazioni simboliche sociali (che sono il nostro essere, per esempio, lavoratori dipendenti, le prospettive di pensione che ci vengono garantite, l’avere capitali, case). Cosa significa che l’immaginario non coincide con l’ordine simbolico, pur dipendendone? Significa che le nostre scelte non corrispondono a quei posizionamenti sociali e sono fedeli piuttosto ad una idealizzata autorappresentazione del nostro essere autonomi, che è frutto di un investimento fantasmatico (appunto, immaginario) che sostiene il desiderio e la soggettività, orientando verso oggetti concreti quel senso di vuoto, di non corrispondenza che è originato dalla stessa identificazione sociale. Questo immaginario ha una funzione enorme nell’orientamento del desiderio. Non è la semplice realizzazione allucinatoria di un desiderio o illusione che ci manipola: è quella fantasia che fornisce le coordinate trascendentali al desiderio e «ci insegna come desiderare»: è comprensibile dunque che abbia un peso enorme nel consenso politico... Nella fase di capitalismo immateriale che fa leva sulla produttività dell’immaginazione, del sapere, della relazionalità, l’immaginario è il discorso che ci autorappresenta come capitale umano, imprenditori di noi stessi, il discorso della gestione anarchica di ciascuno della propria stessa vita come capitale autonomo: immaginario acefalo, antidisciplinare e gratificante, condiviso dagli stessi antagonisti del capitalismo (Hardt-Negri 1995) e dunque naturalizzato, sottratto alla politica. Immaginario narcisistico di creatività e autorealizzazione che si tiene con la centralità del consumo (di per sé passivizzante) e la spinta all’accesso immediato alla soddisfazione: una autorealizzazione che, mentre esalta la componente narcisistica della espressività individuale, spinge il desiderio verso la immediata soddisfazione psicotica e antisimbolica, verso il godimento, la saturazione illimitata, piuttosto che verso l’interdetto antropogeno e verso la sublimazione, matrici delle soggettivazioni edipiche. Questo potente ed egemonico immaginario sociale assume il mercato capitalista come l’orizzonte di ciò che è oggi pensabile e dicibile. Ma oscura, forclude un Reale: qualcosa di reale che fa attrito con questo immaginario ed eccede anche la nostra identificazione simbolica.
Che il legame economico avesse natura fantasmatica e il mercato avesse densità simbolica e immaginaria è stata l’intuizione del Marx della tesi del feticismo delle merci, per quanto ancora racchiusa in un orizzonte ontologico. È Marx che per primo ci dice che questa storia materiale di dominio e di sfruttamento ma anche di inaudite traslazioni metaforiche, è una storia di fantasmi. Marx pur non disponendo di una teoria del simbolico né di una teoria psicoanalitica, spalanca il doppio fondo immaginativo/immaginario dell’economia capitalista. Il carattere di feticcio della merce, e il suo arcano, titolo del primo capitolo del Capitale, evoca la dimensione fantasmatica come il tratto costitutivo dei rapporti tra uomini che si manifestano come rapporti tra cose, visibili, concrete, eppure sono spettri della relazione di subalternità che il processo di valorizzazione produce (Marx 1970, p. 45). Fetish, feticcio è l’oggetto investito di significato simbolico, immagine di altro; trasfigura la cosa nella sua funzione oggettuale (marxianamente, nel suo uso) per attribuirle un significato insieme individuale e collettivo. L’oggetto diviene portatore del Valore, incarnazione materiale delle relazioni sociali. Ma è inevitabile leggerlo, psicoanaliticamente, anche come l’oggetto che prende il posto dell’oggetto d’amore. Come è inevitabile evocare l’inquietudine, l’impotenza implicata nel concetto di feticismo.
Il punto che qui ci interessa è, però, che il feticismo non sacralizza gli oggetti: anzi ne neutralizza la natura concreta, l’uso quotidiano, per lasciar vagare lo spettro del valore di scambio. Valore di equivalenza che struttura la forma di vita capitalista. E più cresce il sistema, più lo spostamento e la fascinazione che vi sono implicati – nascosti eppur tralucenti nella fantasmagoria della merce in quanto cosa, ma soprattutto in quanto merce-uomo: servizio, relazione di cura, di piacere o di conoscenza ‒ si rafforzano per l’impossibilità di accedere all’oggetto senza passare per l’artificio, il feticcio. Marx ci indica il processo di de-concretizzazione delle cose e oggi delle persone, la loro perdita incessante di senso per diventare puro segno del valore economico.
Come cambia questa vecchia figura del feticismo e del fantasma quando si proietta sul capitalismo di oggi?
Dove il feticismo marxiano rinviava alla utopia di un rapporto sociale trasparente, oggi la risposta si fa più esitante: il rapporto tra uomini non è mai trasparente. Non basta denunciarlo per ritrovare l’innocenza delle relazioni. Lo spostamento fantasmatico ‒ ma siamo ormai fuori da Marx – è strutturale, costitutivo. Non appena c’è produzione per un mercato c’è feticismo, idealizzazione, dematerializzazione, incorporazione spettrale. Non c’è mai bisogno senza che sopravvenga la sua fantasmizzazione nel desiderio: il valore d’uso prima dello scambio è il mito per segnare una dimensione inappropriabile del simulacro. Siamo dentro.

Relazioni di vita: attraversare il fantasma

Si può essere dentro e essere contro? Ci viene in soccorso proprio la spettralità della scena, che ha irretito in una trama di fascinazioni e frustrazioni il nostro approccio. L’immaginario più il fantasma, che è sintomo (il reale) della non coincidenza. La funzione dell’immaginario non è infatti solo quella di sostenere con l’investimento emotivo l’adeguamento all’ordine sociale, ma anche quella di occludere l’antagonismo, l’attrito strutturale che attraversa la società e apre crepe in ciascuna delle soggettività che ne dipendono.
Dobbiamo fare un passo ulteriore e osservare ancora una volta criticamente la rappresentazione neoliberista. Ci racconta di poteri che si intrecciano liberamente in un sistema di scambi, orientati dall’interesse economico di ciascuno e di tutti, verso la soddisfazione soggettiva e immediata. A prima vista sembra ‒ ed è ‒ un radicale ripensamento del Welfare. Il vecchio dispositivo dello Stato sociale ‒ a sua volta biopolitico – viene oggi, in questa crisi, evocato come il fantasma gotico messo da parte da una realtà più moderna, che, nella crisi, ritorna come un convitato di pietra.
Però, a partire dalle considerazioni che abbiamo fatto, non credo che sia quello il fantasma. E non è dunque sufficiente richiamarlo per uscire dal modello. Certamente lo Stato sociale è portatore di istanze di reciproca dipendenza che sono state arbitrariamente rimosse e che oggi riappaiono. Ma a mio avviso non esprime che parzialmente il non detto che sorregge entrambe le rappresentazioni, liberista e welfarista, incrinando quel legame che pure il welfare sembrava difendere, qualcosa che persiste nel nuovo ordine: la sussunzione delle relazioni umane all’interno delle logiche burocratiche-economiche. È quello il fantasma che oggi rivela, nelle crepe della crisi, la sua funzione di fondamento, non riconosciuto ma strutturale della società tardo moderna. E che può aprire la crisi alla sua lettura politica.
La cura, la salute, l’assistenza di bambini e di vecchi, le relazioni di mutuo sostegno, i processi di formazione e di educazione, la gestione del tempo libero, la distribuzione degli spazi, la sicurezza del futuro: la riproduzione della vita, tutta, rientrava già allora nella logica economica, da un punto di vista politico non-partecipativa, non-democratica. Lo spettro rimosso era ed è la fine della gratuità di queste relazioni fondamentali, la loro economicizzazione, il loro trapassare nella sfera del lavoro organizzato. Economicizzazione che ‒ come corollario politico ‒ oscura la diseguaglianza e il conflitto sociale che si scioglie nelle pratiche negoziali sul grado e tipo di consumo-servizio: perdita di agency e responsabilità politica a favore della negoziazione eteronoma.
È questo che non era pensato e non era rappresentato e che cresce smisuratamente nel nuovo immaginario liberista e postfordista, aggravandosi del tratto di egoismo e privatismo che contraddistingue il nuovo blocco egemonico e le sua crudeli diseguaglianze sociali.
Il lato oscuro, il rovescio non detto della rivoluzione narcisista esaltata da un immaginario di intraprendenza, di profitti crescenti è proprio quello che prolunga (accentuandolo in senso antisociale e violentemente discriminatorio) il tratto costante del capitalismo tardo moderno: la traduzione delle relazioni interpersonali in equivalenze economiche, ombra ossessiva nelle vite di ciascuno.
Si può vivere euforicamente la propria potenza creativa di capitale umano, la propria relazione mercantile con gli altri che ci lascia liberi da pesi emotivi, ci immunizza dal contatto e dal contagio interpersonale, si può mettere a rischio in borsa il passato e il futuro ed essere anche eccitati dall’ombra adrenalinica del rischio e del possibile vantaggio.
Finché non esplode la crisi. E le ombre si allungano a coprire la tua scena vitale: perdi tutto e non hai come pagare le relazioni, i servizi, gli aiuti che si negoziano solo economicamente; non ci sono reti spontanee, amicali di protezione: sei solo.
Il codice economico che presiede all’intera realtà e costruisce l’immaginario condiviso occlude proprio i punti morti originari, i fantasmi che sostengono la scena: la mercificazione delle relazioni umane, la perdita di una posizione politica antagonistica fuori dello schema del mercato. La crisi potrebbe illuminare la diseguaglianza sociale, la distribuzione ineguale dei rapporti di forza, gli effetti di violenza e di deprivazione materiale attraverso i quali essi si riproducono e infine la svalutazione delle persone, delle vite stesse tanto esaltate, risucchiate nell’equivalenza mercantile.
Chi vive queste esperienze di marginalizzazione dovrebbe vedere nella crisi la frattura, la discontinuità: dovrebbe chiedere visibilità a sua volta come gli spettri finalmente visibili, dovrebbe ossessionare gli inclusi con il proprio disagio. E invece al centro del racconto di questa crisi continua ad esservi l’economia come organismo autonormativo, autoreferenziale: per quante macerie ecologiche e soprattutto umane accompagnino la rappresentazione in questi termini dell’economia, permane la convinzione che essa abbia in sé i suoi correttivi.
I giovani: bloccati nei progetti di vita in un precariato che ha perso il suo smalto ideologico, per mostrare il volto dell’ansia, della dipendenza; gli immigrati: che si trovano per primi respinti come concorrenza scomoda che va eliminata a colpi di intolleranza razziale; l’ondata di fame, che come una risacca travolge le zone più fragili del pianeta; le fabbriche: che hanno chiuso i battenti; le manifestazioni: difensive, ansiose, frammentate per paura della disoccupazione. Tutto questo dovrebbe essere visibile ora: visibile la diseguaglianza, la subalternità, il disagio delle vite, il non coincidere di tutti e di ciascuno con l’immaginario autonomistico, con la bolla delirante e autoreferenziale in cui ci siamo formati. La durezza della realtà - avere fame, avere ansia, avere paura – è evento che ristabilisce un contatto con il fantasma rimosso: dovrebbe costringerci a guardarlo negli occhi. Impossibile dissolverlo perché siamo strutturati attraverso quello e non siamo mai stati innocenti; ma la efficacia di quel discorso nel processo delle nostre soggettivazioni si accompagna alla sua contingenza e politicità. Attraversare, prendere in carico il fantasma – non rimuoverlo – modifica le cose pensabili e dicibili e modifica il nostro essere soggetti.
Il rischio è invece che si chiudano gli occhi per non vedere il fantasma che ci dice che siamo fragili. Preziosa, e a sua volta paradossalmente fragile, è la coscienza del disagio, della non coincidenza con l’immaginario; preziosa l’eccedenza, il residuo, la macchia. E va custodita, difesa, ascoltata.
La crisi, a questo punto, potrebbe essere letta - piuttosto che come una deviazione da ‘curare’, da gestire con tecniche problem solving - come sintomo da prendere in carico come guida al riconoscimento della scissione che segretamente attraversa la società. Una scissione che non va coperta, colmata, suturata con una valanga di consumi, ma che va riconosciuta nel processo di soggettivazione che ha formato ciascuno di noi occultando la crepa che si rivela nel sintomo ‒ adattamento e disagio insieme ‒ manifestazione dell’essere fuori dai cardini, del non corrispondere all’identificazione nel potente capitale umano.

Bibliografia

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